NC-208
24.05.2024
Come ad ogni manifestazione cinematografica a cui ODG partecipa, nei prossimi giorni pubblicheremo diversi reportage in cui vi racconteremo dei film che stiamo visionando alla 77ª edizione del Festival di Cannes. Per questo quarto appuntamento ci concentreremo su cinque titoli della competizione, tra cui Partenope, la nuova attesissima opera di Paolo Sorrentino, The Apprentice, il biopic su Donald Trump di Ali Abbas con protagonisti Sebastian Stan e Jeremy Strong, Motel Destino, il noir erotico di Karim Aïnouz, ed infine Anora di Sean Baker e Grand Tour di Miguel Gomes, due tra le migliori opere della Competizione fino a questo momento. Continueremo anche a raccontarvi degli ultimi titoli presentati in Un Certain Regard e Quinzaine des cineastes, come Viet and Nam di Truong Minh Quy, Black Dog di Guan Hu, September Says di Ariane Labed e East of Noon di Hala Elkoussy. Cogliamo anche l’occasione per raccontarvi di Maria di Jessica Palud, lo struggente biopic su Maria Schneider che mostra la traumatizzante esperienza dell’attrice sul set di Ultimo Tango a Parigi (1972), e infine vi parleremo dei cortometraggi presentati nel progetto The Philippine Factory nella Quinzaine des cineastes.
Parthenope, di Paolo Sorrentino
“Che cos'è l’antropologia?”. É questa la domanda che la giovane Parthenope (Celeste Dalla Porta) si chiede più volte all’interno della nuova opera di Paolo Sorrentino. Spesso a certe domande non ci sono risposte facili o semplici, e adoperare una definizione letterale sarebbe troppo riduttiva, bisogna andare oltre l’apparenza di certe cose o perché no, anche delle persone, per capire cosa o chi siamo veramente. È questa la tematica principale di Parthenope, un riadattamento moderno del mito della fondazione di Napoli, la “musa” del cineasta italiano. La reinterpretazione del racconto non coinvolge però una creatura dall’aspetto di sirena, ma una giovane che fin dall’adolescenza ha gli occhi di tutti puntati addosso. Parthenope é infatti una donna bellissima, il cui fascino potrebbe far cadere fra le sue braccia qualsiasi uomo, ma questo non è lo scopo della ragazza, c’è qualcosa che va oltre il suo aspetto, c’è una persona colta che vuole assimilare più conoscenza possibile e, dopo aver tentato invano di diventare una star, decide di iscriversi alla facoltà di antropologia. Ma nel frattempo, il suo cuore è conteso tra due uomini, quello del fratello Sandrino (Daniele Rienzo) e quello dell’amico di lunga data Raimondo (Dario Aita). Ma la voglia di approfondire il mondo che le sta attorno la farà allontanare da queste due figure a lei care e, sotto consiglio del suo cinico professore Marotta, inizierà un viaggio interno al capoluogo campano per assaporare e vivere in prima persona le usanze e le tradizioni famigliari. Durante questo periodo, che va dalla fine degli anni ‘60 fino a quelli del decennio successivo, incontrerà diverse persone che le faranno cambiare la propria percezione della vita, tra cui il vescovo Tesorone (Peppo Lanzetta), simbolo del potere spirituale della Chiesa all’interno della città di Napoli. Proprio con questo personaggio, Sorrentino analizza il rapporto tra sacro e profano, tra sesso e religione, fino a quando entrambe le cose diventano una sola. Ad ammaliare del film - oltre alle sue metafore e allegorie visive messe in risalto dalle immacolate composizioni del regista e della direttrice della fotografia Daria D’Antonio - è l’interpretazione centrale di Celeste Dalla Porta, che illumina lo schermo grazie alla sua presenza carismatica, caratterizzata dall’istintività di una donna ancora alla ricerca di se stessa. Parthenope è un esperimento interessante, un’opera caratterizzata da una struttura a vignette - dove la protagonista viene a contatto con svariati personaggi - che affascina ma non convince del tutto, come ad esempio l’utilizzo limitato di Gary Oldman o qualche scena che risulta troppo indulgente anche per gli standard del regista. Nonostante determinati problemi Parthenope è però un'esperienza visiva e sensoriale che va vissuta sul grande schermo.
September Says, di Ariane Labed
Fa il suo debutto come regista, nella sezione An Certain Regard, Ariane Labed, attrice francese che ricordiamo aver vinto, nel 2010, la Coppa Volpi per la sua interpretazione nel film Attenberg (2010). Con il suo primo lungometraggio, Labed mostra di conoscere molto bene il mezzo cinematografico, nonostante alcune mancanze e incertezze nella scrittura tipiche di chi è agli inizi. September Says si concentra sul rapporto tra due sorelle nate a 10 mesi di distanza, una a settembre e l’altra a luglio. Se la prima è iperprotettiva nei confronti della sorella e vive nel proprio mondo incurante di quello che gli altri possano pensare di lei, la secondogenita, invece, è molto più curiosa e aperta nei confronti di ciò che la circonda. Le due ragazze vivono con la madre, Sheela, stilista e artista che non sa come gestire il rapporto con le proprie figlie, presentandosi più come un’amica che come una madre. Un giorno September viene espulsa da scuola e ciò porterà un cambiamento in July, che cercherà di autodeterminarsi allontanandosi dal controllo della sorella maggiore. Ariane Labed mette in piedi un rapporto tossico e vincolante: September domina e controlla ogni singolo aspetto della vita di July, mentre quest’ultima vorrebbe altro non riuscendo a liberarsi fino all’ultimo dalla figura che sente più vicina a sé. La regista francese gira un film che stilisticamente si avvicina molto al cinema dei Fratelli D’Innocenzo, fatto da una fotografia cruda, ma con dei momenti in cui i colori si saturano per evidenziare un'emozione o uno stato d’animo dei personaggi. Inoltre, come i fratelli romani, Labed amplifica, e fonde, la stranezza con la normailtà, come quando caratterizza il rapporto tra le due sorelle, a volte al limite dell’incesto, o semplicemente inscenando momenti intimi e allo stesso tempo disturbanti in grado di mettere a disagio lo spettatore. Un altro aspetto in comune con il cinema dei D’Innocenzo, è forse anche la velata violenza che rimane intrinseca in tutto il racconto, che sembra dover esplodere da un momento all’altro ma che invece si manifesta in pochi istanti e senza clamore. Per essere un’opera prima, Labed dimostra di saper costruire un ottimo ritmo e di possedere la capacità di descrivere perfettamente un rapporto malsano. Purtroppo l’esordiente regista pecca nella rappresentazione della madre, interpretata da una splendida (ma purtroppo sprecata) Rakhee Thakrar, che appare e scompare sullo sfondo senza mai risultare davvero approfondita.
La Pampa, di Antoine Chevrollier
Antoine Chevrollier, dopo aver iniziato a lavorare nella serialità televisiva, debutta nel mondo del cinema con il suo primo lungometraggio La Pampa, presentato nella sezione Semaine de la Critique di Cannes. Il film è una perfetta, quanto riuscita, storia di formazione: Willy vive in una paesino francese dove sorge un enorme pista di motocross nel quale si allena il suo migliore amico Jojo, i due sono inseparabili fin da piccoli e all’inizio sembra che la loro unica grande passione siano le moto. Spronati dal padre di Jojo, entrambi si impegnano per vincere le gare, Willy in qualità di meccanico e Jojo di pilota. Chevrollier all’inizio del film riesce a mettere in scena la tipica mascolinità tossica che molti giovani ragazzi vivono nel corso della propria adolescenza, come se dovessero sempre dimostrare ad amici e genitori di essere dei veri “uomini”. Willy e Jojo si comprendono, non solo perché il piano di entrambi è quello di andarsene il prima possibile dal paese, ma soprattutto perché sanno di presentare al mondo solo una facciata di quello che sono davvero, dei sogni e delle paure che li hanno formati. Tutto il mondo cambia nel momento in cui Willy scoprirà il segreto di Jojo, un segreto che rischierà di annientare tutto quello per cui hanno lavorato. Il regista francese compie un ottimo debutto, i virtuosismi della macchina da presa sono ben calibrati e funzionali al racconto, come la sequenza della gara di motocross finale ripresa dall’alto che si sposta proprio dietro ai piloti, dando al pubblico la sensazione di essere li con loro. Chevrollier ci mostra, attraverso i suoi protagonisti, la complessità dell’essere giovani uomini oggigiorno, in costante bilico tra come la società vorrebbe che fossero e quello che sono veramente.
Motel Destino, di Karim Aïnouz
Dopo la tiepida recezione di Firebrand, period drama su Katherine Parr, la sesta e ultima moglie di Re Enrico VIII, il regista brasiliano ha optato di ritornare in patria, nella regione in cui è cresciuto, per ambientare e dirigere il suo nuovo film. Motel Destino è un noir erotico con protagonista Heraldo (Iago Xavier), un giovane che, insieme al fratello, è stato assoldato da Bambina, una pittrice e capa malavitosa dall’aurea misteriosa, con l’intento di uccidere un debitore francese. La sera prima del colpo però il protagonista opta di passare una serata focosa con una donna e, al suo risveglio, si accorgerà di essere stato derubato e richiuso nella stanza di un motel. Questa scomoda situazione farà arrivare Heraldo in ritardo all' appuntamento prefissato e il fratello sarà costretto a compiere il lavoro da solo, venendo ucciso in poco tempo. La gang di Bambina inizierà a perseguitare l’uomo, che troverà asilo all’interno del Motel Destino, pensione gestita da Deya (Nathalie Rocha) e suo marito Elias (Fabio Asuncao), luogo di ritrovo per scambisti e amanti occasionali. Ispirandosi al cinema erotico degli anni ‘70, Aïnouz dirige un’opera calorosa, densa di erotismo e sesso, che richiama parzialmente il mood delle opere che l’hanno reso celebre a inizio anni duemila come Madame Satã (2002) e O Céu de Suely (2006). Ma l’operazione compiuta dal cineasta risulta essere più dirompente; quello che stupisce di più infatti è il modo con cui Aïnouz rende il motel un personaggio aggiuntivo alla storia, le cui luci al neon e le pareti dai colori sgargianti rispecchiano il desiderio sessuale e l’atmosfera claustrofobica in cui sono costretti a vivere i personaggi. Nonostante il grande lavoro dell'autore nel creare questo mood intossicante e torbido, l’opera fatica a decollare e a diventare degna di nota per varie ragioni. La sceneggiatura e i dialoghi sono piuttosto scarni e ridicoli, aspetto forse giustificato dall’omaggio che il regista vuole compiere verso il cinema pornografico brasiliano, ma oltre a questo, la trama e soprattutto la risoluzione finale appaiono troppo scontate. Inoltre, l’interpretazione monotona e priva di carisma di Iago Xavier demarca ulteriormente l’occasione sprecata. Motel Destino intrattiene ed “eccita” per tutta la sua durata, ma siamo ben lontani dagli standard a cui Aïnouz ci aveva abituati negli anni passati.
East of Noon, di Hala Elkoussy
Hala Elkoussy, artista egiziana che ha sempre lavorato nell’ambiente della video-arte, presenta il suo secondo lungometraggio (il primo fu Cactus Flowers, del 2017) nella sezione Quinzaine des cinéastes a Cannes. East of Noon è un film complesso da spiegare, perché è una forte denuncia sociale ma sotto forma di fiaba. Grazie alla fotografia curata dal dop Abdelsalama Moussa - alla sua seconda collaborazione con Elkoussy - il film, girato in 16mm e in bianco e nero, sembra uscire direttamente dagli anni ‘50, ma poi presenta dei rari frame a colori dove le luci dell’alba illuminano il mare e i personaggi con toni chiarissimi, quasi pastello. Elkoussy presenta il mito del cantante Abdo, nipote della raccontastorie Nunna, che insieme alla giovane Galala si ribella al regime portato avanti da Snowman e i suoi uomini. Il film, nonostante un’impostazione barocca, con scene spesso troppo cariche di simbolismi o situazioni confuse, si presenta come una perfetta allegoria del potere autocratico che cerca di schiacciare chiunque provi a ribellarsi. Hala Elkoussy, in due ora di film, purtroppo tende a perdersi e ad aprire dinamiche, nella storia e tra i personaggi, che restano senza risposte, ma nonostante queste imperfezioni, la regista ci trasmette, attraverso il personaggio dell’anziana Nunna, l’immenso potere che hanno le storie. Attraverso i racconti possiamo decidere le sorti dei potenti o di coloro che ancora non sono nessuno, chi verrà ricordato come un eroe o chi come una persona vile e meschina.
Being Maria, di Jessica Palud
Presentato nella sezione Cannes Premiere, il secondo lungometraggio di Jessica Palud racconta la struggente storia di Maria Schneider (Anamaria Vartolomei), focalizzando la sua attenzione sugli eventi traumatizzanti della produzione di Ultimo Tango a Parigi (1972) e le implicazioni negative che quell’esperienza ha avuto sulla carriera e, soprattutto, sulla salute mentale dell’attrice. La Schneider e il coprotagonista Marlon Brando (Matt Dillon) erano consapevoli che nel film sarebbe stata presente una scena di violenza sessuale, ma quest’ultimo, con il consenso di Bernardo Bertolucci (Giuseppe Maggio), aveva optato di rendere la scena il più realistica possibile… Evitando di entrare nel dettaglio, questa situazione provocò un forte shock emotivo nell’attrice, che dopo un paio di anni dalle riprese raccontò la sua verità, ammettendo di essersi sentita violentata sul set. Maria, adattamento del romanzo You Were Maria Schneider di Vanessa Schneider, si concentra esclusivamente sugli aspetti più tristi della vita dell’attrice; dagli abusi perpetrati dalla madre durante l’adolescenza, agli eventi di Ultimo Tango a Parigi, fino alla sua conseguente spirale decadente caratterizzata dalla depressione e dalla dipendenza da stupefacenti. Questo approccio permette a Palud di discostarsi dalla struttura didascalica dei classici biopic tramite diversi salti temporali, ma nutriamo qualche perplessità sulla necessità di raccontare ogni aspetto dolente della vita di questa donna. La visione infatti risulta piuttosto struggente e inutilmente crudele nei confronti di Schneider, con un unico momento “positivo” che avviene verso la fine del film, dove l’attrice racconta le buone esperienze sul set di Professione Reporter (1975) di Michelangelo Antonioni e Merry-Go-Round (1980) di Jacques Rivette. Nonostante queste riservatezze, la pellicola risulta comunque ben riuscita nel suo intento, soprattutto grazie all’interpretazione straordinaria di Anamaria Vartolomei.
The Apprentice, di Ali Abbasi
Con solo due lungometraggi all’attivo, Border (2018) e Holy Spider (2022), Ali Abbasi aveva già dimostrato un’incredibile versatilità e c’era parecchia trepidazione nel vedere con quale genere o storia si sarebbe districato nel suo nuovo film. La scelta è ricaduta sul racconto di un personaggio che nessuno si sarebbe mai aspettato, ovvero Donald Trump (Sebastian Stan), più nello specifico durante il periodo tra il 1971 e il 1986, dove l’imprenditore narcisista creò il suo impero economico. La persona fondamentale dietro a questo successo è stata Roy Cohn (Jeremy Strong), avvocato ed esperto politico che ha plasmato l’ex Presidente degli Stati nell’uomo cinico e senza scrupoli che è diventato. Visto il soggetto principale di The Apprentice - quello sulla dinamica di potere tra Trump e Cohn - e il talento dietro alla macchina da presa di un cineasta del calibro di Abbasi, ci si aspettava qualcosa di più radicale e provocatorio, ma purtroppo il regista di origini iraniane si é limitato a raccontare una storia già conosciuta agli occhi del pubblico. La didascalica struttura del lungometraggio, che richiama ampiamente quella del biopic “alla Wikipedia” non ha convinto del tutto e certi eventi della vita di Trump sono solamente accennati e mai sviluppati a fondo. Tecnicamente il film ha qualche sprazzo di originalità; la parte ambientata negli anni ‘70 ha una resa visiva che richiama l’uso della pellicola, mentre quella degli anni ‘80 ricalca più lo stile televisivo dell’epoca e l’estetica da VHS, ma a parte queste due scelte, nient’altro è degno di nota, soprattutto se si prende in considerazione il fatto che Abbasi usa prevalentemente delle hit musicali per caratterizzare i periodi storici, una decisione piuttosto scontata. A nulla valgono quindi le due ottime interpretazioni centrali di Sebastian Stan e Jeremy Strong; il primo porta sullo schermo un ritratto più che convincente di Donald Trump e la scelta di utilizzare la propria vocalità invece di cercare di ricreare farloccamente quello del magnate americano è da apprezzare - a differenza del marcato accento russo usato da Ben Whishaw in Limonov: The Ballad. Per quanto riguarda Strong, fa piacere finalmente vedere un attore del suo calibro trovare “successo” anche nel mondo del cinema dopo il suo eccezionale lavoro nei panni di Kendall Roy nella serie televisiva Succession. L’attore brilla in ogni momento della sua interpretazione, dalle prime sequenze, nelle quali mostra la freddezza dell’avvocato, fino a quelle conclusive dove ci coinvolge nella vulnerabilità dell’uomo in fin di vita per via dell’AIDS. Tutto sommato, The Apprentice è un film piuttosto deludente e sembra quasi che Abbasi si sia approcciato a questo progetto con il solo intento di dirigere un film mirato per l’Awards Season.
Viet and Nam, di Truong Minh Quy
Negli ultimi anni si è potuto assistere ad una sorta di rinascita del cinema vietnamita grazie ad una nuova generazione di giovani cineasti che si sta mettendo in mostra a livello internazionale e sta ricevendo diversi riconoscimenti, basti pensare a due film recenti come Inside the Yellow Cocoon Shell (2023) di Pham Thiên Ân e Cu Li Never Cries (2024) di Pham Ngoc Lân, vincitori dei premi di miglior opera prima nelle edizioni più recenti del Festival di Cannes e di Berlino. Quest’anno, nella sezione Un Certain Regard, è stato presentato il lungometraggio Viet and Nam di Truong Minh Quy, film che narra di due giovani innamorati che lavorano insieme in una miniera di carbone e che, nonostante la loro esistenza sia spesso in pericolo a causa del lavoro che svolgono e dal fatto che l’omosessualità sia considerata un reato, cercano sempre di trovare un modo per alleviare le proprie sofferenze. La struttura narrativa divisa in due parti ricorda quella di Tropical Malady (2004) di Apichatpong Weerasethakul, dove nella prima entrambi i film seguono la mondanità dei due giovani amanti all’interno di un contesto urbano, mentre nella seconda le opere assumono un tono più onirico dato dall’ambiente naturale circostante. Ma a differenza del capolavoro di Apichatpong, Truong sfrutta il contesto mistico naturale per portare avanti un discorso politico legato alla propria nazione, inscenando i traumi e i fantasmi del passato di essa. Infatti, nella seconda sezione dell’opera i due innamorati si spostano dalla città alla campagna per aiutare la madre di Nam a cercare i resti del marito scomparso durante la guerra. L’atto dello scavare, del ricercare qualcosa nel suolo, è di fatto una delle chiavi di lettura del lungometraggio di Truong, come se il cineasta volesse mostrare quanto la sua Nazione ci tenga alla terra natia e alle proprie radici, arrivando a nascondere i segreti più bui in essa. Girato con uno splendido 16mm e con un tono piuttosto pacato che richiama lo slow cinema, Viet and Nam é stata una delle visioni più affascinanti di questo festival.
Anora, di Sean Baker
Anora (Mickey Madison) è una ragazza di ventitré anni che lavora in uno strip club la cui vita viene stravolta quando incontra Ivan (Mark Eydelshteyn), ricco rampollo di una famiglia di oligarchi russi. In breve tempo tra i due nasce una relazione carnale e sentimentale, che sfocerà in un matrimonio furtivo a Las Vegas. Questa scelta provocherà l’ira della famiglia di Ivan, soprattutto per via della concezione retrograda che nutre nei confronti dei sex workers, che cercherà di fare il possibile per annullare l’unione. Quest’ultimo aspetto è sempre stato presente nella filmografia di Sean Baker e, come il cineasta ha rimarcato più volte anche in passato, il suo intento è quello di normalizzarel’universo dei propri protagonisti, come ad esempio quello delle pornostar Mickey (Simon Rex) in Red Rocket (2021) o Jane (Dree Hemingway) in Starlet (2013), oppure quello della prostituzione con Halley (Bria Vinaite) in The Florida Project (2017) e le due protagoniste Sin-Dee Rella (Kitana Kiki Rodriguez) e Alexandra (Mia Taylor) in Tangerine (2015). Sin dalla stupenda scena iniziale, una sequenza della durata di cinque minuti sulle note della versione remixata di Greatest Day, si può denotare la regia dinamica di Baker. Quello che segue è un film tanto divertente quanto stressante, dove l’eroina bakeriana dovrà affrontare innumerevoli difficoltà per riconquistare la propria indipendenza. Infatti, appena la notizia del matrimonio con Ivan verrà diffusa, gli oligarchi ingaggeranno un gruppo di malavitosi per “recuperare” il figlio e riportarlo in Russia. Tra questi ci sono il taciturno Igor (Yuriy Borisov), il goffo Garnick (Vache Tovmasyan) e il “capo” Toros (Karren Karagulian, attore sempre presente nei film del regista). Ma Ivan scapperà in modo codardo, lasciando Anora da sola in preda ai malintenzionati. Si potrebbe tranquillamente citare Uncut Gems (2019) dei fratelli Safdie per il continuo crescendo di tensione all’interno dell’opera, ma Anora ci ha ricordato di più un mix tra le prime opere dei Coen, tra cui Raising Arizona (1987), per la dinamica tra la protagonista e i gangster, e Tangerine dello stesso Baker, per come gestisce il lato della “ricerca” di Ivan. Con una lunga durata di due ore e venti é impressionante notare come non ci sia un solo momento di stallo; il dark humor, il crescendo di emozioni e soprattutto le eccezionali interpretazioni del cast, tra cui quella di Mickey Madison, la cui sincerità e forza di volontà fanno empatizzare per la sua terribile situazione, rendono Anora il capolavoro di Sean Baker e uno dei migliori film del festival. Ma ciò che stupisce ancora di più è la sequenza conclusiva, che non spoilereremo ovviamente, ma possiamo solo aggiungere che farà provare emozioni contrastanti a seconda delle possibili interpretazioni.
Grand Tour, di Miguel Gomes
“Abbandona te stesso in questo mondo e noterai quanto esso sia generoso nei tuoi confronti.” Sono queste le parole che un monaco giapponese rivolge ad Edward, il protagonista di Grand Tour di Miguel Gomes. Ma quella frase è come se fosse rivolta anche allo spettatore, come se il regista portoghese ci invitasse ad abbandonare noi stessi durante la visione del suo nuovo lungometraggio per immergerci in un mondo dove passato e presente coesistono nella stessa dimensione temporale, come se il concetto stesso di tempo fosse un illusione, un discorso sempre presente nella filmografia di Gomes, come si può evincere da Tabù (2012), la sua opera più caratteristica. Dopo aver presentato cinque dei suoi film nelle sezioni secondarie del festival di Cannes, finalmente il regista fa la sua prima apparizione in carriera nella Competizione. Ambientato nel 1918, Grand Tour narra la storia di Edward, un uomo che, senza un preciso motivo, decide di scappare dalla sua promessa sposa Molly per intraprendere un “tour” nei paesi del sud est asiatico, una rotta popolare in quel periodo storico. Molly, convinta del suo amore per Edward, deciderà di intraprendere lo stesso viaggio e inseguirlo attraverso numerosi Paesi. Quello che segue è una sorta di “caccia all’uomo” atipica, una anti Odissea divisa in due sezioni specifiche che mostrano l’arduo viaggio che i protagonisti devono compiere. Ma per analizzare i due punti di vista opposti, il cineasta utilizza un approccio totalmente diverso: ad esempio, la prima sezione che riguarda il viaggio di Edward risulta maggiormente documentaristica - e ricorda in parte Sans Soleil (1983) di Chris Marker - infatti la macchina da presa sembra più interessata a immergere il pubblico nelle meravigliose tappe del tour, dal Vietnam alla Cina, dall’India al Giappone, piuttosto che mostrare il viaggio interiore del protagonista, come se Edward fosse solo una pedina, un materiale di scena per la visione artistica del cineasta. Questo aspetto è rimarcato anche dalla natura sperimentale della regia di Gomes, dove spicca l’onnipresenza del voiceover e un mix tra materiale d’archivio, che rappresenta la realtà di questi luoghi ai giorni nostri, e le sequenze del film ambientate nel passato. La parte incentrata su Molly invece ha un approccio opposto, più sentimentale e sincero, dove Gomes si focalizza sulle difficoltà che la donna deve affrontare per rivedere il suo amato, fino ad arrivare allo straordinario finale nel quale il regista ci ricorda che quello che stiamo vedendo è solamente un prodotto di fiction. Grand Tour non solo è uno dei film più belli dal punto di vista estetico presentati negli ultimi anni, ma anche il capolavoro del festival e soprattutto la summa del cinema di Miguel Gomes.
Directors Factory Philippines, di Don Josephus Raphael Eblahan, Siyou Tan, Arvin Belarmino, Lomorpich Rithy, Maria Estela Piano, Ashok Vish, Eve Baswel, Gogularaajan Rajendran
Directors Factory Philippines è un progetto che aiuta registi emergenti a confrontarsi con il cinema locale e internazionale. Infatti, viene data l'occasione ai giovani cineasti filippini di poter collaborare con video-maker internazionali provenienti prevalentemente da paesi del sud-est e sud asiatico, come ad esempio: Malesia, Singapore, India e Cambogia. Quest’anno i 4 lavori nati da questa iniziativa sono stati presentati alla Quinzaine des Cinéastes. Tra i quattro corti, si comprendono le diverse anime che compongono il nuovo cinema filippino e anche la voglia dei quattro registi di sperimentare con il mezzo, dividendosi tra chi presenta una struttura narrativa più lineare, come i corti Siling e Walay Balay, chi invece preferisce mettere in scena un emozione, come in Cold Cut, e chi, come nel caso di Nightbirds, crea una piccola opera d’arte esteticamente parlando. In questa recensione vorremmo soffermarci su quelli che sono stati i due corti che ci hanno maggiormente colpito. Cold Cut, di Don Josephus Raphael Eblahan e Siyou Tan, è un lavoro dove a farla da padrone sono gli incredibili paesaggi, naturali e urbani, delle Filippine, che anche quando composti da edifici fatiscenti, riescono a trasmettere un certo fascino. La storia racconta di Joy, una giovane ragazza che si presenta a un'audizione per un talent-show. Mentre è in coda uno sconosciuto che lavora nel macello lì vicino, si scontra con lei, portando la ragazza a vivere un’esperienza simil onirica e a conoscere nuovi orizzonti. Eblahan e Tan, costruiscono una storia che non si basa su una narrativa lineare e chiara, ma entra nel mondo dell’inconscio dove i due protagonisti "danzano" i propri stati emotivi in ambientazioni magnifiche. Siling di Arvin Belarmino e Lomorpich Rithy a.k.a Yoki, è un corto agro-dolce che affronta il tema dell’amicizia, dell’amore e del lutto. Malata di cancro Mamang torna nel suo paese natale dopo vent’anni per organizzare il proprio funerale, li si farà aiutare dall’ex compagna e amica Sabina, che gestisce un’agenzia di pompe funebri. Il desiderio di Mamang sarebbe quello di essere cremata, ma ciò va contro la legge e le idee della sua città natale. Belarmino e Yoki, portano in scena un corto che si bilancia perfettamente tra il black humor e la nostalgia di un’amicizia ritrovata anche se per poco. Le due attrici protagoniste, Sylvia Sanchez e Angel Aquino, con la loro splendida interpretazione, ci fanno empatizzare con i loro personaggi dandoci l’illusione di conoscerle da sempre.
Black Dog, di Guan Hu
Nel corso degli ultimi trent’anni la Cina ha subito una rinascita decisiva nel cinema, dopo un periodo di oscurantismo dovuto anche alle vicende di Hong Kong e all’ascesa della filmografia di Stato. Dagli anni ‘90, in poi, però, una serie di autori hanno dato vita ad un nuovo periodo fiorente, anche grazie all’avvento di quella che, successivamente, è stata definita come la “Sesta Generazione”, ovvero una nuova pletora di registi che ha sostituito i grandi maestri degli anni ‘70/’80. Tanti sono i nomi interessanti che hanno contribuito allo sviluppo e alla diffusione planetaria del cinema cinese. Tra questi vi sono sicuramente Zhang Yimou, Wang Xiaoshuai - in concorso quest’anno alla Berlinale con il suo Above The Dust (2024) - Lou Ye - quest’anno al Festival di Cannes tra le proiezioni speciali con il film An Unfinished Film (2024) - ma soprattutto Jia Zhang-ke, anche lui in concorso quest’anno a Cannes con Caught By The Tides (2024). Nell’ultimo decennio, anche un altro autore di talento, ovvero Guan Hu, ha calcato più volte il territorio dei festival, distinguendosi come un nuovo astro nascente del cinema cinese. Nel 2009 ha partecipato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, nella sezione Orizzonti, con il film Cow (2009). Dopo esser sbarcato anche sul mercato italiano con il suo war movie, dal titolo 800 Eroi (2020), Guan Hu arriva per la prima volta sulla Croisette, presentando nella sezione Un Certain Regard il suo nuovo film, dal titolo Black Dog (2024). In Black Dog, il cineasta riporta lo spettatore di sedici anni indietro, a quel 2008 che per Pechino coincise con le prime Olimpiadi mai disputate nel Paese. Ciò che Guan Hu mostra è paradossale: ovvero una Cina che, in televisione, si mostra fiorente e in rampa di lancio, anche a causa della notevole propaganda operata dal Partito Comunista nei confronti della prima grande manifestazione in cui lo Stato sia mai stato coinvolto in prima persona. Una convinzione che risulta, però, fallace, e che è sintomo di una nazione brava a nascondere le proprie lacune sotto l’apparenza dettata anche dalla propaganda. La vicenda ci trasporta così in uno spazio non ben definito a nord del deserto del Gobi, con un paesaggio abbandonato. Lo scenario di Black Dog è a metà tra la post-Apocalisse e le pianure dei western riprese in Cinemascope - attraverso totali e campi lunghi - che mostrano una realtà dismessa, degna di un noir urbano degli ultimi tempi, e ricordano la catarsi pessimistica di un grande film cinese degli ultimi anni: A Touch Of Sin (2013) di Jia Zhang-ke, qui presente come attore. Da Jia, innegabile nome tutelare, Guan Hu riprende anche l’impossibilità di rifondare, per i cittadini cinesi, il legame con la tradizione e le proprie origini palesando l’impossibilità di riconoscerle all’interno di uno Stato spersonalizzante, dove il (quasi) mutismo che attanaglia il protagonista, un Eddie Peng poco espressivo ma molto efficace, diventa metafora di una condizione completamente prosciugata da qualsiasi tipo di empatia tra umani. Il legame che il protagonista stabilisce con il cane in cui si imbatte è il simbolo di un’umanità sempre più reietta, a cui non resta niente se non il finto “scintillio” delle luci delle Olimpiadi. Black Dog è dunque un film politico feroce con notevoli analogie con il sopracitato film di Jia Zhang-ke, senza però ricalcarne la violenza ed anzi escludendola, utilizzando il fuori campo come opportunità per far rinascere la vita in un universo di piena decadenza materiale e spirituale.
NC-208
24.05.2024
Come ad ogni manifestazione cinematografica a cui ODG partecipa, nei prossimi giorni pubblicheremo diversi reportage in cui vi racconteremo dei film che stiamo visionando alla 77ª edizione del Festival di Cannes. Per questo quarto appuntamento ci concentreremo su cinque titoli della competizione, tra cui Partenope, la nuova attesissima opera di Paolo Sorrentino, The Apprentice, il biopic su Donald Trump di Ali Abbas con protagonisti Sebastian Stan e Jeremy Strong, Motel Destino, il noir erotico di Karim Aïnouz, ed infine Anora di Sean Baker e Grand Tour di Miguel Gomes, due tra le migliori opere della Competizione fino a questo momento. Continueremo anche a raccontarvi degli ultimi titoli presentati in Un Certain Regard e Quinzaine des cineastes, come Viet and Nam di Truong Minh Quy, Black Dog di Guan Hu, September Says di Ariane Labed e East of Noon di Hala Elkoussy. Cogliamo anche l’occasione per raccontarvi di Maria di Jessica Palud, lo struggente biopic su Maria Schneider che mostra la traumatizzante esperienza dell’attrice sul set di Ultimo Tango a Parigi (1972), e infine vi parleremo dei cortometraggi presentati nel progetto The Philippine Factory nella Quinzaine des cineastes.
Parthenope, di Paolo Sorrentino
“Che cos'è l’antropologia?”. É questa la domanda che la giovane Parthenope (Celeste Dalla Porta) si chiede più volte all’interno della nuova opera di Paolo Sorrentino. Spesso a certe domande non ci sono risposte facili o semplici, e adoperare una definizione letterale sarebbe troppo riduttiva, bisogna andare oltre l’apparenza di certe cose o perché no, anche delle persone, per capire cosa o chi siamo veramente. È questa la tematica principale di Parthenope, un riadattamento moderno del mito della fondazione di Napoli, la “musa” del cineasta italiano. La reinterpretazione del racconto non coinvolge però una creatura dall’aspetto di sirena, ma una giovane che fin dall’adolescenza ha gli occhi di tutti puntati addosso. Parthenope é infatti una donna bellissima, il cui fascino potrebbe far cadere fra le sue braccia qualsiasi uomo, ma questo non è lo scopo della ragazza, c’è qualcosa che va oltre il suo aspetto, c’è una persona colta che vuole assimilare più conoscenza possibile e, dopo aver tentato invano di diventare una star, decide di iscriversi alla facoltà di antropologia. Ma nel frattempo, il suo cuore è conteso tra due uomini, quello del fratello Sandrino (Daniele Rienzo) e quello dell’amico di lunga data Raimondo (Dario Aita). Ma la voglia di approfondire il mondo che le sta attorno la farà allontanare da queste due figure a lei care e, sotto consiglio del suo cinico professore Marotta, inizierà un viaggio interno al capoluogo campano per assaporare e vivere in prima persona le usanze e le tradizioni famigliari. Durante questo periodo, che va dalla fine degli anni ‘60 fino a quelli del decennio successivo, incontrerà diverse persone che le faranno cambiare la propria percezione della vita, tra cui il vescovo Tesorone (Peppo Lanzetta), simbolo del potere spirituale della Chiesa all’interno della città di Napoli. Proprio con questo personaggio, Sorrentino analizza il rapporto tra sacro e profano, tra sesso e religione, fino a quando entrambe le cose diventano una sola. Ad ammaliare del film - oltre alle sue metafore e allegorie visive messe in risalto dalle immacolate composizioni del regista e della direttrice della fotografia Daria D’Antonio - è l’interpretazione centrale di Celeste Dalla Porta, che illumina lo schermo grazie alla sua presenza carismatica, caratterizzata dall’istintività di una donna ancora alla ricerca di se stessa. Parthenope è un esperimento interessante, un’opera caratterizzata da una struttura a vignette - dove la protagonista viene a contatto con svariati personaggi - che affascina ma non convince del tutto, come ad esempio l’utilizzo limitato di Gary Oldman o qualche scena che risulta troppo indulgente anche per gli standard del regista. Nonostante determinati problemi Parthenope è però un'esperienza visiva e sensoriale che va vissuta sul grande schermo.
September Says, di Ariane Labed
Fa il suo debutto come regista, nella sezione An Certain Regard, Ariane Labed, attrice francese che ricordiamo aver vinto, nel 2010, la Coppa Volpi per la sua interpretazione nel film Attenberg (2010). Con il suo primo lungometraggio, Labed mostra di conoscere molto bene il mezzo cinematografico, nonostante alcune mancanze e incertezze nella scrittura tipiche di chi è agli inizi. September Says si concentra sul rapporto tra due sorelle nate a 10 mesi di distanza, una a settembre e l’altra a luglio. Se la prima è iperprotettiva nei confronti della sorella e vive nel proprio mondo incurante di quello che gli altri possano pensare di lei, la secondogenita, invece, è molto più curiosa e aperta nei confronti di ciò che la circonda. Le due ragazze vivono con la madre, Sheela, stilista e artista che non sa come gestire il rapporto con le proprie figlie, presentandosi più come un’amica che come una madre. Un giorno September viene espulsa da scuola e ciò porterà un cambiamento in July, che cercherà di autodeterminarsi allontanandosi dal controllo della sorella maggiore. Ariane Labed mette in piedi un rapporto tossico e vincolante: September domina e controlla ogni singolo aspetto della vita di July, mentre quest’ultima vorrebbe altro non riuscendo a liberarsi fino all’ultimo dalla figura che sente più vicina a sé. La regista francese gira un film che stilisticamente si avvicina molto al cinema dei Fratelli D’Innocenzo, fatto da una fotografia cruda, ma con dei momenti in cui i colori si saturano per evidenziare un'emozione o uno stato d’animo dei personaggi. Inoltre, come i fratelli romani, Labed amplifica, e fonde, la stranezza con la normailtà, come quando caratterizza il rapporto tra le due sorelle, a volte al limite dell’incesto, o semplicemente inscenando momenti intimi e allo stesso tempo disturbanti in grado di mettere a disagio lo spettatore. Un altro aspetto in comune con il cinema dei D’Innocenzo, è forse anche la velata violenza che rimane intrinseca in tutto il racconto, che sembra dover esplodere da un momento all’altro ma che invece si manifesta in pochi istanti e senza clamore. Per essere un’opera prima, Labed dimostra di saper costruire un ottimo ritmo e di possedere la capacità di descrivere perfettamente un rapporto malsano. Purtroppo l’esordiente regista pecca nella rappresentazione della madre, interpretata da una splendida (ma purtroppo sprecata) Rakhee Thakrar, che appare e scompare sullo sfondo senza mai risultare davvero approfondita.
La Pampa, di Antoine Chevrollier
Antoine Chevrollier, dopo aver iniziato a lavorare nella serialità televisiva, debutta nel mondo del cinema con il suo primo lungometraggio La Pampa, presentato nella sezione Semaine de la Critique di Cannes. Il film è una perfetta, quanto riuscita, storia di formazione: Willy vive in una paesino francese dove sorge un enorme pista di motocross nel quale si allena il suo migliore amico Jojo, i due sono inseparabili fin da piccoli e all’inizio sembra che la loro unica grande passione siano le moto. Spronati dal padre di Jojo, entrambi si impegnano per vincere le gare, Willy in qualità di meccanico e Jojo di pilota. Chevrollier all’inizio del film riesce a mettere in scena la tipica mascolinità tossica che molti giovani ragazzi vivono nel corso della propria adolescenza, come se dovessero sempre dimostrare ad amici e genitori di essere dei veri “uomini”. Willy e Jojo si comprendono, non solo perché il piano di entrambi è quello di andarsene il prima possibile dal paese, ma soprattutto perché sanno di presentare al mondo solo una facciata di quello che sono davvero, dei sogni e delle paure che li hanno formati. Tutto il mondo cambia nel momento in cui Willy scoprirà il segreto di Jojo, un segreto che rischierà di annientare tutto quello per cui hanno lavorato. Il regista francese compie un ottimo debutto, i virtuosismi della macchina da presa sono ben calibrati e funzionali al racconto, come la sequenza della gara di motocross finale ripresa dall’alto che si sposta proprio dietro ai piloti, dando al pubblico la sensazione di essere li con loro. Chevrollier ci mostra, attraverso i suoi protagonisti, la complessità dell’essere giovani uomini oggigiorno, in costante bilico tra come la società vorrebbe che fossero e quello che sono veramente.
Motel Destino, di Karim Aïnouz
Dopo la tiepida recezione di Firebrand, period drama su Katherine Parr, la sesta e ultima moglie di Re Enrico VIII, il regista brasiliano ha optato di ritornare in patria, nella regione in cui è cresciuto, per ambientare e dirigere il suo nuovo film. Motel Destino è un noir erotico con protagonista Heraldo (Iago Xavier), un giovane che, insieme al fratello, è stato assoldato da Bambina, una pittrice e capa malavitosa dall’aurea misteriosa, con l’intento di uccidere un debitore francese. La sera prima del colpo però il protagonista opta di passare una serata focosa con una donna e, al suo risveglio, si accorgerà di essere stato derubato e richiuso nella stanza di un motel. Questa scomoda situazione farà arrivare Heraldo in ritardo all' appuntamento prefissato e il fratello sarà costretto a compiere il lavoro da solo, venendo ucciso in poco tempo. La gang di Bambina inizierà a perseguitare l’uomo, che troverà asilo all’interno del Motel Destino, pensione gestita da Deya (Nathalie Rocha) e suo marito Elias (Fabio Asuncao), luogo di ritrovo per scambisti e amanti occasionali. Ispirandosi al cinema erotico degli anni ‘70, Aïnouz dirige un’opera calorosa, densa di erotismo e sesso, che richiama parzialmente il mood delle opere che l’hanno reso celebre a inizio anni duemila come Madame Satã (2002) e O Céu de Suely (2006). Ma l’operazione compiuta dal cineasta risulta essere più dirompente; quello che stupisce di più infatti è il modo con cui Aïnouz rende il motel un personaggio aggiuntivo alla storia, le cui luci al neon e le pareti dai colori sgargianti rispecchiano il desiderio sessuale e l’atmosfera claustrofobica in cui sono costretti a vivere i personaggi. Nonostante il grande lavoro dell'autore nel creare questo mood intossicante e torbido, l’opera fatica a decollare e a diventare degna di nota per varie ragioni. La sceneggiatura e i dialoghi sono piuttosto scarni e ridicoli, aspetto forse giustificato dall’omaggio che il regista vuole compiere verso il cinema pornografico brasiliano, ma oltre a questo, la trama e soprattutto la risoluzione finale appaiono troppo scontate. Inoltre, l’interpretazione monotona e priva di carisma di Iago Xavier demarca ulteriormente l’occasione sprecata. Motel Destino intrattiene ed “eccita” per tutta la sua durata, ma siamo ben lontani dagli standard a cui Aïnouz ci aveva abituati negli anni passati.
East of Noon, di Hala Elkoussy
Hala Elkoussy, artista egiziana che ha sempre lavorato nell’ambiente della video-arte, presenta il suo secondo lungometraggio (il primo fu Cactus Flowers, del 2017) nella sezione Quinzaine des cinéastes a Cannes. East of Noon è un film complesso da spiegare, perché è una forte denuncia sociale ma sotto forma di fiaba. Grazie alla fotografia curata dal dop Abdelsalama Moussa - alla sua seconda collaborazione con Elkoussy - il film, girato in 16mm e in bianco e nero, sembra uscire direttamente dagli anni ‘50, ma poi presenta dei rari frame a colori dove le luci dell’alba illuminano il mare e i personaggi con toni chiarissimi, quasi pastello. Elkoussy presenta il mito del cantante Abdo, nipote della raccontastorie Nunna, che insieme alla giovane Galala si ribella al regime portato avanti da Snowman e i suoi uomini. Il film, nonostante un’impostazione barocca, con scene spesso troppo cariche di simbolismi o situazioni confuse, si presenta come una perfetta allegoria del potere autocratico che cerca di schiacciare chiunque provi a ribellarsi. Hala Elkoussy, in due ora di film, purtroppo tende a perdersi e ad aprire dinamiche, nella storia e tra i personaggi, che restano senza risposte, ma nonostante queste imperfezioni, la regista ci trasmette, attraverso il personaggio dell’anziana Nunna, l’immenso potere che hanno le storie. Attraverso i racconti possiamo decidere le sorti dei potenti o di coloro che ancora non sono nessuno, chi verrà ricordato come un eroe o chi come una persona vile e meschina.
Being Maria, di Jessica Palud
Presentato nella sezione Cannes Premiere, il secondo lungometraggio di Jessica Palud racconta la struggente storia di Maria Schneider (Anamaria Vartolomei), focalizzando la sua attenzione sugli eventi traumatizzanti della produzione di Ultimo Tango a Parigi (1972) e le implicazioni negative che quell’esperienza ha avuto sulla carriera e, soprattutto, sulla salute mentale dell’attrice. La Schneider e il coprotagonista Marlon Brando (Matt Dillon) erano consapevoli che nel film sarebbe stata presente una scena di violenza sessuale, ma quest’ultimo, con il consenso di Bernardo Bertolucci (Giuseppe Maggio), aveva optato di rendere la scena il più realistica possibile… Evitando di entrare nel dettaglio, questa situazione provocò un forte shock emotivo nell’attrice, che dopo un paio di anni dalle riprese raccontò la sua verità, ammettendo di essersi sentita violentata sul set. Maria, adattamento del romanzo You Were Maria Schneider di Vanessa Schneider, si concentra esclusivamente sugli aspetti più tristi della vita dell’attrice; dagli abusi perpetrati dalla madre durante l’adolescenza, agli eventi di Ultimo Tango a Parigi, fino alla sua conseguente spirale decadente caratterizzata dalla depressione e dalla dipendenza da stupefacenti. Questo approccio permette a Palud di discostarsi dalla struttura didascalica dei classici biopic tramite diversi salti temporali, ma nutriamo qualche perplessità sulla necessità di raccontare ogni aspetto dolente della vita di questa donna. La visione infatti risulta piuttosto struggente e inutilmente crudele nei confronti di Schneider, con un unico momento “positivo” che avviene verso la fine del film, dove l’attrice racconta le buone esperienze sul set di Professione Reporter (1975) di Michelangelo Antonioni e Merry-Go-Round (1980) di Jacques Rivette. Nonostante queste riservatezze, la pellicola risulta comunque ben riuscita nel suo intento, soprattutto grazie all’interpretazione straordinaria di Anamaria Vartolomei.
The Apprentice, di Ali Abbasi
Con solo due lungometraggi all’attivo, Border (2018) e Holy Spider (2022), Ali Abbasi aveva già dimostrato un’incredibile versatilità e c’era parecchia trepidazione nel vedere con quale genere o storia si sarebbe districato nel suo nuovo film. La scelta è ricaduta sul racconto di un personaggio che nessuno si sarebbe mai aspettato, ovvero Donald Trump (Sebastian Stan), più nello specifico durante il periodo tra il 1971 e il 1986, dove l’imprenditore narcisista creò il suo impero economico. La persona fondamentale dietro a questo successo è stata Roy Cohn (Jeremy Strong), avvocato ed esperto politico che ha plasmato l’ex Presidente degli Stati nell’uomo cinico e senza scrupoli che è diventato. Visto il soggetto principale di The Apprentice - quello sulla dinamica di potere tra Trump e Cohn - e il talento dietro alla macchina da presa di un cineasta del calibro di Abbasi, ci si aspettava qualcosa di più radicale e provocatorio, ma purtroppo il regista di origini iraniane si é limitato a raccontare una storia già conosciuta agli occhi del pubblico. La didascalica struttura del lungometraggio, che richiama ampiamente quella del biopic “alla Wikipedia” non ha convinto del tutto e certi eventi della vita di Trump sono solamente accennati e mai sviluppati a fondo. Tecnicamente il film ha qualche sprazzo di originalità; la parte ambientata negli anni ‘70 ha una resa visiva che richiama l’uso della pellicola, mentre quella degli anni ‘80 ricalca più lo stile televisivo dell’epoca e l’estetica da VHS, ma a parte queste due scelte, nient’altro è degno di nota, soprattutto se si prende in considerazione il fatto che Abbasi usa prevalentemente delle hit musicali per caratterizzare i periodi storici, una decisione piuttosto scontata. A nulla valgono quindi le due ottime interpretazioni centrali di Sebastian Stan e Jeremy Strong; il primo porta sullo schermo un ritratto più che convincente di Donald Trump e la scelta di utilizzare la propria vocalità invece di cercare di ricreare farloccamente quello del magnate americano è da apprezzare - a differenza del marcato accento russo usato da Ben Whishaw in Limonov: The Ballad. Per quanto riguarda Strong, fa piacere finalmente vedere un attore del suo calibro trovare “successo” anche nel mondo del cinema dopo il suo eccezionale lavoro nei panni di Kendall Roy nella serie televisiva Succession. L’attore brilla in ogni momento della sua interpretazione, dalle prime sequenze, nelle quali mostra la freddezza dell’avvocato, fino a quelle conclusive dove ci coinvolge nella vulnerabilità dell’uomo in fin di vita per via dell’AIDS. Tutto sommato, The Apprentice è un film piuttosto deludente e sembra quasi che Abbasi si sia approcciato a questo progetto con il solo intento di dirigere un film mirato per l’Awards Season.
Viet and Nam, di Truong Minh Quy
Negli ultimi anni si è potuto assistere ad una sorta di rinascita del cinema vietnamita grazie ad una nuova generazione di giovani cineasti che si sta mettendo in mostra a livello internazionale e sta ricevendo diversi riconoscimenti, basti pensare a due film recenti come Inside the Yellow Cocoon Shell (2023) di Pham Thiên Ân e Cu Li Never Cries (2024) di Pham Ngoc Lân, vincitori dei premi di miglior opera prima nelle edizioni più recenti del Festival di Cannes e di Berlino. Quest’anno, nella sezione Un Certain Regard, è stato presentato il lungometraggio Viet and Nam di Truong Minh Quy, film che narra di due giovani innamorati che lavorano insieme in una miniera di carbone e che, nonostante la loro esistenza sia spesso in pericolo a causa del lavoro che svolgono e dal fatto che l’omosessualità sia considerata un reato, cercano sempre di trovare un modo per alleviare le proprie sofferenze. La struttura narrativa divisa in due parti ricorda quella di Tropical Malady (2004) di Apichatpong Weerasethakul, dove nella prima entrambi i film seguono la mondanità dei due giovani amanti all’interno di un contesto urbano, mentre nella seconda le opere assumono un tono più onirico dato dall’ambiente naturale circostante. Ma a differenza del capolavoro di Apichatpong, Truong sfrutta il contesto mistico naturale per portare avanti un discorso politico legato alla propria nazione, inscenando i traumi e i fantasmi del passato di essa. Infatti, nella seconda sezione dell’opera i due innamorati si spostano dalla città alla campagna per aiutare la madre di Nam a cercare i resti del marito scomparso durante la guerra. L’atto dello scavare, del ricercare qualcosa nel suolo, è di fatto una delle chiavi di lettura del lungometraggio di Truong, come se il cineasta volesse mostrare quanto la sua Nazione ci tenga alla terra natia e alle proprie radici, arrivando a nascondere i segreti più bui in essa. Girato con uno splendido 16mm e con un tono piuttosto pacato che richiama lo slow cinema, Viet and Nam é stata una delle visioni più affascinanti di questo festival.
Anora, di Sean Baker
Anora (Mickey Madison) è una ragazza di ventitré anni che lavora in uno strip club la cui vita viene stravolta quando incontra Ivan (Mark Eydelshteyn), ricco rampollo di una famiglia di oligarchi russi. In breve tempo tra i due nasce una relazione carnale e sentimentale, che sfocerà in un matrimonio furtivo a Las Vegas. Questa scelta provocherà l’ira della famiglia di Ivan, soprattutto per via della concezione retrograda che nutre nei confronti dei sex workers, che cercherà di fare il possibile per annullare l’unione. Quest’ultimo aspetto è sempre stato presente nella filmografia di Sean Baker e, come il cineasta ha rimarcato più volte anche in passato, il suo intento è quello di normalizzarel’universo dei propri protagonisti, come ad esempio quello delle pornostar Mickey (Simon Rex) in Red Rocket (2021) o Jane (Dree Hemingway) in Starlet (2013), oppure quello della prostituzione con Halley (Bria Vinaite) in The Florida Project (2017) e le due protagoniste Sin-Dee Rella (Kitana Kiki Rodriguez) e Alexandra (Mia Taylor) in Tangerine (2015). Sin dalla stupenda scena iniziale, una sequenza della durata di cinque minuti sulle note della versione remixata di Greatest Day, si può denotare la regia dinamica di Baker. Quello che segue è un film tanto divertente quanto stressante, dove l’eroina bakeriana dovrà affrontare innumerevoli difficoltà per riconquistare la propria indipendenza. Infatti, appena la notizia del matrimonio con Ivan verrà diffusa, gli oligarchi ingaggeranno un gruppo di malavitosi per “recuperare” il figlio e riportarlo in Russia. Tra questi ci sono il taciturno Igor (Yuriy Borisov), il goffo Garnick (Vache Tovmasyan) e il “capo” Toros (Karren Karagulian, attore sempre presente nei film del regista). Ma Ivan scapperà in modo codardo, lasciando Anora da sola in preda ai malintenzionati. Si potrebbe tranquillamente citare Uncut Gems (2019) dei fratelli Safdie per il continuo crescendo di tensione all’interno dell’opera, ma Anora ci ha ricordato di più un mix tra le prime opere dei Coen, tra cui Raising Arizona (1987), per la dinamica tra la protagonista e i gangster, e Tangerine dello stesso Baker, per come gestisce il lato della “ricerca” di Ivan. Con una lunga durata di due ore e venti é impressionante notare come non ci sia un solo momento di stallo; il dark humor, il crescendo di emozioni e soprattutto le eccezionali interpretazioni del cast, tra cui quella di Mickey Madison, la cui sincerità e forza di volontà fanno empatizzare per la sua terribile situazione, rendono Anora il capolavoro di Sean Baker e uno dei migliori film del festival. Ma ciò che stupisce ancora di più è la sequenza conclusiva, che non spoilereremo ovviamente, ma possiamo solo aggiungere che farà provare emozioni contrastanti a seconda delle possibili interpretazioni.
Grand Tour, di Miguel Gomes
“Abbandona te stesso in questo mondo e noterai quanto esso sia generoso nei tuoi confronti.” Sono queste le parole che un monaco giapponese rivolge ad Edward, il protagonista di Grand Tour di Miguel Gomes. Ma quella frase è come se fosse rivolta anche allo spettatore, come se il regista portoghese ci invitasse ad abbandonare noi stessi durante la visione del suo nuovo lungometraggio per immergerci in un mondo dove passato e presente coesistono nella stessa dimensione temporale, come se il concetto stesso di tempo fosse un illusione, un discorso sempre presente nella filmografia di Gomes, come si può evincere da Tabù (2012), la sua opera più caratteristica. Dopo aver presentato cinque dei suoi film nelle sezioni secondarie del festival di Cannes, finalmente il regista fa la sua prima apparizione in carriera nella Competizione. Ambientato nel 1918, Grand Tour narra la storia di Edward, un uomo che, senza un preciso motivo, decide di scappare dalla sua promessa sposa Molly per intraprendere un “tour” nei paesi del sud est asiatico, una rotta popolare in quel periodo storico. Molly, convinta del suo amore per Edward, deciderà di intraprendere lo stesso viaggio e inseguirlo attraverso numerosi Paesi. Quello che segue è una sorta di “caccia all’uomo” atipica, una anti Odissea divisa in due sezioni specifiche che mostrano l’arduo viaggio che i protagonisti devono compiere. Ma per analizzare i due punti di vista opposti, il cineasta utilizza un approccio totalmente diverso: ad esempio, la prima sezione che riguarda il viaggio di Edward risulta maggiormente documentaristica - e ricorda in parte Sans Soleil (1983) di Chris Marker - infatti la macchina da presa sembra più interessata a immergere il pubblico nelle meravigliose tappe del tour, dal Vietnam alla Cina, dall’India al Giappone, piuttosto che mostrare il viaggio interiore del protagonista, come se Edward fosse solo una pedina, un materiale di scena per la visione artistica del cineasta. Questo aspetto è rimarcato anche dalla natura sperimentale della regia di Gomes, dove spicca l’onnipresenza del voiceover e un mix tra materiale d’archivio, che rappresenta la realtà di questi luoghi ai giorni nostri, e le sequenze del film ambientate nel passato. La parte incentrata su Molly invece ha un approccio opposto, più sentimentale e sincero, dove Gomes si focalizza sulle difficoltà che la donna deve affrontare per rivedere il suo amato, fino ad arrivare allo straordinario finale nel quale il regista ci ricorda che quello che stiamo vedendo è solamente un prodotto di fiction. Grand Tour non solo è uno dei film più belli dal punto di vista estetico presentati negli ultimi anni, ma anche il capolavoro del festival e soprattutto la summa del cinema di Miguel Gomes.
Directors Factory Philippines, di Don Josephus Raphael Eblahan, Siyou Tan, Arvin Belarmino, Lomorpich Rithy, Maria Estela Piano, Ashok Vish, Eve Baswel, Gogularaajan Rajendran
Directors Factory Philippines è un progetto che aiuta registi emergenti a confrontarsi con il cinema locale e internazionale. Infatti, viene data l'occasione ai giovani cineasti filippini di poter collaborare con video-maker internazionali provenienti prevalentemente da paesi del sud-est e sud asiatico, come ad esempio: Malesia, Singapore, India e Cambogia. Quest’anno i 4 lavori nati da questa iniziativa sono stati presentati alla Quinzaine des Cinéastes. Tra i quattro corti, si comprendono le diverse anime che compongono il nuovo cinema filippino e anche la voglia dei quattro registi di sperimentare con il mezzo, dividendosi tra chi presenta una struttura narrativa più lineare, come i corti Siling e Walay Balay, chi invece preferisce mettere in scena un emozione, come in Cold Cut, e chi, come nel caso di Nightbirds, crea una piccola opera d’arte esteticamente parlando. In questa recensione vorremmo soffermarci su quelli che sono stati i due corti che ci hanno maggiormente colpito. Cold Cut, di Don Josephus Raphael Eblahan e Siyou Tan, è un lavoro dove a farla da padrone sono gli incredibili paesaggi, naturali e urbani, delle Filippine, che anche quando composti da edifici fatiscenti, riescono a trasmettere un certo fascino. La storia racconta di Joy, una giovane ragazza che si presenta a un'audizione per un talent-show. Mentre è in coda uno sconosciuto che lavora nel macello lì vicino, si scontra con lei, portando la ragazza a vivere un’esperienza simil onirica e a conoscere nuovi orizzonti. Eblahan e Tan, costruiscono una storia che non si basa su una narrativa lineare e chiara, ma entra nel mondo dell’inconscio dove i due protagonisti "danzano" i propri stati emotivi in ambientazioni magnifiche. Siling di Arvin Belarmino e Lomorpich Rithy a.k.a Yoki, è un corto agro-dolce che affronta il tema dell’amicizia, dell’amore e del lutto. Malata di cancro Mamang torna nel suo paese natale dopo vent’anni per organizzare il proprio funerale, li si farà aiutare dall’ex compagna e amica Sabina, che gestisce un’agenzia di pompe funebri. Il desiderio di Mamang sarebbe quello di essere cremata, ma ciò va contro la legge e le idee della sua città natale. Belarmino e Yoki, portano in scena un corto che si bilancia perfettamente tra il black humor e la nostalgia di un’amicizia ritrovata anche se per poco. Le due attrici protagoniste, Sylvia Sanchez e Angel Aquino, con la loro splendida interpretazione, ci fanno empatizzare con i loro personaggi dandoci l’illusione di conoscerle da sempre.
Black Dog, di Guan Hu
Nel corso degli ultimi trent’anni la Cina ha subito una rinascita decisiva nel cinema, dopo un periodo di oscurantismo dovuto anche alle vicende di Hong Kong e all’ascesa della filmografia di Stato. Dagli anni ‘90, in poi, però, una serie di autori hanno dato vita ad un nuovo periodo fiorente, anche grazie all’avvento di quella che, successivamente, è stata definita come la “Sesta Generazione”, ovvero una nuova pletora di registi che ha sostituito i grandi maestri degli anni ‘70/’80. Tanti sono i nomi interessanti che hanno contribuito allo sviluppo e alla diffusione planetaria del cinema cinese. Tra questi vi sono sicuramente Zhang Yimou, Wang Xiaoshuai - in concorso quest’anno alla Berlinale con il suo Above The Dust (2024) - Lou Ye - quest’anno al Festival di Cannes tra le proiezioni speciali con il film An Unfinished Film (2024) - ma soprattutto Jia Zhang-ke, anche lui in concorso quest’anno a Cannes con Caught By The Tides (2024). Nell’ultimo decennio, anche un altro autore di talento, ovvero Guan Hu, ha calcato più volte il territorio dei festival, distinguendosi come un nuovo astro nascente del cinema cinese. Nel 2009 ha partecipato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, nella sezione Orizzonti, con il film Cow (2009). Dopo esser sbarcato anche sul mercato italiano con il suo war movie, dal titolo 800 Eroi (2020), Guan Hu arriva per la prima volta sulla Croisette, presentando nella sezione Un Certain Regard il suo nuovo film, dal titolo Black Dog (2024). In Black Dog, il cineasta riporta lo spettatore di sedici anni indietro, a quel 2008 che per Pechino coincise con le prime Olimpiadi mai disputate nel Paese. Ciò che Guan Hu mostra è paradossale: ovvero una Cina che, in televisione, si mostra fiorente e in rampa di lancio, anche a causa della notevole propaganda operata dal Partito Comunista nei confronti della prima grande manifestazione in cui lo Stato sia mai stato coinvolto in prima persona. Una convinzione che risulta, però, fallace, e che è sintomo di una nazione brava a nascondere le proprie lacune sotto l’apparenza dettata anche dalla propaganda. La vicenda ci trasporta così in uno spazio non ben definito a nord del deserto del Gobi, con un paesaggio abbandonato. Lo scenario di Black Dog è a metà tra la post-Apocalisse e le pianure dei western riprese in Cinemascope - attraverso totali e campi lunghi - che mostrano una realtà dismessa, degna di un noir urbano degli ultimi tempi, e ricordano la catarsi pessimistica di un grande film cinese degli ultimi anni: A Touch Of Sin (2013) di Jia Zhang-ke, qui presente come attore. Da Jia, innegabile nome tutelare, Guan Hu riprende anche l’impossibilità di rifondare, per i cittadini cinesi, il legame con la tradizione e le proprie origini palesando l’impossibilità di riconoscerle all’interno di uno Stato spersonalizzante, dove il (quasi) mutismo che attanaglia il protagonista, un Eddie Peng poco espressivo ma molto efficace, diventa metafora di una condizione completamente prosciugata da qualsiasi tipo di empatia tra umani. Il legame che il protagonista stabilisce con il cane in cui si imbatte è il simbolo di un’umanità sempre più reietta, a cui non resta niente se non il finto “scintillio” delle luci delle Olimpiadi. Black Dog è dunque un film politico feroce con notevoli analogie con il sopracitato film di Jia Zhang-ke, senza però ricalcarne la violenza ed anzi escludendola, utilizzando il fuori campo come opportunità per far rinascere la vita in un universo di piena decadenza materiale e spirituale.