di Omar Franini, Antonio Orrico, Lorenzo Sartor e Cecilia Parini
NC-304
21.05.2025
Come ad ogni manifestazione cinematografica a cui ODG partecipa, nei prossimi giorni pubblicheremo diversi reportage in cui vi racconteremo dei film che stiamo visionando alla 78ª edizione del Festival di Cannes. Per questo terzo appuntamento ci concentreremo su altri due film presentati in Competizione, tra cui il brutale Die, My Love di Lynne Ramsay con protagonisti Jennifer Lawrence e Robert Pattinson, il coming of age Renoir di Chia Hayakawa e Nouvelle Vague di Richard Linklater. Entreremo anche nel vivo di Un Certain Regard con Pillion di Harry Lighton, O Riso e a Faca di Pedro Pinho e Un Poeta di Simón Mesa Soto. Inoltre vi racconteremo anche di Mama di Or Sinai, Kika di Alexe Poukine e Laurent dans le vent del trio dei registi Anton Balekdjian, Léo Couture e Mattéo Eustachon. Concluderemo infine con i titoli dalla Quinzaine, tra cui Le dance des renards di Valéry Carnoy.
Die, My Love, di Lynne Ramsay
“Thank God I’m a beast”.Un’inquadratura fissa su un soggiorno spoglio e senza vita apre Die, My Love di Lynne Ramsay. Pian piano si cominciano ad udire le voci di Grace (Jennifer Lawrence) e Jackson (Robert Pattinson) che iniziano a discutere dei progetti futuri, in soli pochi mesi una terza persona si aggiungerà alla coppia stravolgendo drasticamente la loro relazione. Il cinema di Lynne Ramsay non è mai stato caratterizzato da un approccio minimalista o sotteso e subito dopo l’overture pacata, la cineasta britannica introduce lo spettatore ad una sequenza animalesca nel quale i protagonisti danno vita ai loro istinti più primordiali, una sorta di danza nel quale il sesso viene mostrato come se i due fossero dei felini che stanno cercando di avere il predominio l’uno sull’altro. “È un gatto, un orso e un bambino”, le parole dette dal padre di Jackson a Grace ad un primo istante sembrano riguardare il futuro pargolo della coppia, ma ben presto ci si accorgerà che riguardano più la protagonista e come il parto cambierà radicalmente la sua esistenza. Die My Love è un’opera brutale e bestiale, nella quale Ramsay esagera ogni aspetto della propria narrativa per trasportare lo spettatore nella depressione post partum di Grace - a partire da un uso del suono e di una soundtrack rock che permane per tutta la durata del film, unita alle classiche immagini esplicite di violenza fisica e psicologica che si ritrovano nella filmografia di Ramsay. La regista gestisce magistralmente la propria visione in ogni singolo momento, probabilmente nella mani di un altro cineasta, Die My Love sarebbe stato un disastro. Il modo in cui Ramsay dirige Jennifer Lawrence, che regala un'eccellente interpretazione sopra le righe, richiama la grande Gena Rowlands nelle collaborazioni con il marito John Cassavetes risultando intenzionalmente fastidiosa e irritante per cercare di trasmettere il senso di auto-isolamento imposto dalla depressione. Die My Love è un’affascinante new entry nella filmografia di Ramsay, una devastante, e accattivante, riflessione sulla depressione post partum che illustra come, spesso, non siamo in grado di capire pienamente la condizione di chi ci sta accanto.
Renoir, di Chie Hayakawa
Il nome di Chie Hayakawa è stato uno dei più chiacchierati nell’edizione di Cannes 2022, Plan 75, la sua intrigante opera prima, aveva mostrato il talento grezzo di una regista davvero promettente. Renoir, il suo secondo lungometraggio, un coming of age che narra di Fuki, una giovane undicenne che si sente costantemente sola; il padre, malato di cancro, spesso si trova in ospedale, mentre la madre è sempre impegnata per via del suo lavoro e non riesce a dare le attenzioni dovute alla figlia in questo periodo difficile. Per raccontare la condizione di Fuki, la cineasta giapponese adopera una narrazione frammentata per rispecchiare le continue riflessioni che la ragazzina ha sul mondo che la circonda. Un punto di vista interessante, che però non funziona mai appieno. Hayakawa infatti pone una certa distanza tra lo spettatore e la protagonista, un’apatia che non permette un vero investimento emotivo sulla storia, lo si ha solo nelle scene tra Fuki e i genitori, soprattutto per lo sguardo empatico con cui Hayakawa dipinge le figure paterne e le loro difficoltà. Ma man mano che la storia si espande e nuovi personaggi vengono introdotti, la struttura narrativa diventa piuttosto tediosa, non aiutata da un montaggio sconnesso e da un susseguirsi di scene che invece di aggiungere una certa profondità, rinforzano questa distanza emotiva tra Fuki e l’audience. Renoir non risulta una completa bocciatura, ma solo un piccolo passo indietro rispetto a Plan 75. Se quest’ultimo aveva alcune lacune nel reparto tecnico, in Renoir non si può dire lo stesso. Le composizioni immacolate di Hayakawa trasmettono comunque un senso di tranquillità e pace che fungono da contrasto con la storia piuttosto melanconica del film, ma queste non sono in grado di salvare un’opera che trasmette troppo poco a livello emotivo.
Nouvelle Vague, di Richard Linklater
Quale posto migliore per presentare un film sulla Nouvelle Vague e sulla lavorazione di À bout de souffle (Fino all'ultimo respiro, 1960) se non il Festival di Cannes? Il nuovo film di Richard Linklater esplora il dietro le quinte del film più celebre di Godard e le numerose difficoltà che il cineastadovette affrontare per far sì che la sua opera rivoluzionaria vedesse la luce. Come si è visto in Blue Moon, l’operazione compiuta da Linklater è per lo più focalizzata sulla ricostruzione storica, artistica e cinematografica del periodo storico affrontato; se il film precedente rispecchiava lo stile teatrale e da screwball comedy degli anni ‘40, Nouvelle Vague risulta diretto come uno dei primi film della corrente cinematografica francese di cui narra. L’uso del bianco e nero, dei jumpcut “godardiani”e dell’estetica tipica del 35mm, donano al film quel senso di autenticità, una ricerca minuziosa più che lodevole. La messa in scena non risulta mai rivoluzionaria nella forma come quella del film a cui vuole rendere omaggio, ma non è nemmeno necessario, Nouvelle Vague è semplicemente un omaggio ad un cinema ribelle e sovversivo che ha influenzato numerose generazioni di cineasti, tra cui quella indipendente statunitense degli anni’ 90 - la generazione di Linklater appunto. Recitato egregiamente da Guillaume Marbeck e Zoey Dutch, la cui chimica rispecchia perfettamente il rapporto amore/odio tra Godard e Jean Seberg, Nouvelle Vague risulta una piacevole visione, uno sguardo spensierato che rende omaggio a quella giovane sfrontatezza che ha rivelato il talento di molti artisti.
Miroirs n.3, di Christian Petzold
Miroirs No.3 di Christian Petzold si può considerare come il capitolo conclusivo della trilogia degli elementi. Se in Undine (2020) e Roter Himmel (Il cielo brucia, 2023) l’acqua e il fuoco ricoprivano un ruolo predominante, qui il vento, o l’aria, rimangono elementi quasi minimali, ma pur sempre presenti, come se lo stesso corpo della protagonista Laura (Paula Beer) rappresenti una presenza eterea e silenziosa che fluttua all’interno delle vite di diverse persone, specialmente quelle di un piccolo nucleo famigliare che la accoglie dopo che è stata vittima di un incidente stradale. Miroirs No.3 è un film sul lutto, sui fantasmi del passato e su come per alleviare le nostre sofferenze cerchiamo di ricreare, se non rimpiazzare, la persona perduta. Non a caso, queste tematiche hanno sempre caratterizzato il cinema di Petzold e questo suo nuovo film funge infatti come un “greatest hits” della sua poetica, un punto d’incontro tra le sue opere più conosciute - dove si ripresentano l'ossessione verso il “doppio”e i toni pacati e "rohmeriani" del resto della trilogia degli elementi. Miroirs No.3 è un film "leggiadro", nel quale il regista tedesco, nonostante si affrontino tematiche intricate come il lutto, è in grado di infondere una vena umoristica - proprio come in Roter Himmel. Minimale nella forma, ma pur sempre complesso nella narrativa, Miroirs No.3 non rappresenta un film “minore” nella carriera di Petzold, ma la conferma della maestria di un autore in grado di trasformarsi e reinventarsi ad ogni occasione, rimanendo fedele al suo stile e alla sua poetica.
Pillion, di Harry Lighton
Il BDSM e le relazioni sadomaso sono al centro di Pillion, opera prima di Harry Lighton che esplora la peculiare dinamica tra il timido Collin (Harry Melling) e il biker Ray (Alexander Skarsgård) che, dopo un incontro fugace in un pub, iniziano una relazione che ben presto rivelerà la tossicità dietro alla dinamica sottomesso/dominatore. Pillion non vuole porre il BSDM in cattiva luce, anzi, riesce a mostrare un lato della sessualità e del feticismo esplorato di rado nel mondo del cinema. Lighton sfrutta proprio questa premessa per smontare i tabù e gli stereotipi che accompagnano la natura della relazione BDSM dirigendo il film come se fosse una classica commedia romantica americana. Questo approccio funziona inizialmente, ma in seguito non riesce a non scadere in un sentimentalismo prevedibile. Il film è comunque una piacevole e "lussuriosa" visione che intrattiene, diverte e a tratti commuove, principalmente grazie alle interpretazioni di Melling e Skarsgård, in grado di mostrare quanto la loro bramosia sessuale nasconda una vulnerabilità più profonda.
Un poeta, di Simón Mesa Soto
Simón Mesa Soto rappresenta una delle nuove voci del cinema colombiano e internazionale. Il regista ha studiato Comunicazione Audiovisiva presso l'Università di Antioquia, dove ha anche insegnato montaggio cinematografico. Successivamente, dopo essersi trasferito in pianta stabile a Londra, ha conseguito un Master in Regia presso la London Film School, laureandosi con distinzione nel 2014. Nel corso del suo periodo di soggiorno in terra britannica, ha cominciato ad approcciare concretamente alla materia cinematografica. I suoi cortometraggi Back Home (2009) e Leidi (2014), progetto di laurea candidato poi a Cannes nella sezione Cortometraggi e vincitore della Palma d’Oro ad essi dedicata, si incentrano perlopiù su un aspetto familiare, aiutando a distinguere la sua opera attraverso un realismo intimo e sociale, spesso incentrato su storie ambientate nei quartieri popolari della sua città natale. Un impegno testimoniato anche dal successivo cortometraggio, Madre (2016), selezionato nuovamente a Cannes e prodotto nell'ambito del progetto internazionale "Break the Silence", a causa del suo approccio diretto nei confronti della tematica dell’abuso sessuale nei confronti dei minori. Con Amparo (2021), ha esordito nel lungometraggio, presentando il film alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes, e rinforzando il legame nei confronti di un’altra tematica principale della sua filmografia, ovvero i rapporti familiari. Questi ultimi tornano a scorrere e ad essere centrali anche nel nuovo Un Poeta, presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2025. Il film conferma l’abilità del regista nel raccontare storie intime con profondità e sensibilità, offrendo una riflessione sull’importanza del trasmettere la conoscenza e l'arte tra generazioni diverse. La scelta di concentrarsi su personaggi marginali e su una narrazione intima permette a Mesa Soto di offrire una prospettiva fresca e autentica sul potere trasformativo dell'arte, dove la figura del poeta ossessivo Oscar, interpretato abilmente da Ubeimar Rios, dà corpo inevitabilmente al legame tra memoria e tradizione, costruito in antitesi con il potenziale e la rinascita incarnata, invece, da Rebeca Andrade. Il loro incontro diventa un simbolo della continuità culturale e della capacità dell'arte di unire le persone al di là delle differenze generazionali, sfruttando come modello il melò di Finding Forrester (Cercando Forrester, 2000) di Gus Van Sant e concentrandosi su un approccio minimalista, adottando uno stile sobrio e realistico, in cui inquadrature statiche si alternano a inquadrature più “sanguigne” e la palette cromatica naturale riflette l'ambiente quotidiano dei protagonisti conferendo nostalgia al film. La ricerca del ruolo artistico “sopra ogni cosa”, però, appare troppo sognante e poco realistico, in un contesto in cui la rinascita artistica passa per un mix di commedia e tragedia, il cui tono segna inevitabilmente il finale classicheggiante, che non mancherà di dividere gli spettatori e lasciare a loro lo spazio per la riflessione morale su questo rapporto “poetico”.
O Riso e a Faca, di Pedro Pinho
Il cinema portoghese si è sempre confrontato con il proprio retaggio coloniale e con la difficoltà di cancellare dalla Storia i crimini dell’Estado Novo, in una continua dialettica tra passato e presente. L’indagine sulla memoria presentata nel quarto film di Pedro Pinho non ha però come oggetto di studio il Portogallo contemporaneo e la sua nostalgia nei confronti del regime, bensì una fittizia città dell’Africa occidentale, in cui vive ancora il ricordo del colonialismo e vige un rapporto conflittuale tra etnie afrodiscendenti e caucasiche. In questo luogo segnato dalla divisione tra classi e dalla presenza ingombrante di marchi, canzoni e simboli dell’Occidente, Sérgio (Sérgio Coragem) arriverà da Lisbona per entrare in contatto con gli abitanti della metropoli, collaborando con una ONG per costruire una strada in grado di unire tutti i villaggi del territorio e portare così un reale progresso per le ex-colonie. Il viaggio di Sérgio è quello di una nazione che ancora deve fare i conti con un lascito imperialista e che continua a cercare riscatto per i peccati dell’uomo bianco. Centrale nell’opera di Pinho è infatti il complesso del white savior, l’idea che il protagonista si senta colpevole per gli errori dei suoi avi e cerchi nell’attivismo un’espiazione personale, comprendendo lungo il percorso che gli abitanti della zona non attendono da lui alcun miracolo e che anche nell’ideale neoliberista dell’aiuto umanitario può nascondersi una forma più subdola ed evoluta del neo-colonialismo e dell’occupazione dei territori in via di sviluppo. Il confronto con i fantasmi dell’imperialismo portoghese non può che portare a un conflitto identitario interno al protagonista, che cambierà modo di vivere la vita sessuale dopo essere entrato in contatto con una popolazione che esperisce il piacere con un differente senso di moralità e libertà. In questa opera-fiume di oltre duecento minuti piena di digressioni e quadri di vita comune (durante i quali è impossibile non pensare al Miguel Gomes di Arabian Nights), i corpi di Sérgio, Diara (Cleo Diara) e dei loro partner sessuali rimarranno al centro dell’intreccio, restando in costante dialogo con la fede politica dei personaggi. Laddove non sembra esistere redenzione per l’uomo bianco che si ferma in un luogo e cerca di aiutare i più bisognosi, la fuga da ogni insoddisfazione sessuale e dalle contraddizioni etiche del lavoro umanitario si svelerà nell’ultimo atto, nel costante movimento del protagonista verso un altrove indefinito. Uno stato di smarrimento e di nomadismo che però permetteranno al personaggio di lasciarsi alle spalle le strutture del neoliberalismo e gli consentiranno di trovare riposo. Una quiete che come dice lo stesso titolo si può trovare “solo nella tempesta”, nello stato di perenne irrequietezza, abbandonando ogni pretesa di controllo a favore di una libertà che il cittadino occidentale, da solo, non sarebbe mai riuscito a trovare.
La Dance des renards, di Valery Carnoy
Valéry Carnoy è un regista e sceneggiatore belga emergente, che ha inizialmente intrapreso studi in psicologia sociale e interculturale presso l'Université libre de Bruxelles (ULB). Successivamente, ha proseguito la sua formazione artistica presso l'Institut National Supérieur des Arts du Spectacle (INSAS), dove si è specializzato in fotografia prima di dedicarsi alla regia e alla sceneggiatura di opere di finzione. Il suo debutto nel mondo cinematografico arriva nel 2018, con Ma Planéte (2018), selezionato in oltre novanta festival internazionali, tra cui Camerimage, Leeds, Regard e Flickerfest e vincitore del New Talent Award al Tallinn Black Nights Film Festival (PÖFF). Dopo essere stato nominato ufficialmente ai Magritte du Cinéma nel 2021 con il suo secondo corto, dal titolo Titan (2021), coming-of-age mixato al crime con protagonista un tredicenne alle prese con il mondo della criminalità, quest’anno ha presentato il suo primo lungometraggio alla Quinzaine des Cinéastes del Festival di Cannes 2025, dal titolo La Danse Des Renards (2025). Nell’affrontare la storia di Camille - interpretato da Samuel Kircher, già a Cannes nel 2023 con L’Etè Dernier (2023) di Catherine Breillat -, giovane campione di boxe alle prese con un grave infortunio e con le sue ripercussioni psicologiche/morali, l’obiettivo raggiunto dal regista belga è quello di indagare la mascolinità fragile e in formazione, mettendo al centro il corpo, il trauma (causato in questo caso da un infortunio che espone il carattere vulnerabile del protagonista) e l’identità. Proprio la competizione sportiva e l’ambiente “duro” della boxe mette in risalto la tossicità del contesto, con la necessità di annullare le pulsioni affettive e mascherare ogni fragilità, laddove esprimere paura o dolore diventa un tabù doloroso da affrontare, che condiziona anche la crescita adolescenziale. La Danse Des Renards è ancorato ad un realismo psicologico che si radica in maniera austera nel tessuto sociale, esponendone le discrepanze e la necessità di affrontare un’età confusa, come quella della crescita, con la massima serenità possibile. In questo senso, la “danza delle volpi” diventa un’allegoria perfetta: la volpe è astuta, elusiva, selvatica, come le emozioni che Camille non riesce a verbalizzare e, soprattutto, come gli ambienti, tenebrosi e cupi (la foresta e la palestra, due non-luoghi apparentemente diversi ma tutto sommato uniformi), che la regia della Carnoy, che in molti punti appare molto piatta e anonima immersa tra i suoi primi piani alla ricerca di empatia con il suo protagonista, sfrutta per rendere il film decisamente più austero ed ellittico. La performance di Samuel Kircher, con la sua espressività corporea che gioca tutto su movimenti istintivi che ben si adattano allo scenario incerto e “animalesco” che il film delinea di minuto in minuto, risulta essere ottima, dando conferma di essere una delle giovani “star” più promettenti del panorama francese odierno. In definitiva, La Danse Des Renards, pur con le sue incertezze tipiche di un’opera prima, resta un prodotto molto godibile, pieno di assenze, non detti e tensioni trattenute che il regista francese manovra con sapienza per creare contrasti tra violenza e tenerezza e focalizzarsi, principalmente, sull’alterità umana.
Kika, di Alexe Poukine
Dopo aver ricevuto elogi per i suoi lavori nel campo dell’esibizione fotografica e in seguito ai riconoscimenti ottenuti grazie ai primi documentari a tema sociale, la regista francese Alexe Poukine esordisce nel lungometraggio di finzione con un racconto che tratta molteplici temi: la maternità e il lutto, ma anche il mondo del lavoro precariato e quello delle sex worker. Dopo che la perdita del proprio partner l’ha portata a non riuscire a provvedere alle spese familiari, Kika (Manon Clavel) inizia una doppia vita divisa tra il ruolo di madre e quello da escort. La figura del fidanzato venuto a mancare continuerà a venir esclusivamente suggerita per tutta la pellicola, non apparendo mai fisicamente in scena ma rappresentando comunque una presenza che si nasconde dietro ogni incontro sessuale della protagonista. Tali sequenze saranno caratterizzate dalla progressiva perdita di dignità dei partner passeggeri di Kika, che troveranno piacere nel sentirsi dominati dalla donna e sfogando nel rapporto di autorità la propria frustrazione maschile. Come nel mondo del lavoro quotidianamente accettiamo di vivere subordinati a un potere più alto, anche nel settore dello scambio di prestazioni sessuali possono essere replicate queste dinamiche, mostrando non solo le difficoltà affrontate dalle figure che lavorano in tale dimensione, ma anche la condizione emotiva di chi arriva a desiderare di essere sottomesso per ritrovare godimento in una società contemporanea dove il singolo è sempre più isolato. Attraverso una forma pulita che non si concede alcun eccesso stilizzato, la cineasta riesce a seminare il film di momenti di delicatezza e di genuina vicinanza ai personaggi, esaminando questa dimensione sociale con uno sguardo mai giudicante, ma comunque consapevole della fragilità del contenuto trattato. Queste stanze buie ma dai colori accesi e stranianti in cui avvengono i rapporti sessuali assumono la funzione di luoghi distaccati dal tempo e dalle condizioni sociali, permettendo alla regista di isolare i personaggi in spazi irreali in cui questi ultimi sono costretti a confrontarsi con le loro pulsioni più intime. Kika arriva così a rivedere in ogni uomo il proprio partner-fantasma e a comprendere progressivamente la vulnerabilità dell’altro, in un gioco di ruoli che è pure una fuga dall’oppressione del neoliberismo moderno. Per quanto sicuramente limitato da una narrazione eccessivamente diluita e da una sobrietà alle volte fin troppo chirurgica, il nuovo film di Alexe Poukine riesce comunque a raccontare una piccola storia umana senza mai eccedere, né in scelte stilistiche ardite, ma neanche in cadute di stile melodrammatiche.
Mama, di Or Sinai
Non è insolito vedere a Cannes esordi cinematografici che nascono dai cortometraggi. Pensiamo a Plan 75 (2022) di Chie Hayakawa (in concorso quest’anno con Renoir), oppure basti pensare a Love Letter (2025) di Alice Douard, presentato quest’anno nella sezione Semaine de la critique. Non è una novità che i cortometraggi siano spesso un “anteprima” o un “biglietto da visita” della visione dei giovani cineasti che vogliono raccontare, e raccontarsi, attraverso il cinema in ogni sua forma. Or Sinai, giovane regista israeliana non sfugge da questo meccanismo. Si presenta quest’anno a Cannes col suo primo lungometraggio Mama - come proiezione speciale - un adattamento del proprio corto Anna. Il film racconta di una donna, Mila, che come tante altre, lascia il proprio Paese e la propria casa per andare a lavorare all’estero come donna delle pulizie per riuscire ad aiutare la famiglia che resta. Mila dopo molti anni inizia a sentirsi bene nella sua nuova “casa” israeliana. I suoi datori di lavoro la trattano come una di famiglia e ha anche trovato l’amore nel suo collega giardiniere. Le telefonate alla famiglia la rassicurano e le fanno capire che i sacrifici che sta compiendo stanno dando i propri frutti. Dopo un incidente Mila è costretta a tornare a casa in Polonia per un breve periodo, e sarà in quel viaggio che si renderà conto che non era tutto come lei credeva e che la riunione famigliare tanto attesa si rivelerà ben altro. Or Sinai porta al centro della storia lo sguardo di tutte quelle donne che sacrificano la propria vita e famiglia e che abbandonano la loro casa per un futuro migliore per i propri cari, ma che a causa di queste scelte vengono spesso tagliate fuori dai questi legami. La regia, pur elementare e senza troppi virtuosismi tecnici, porta il film a basarsi soprattutto sulle relazioni umane che si intrecciano e si sciolgono tra i vari personaggi. A reggere tutta la storia è sicuramente l’interpretazione di Evgenia Dodina (protagonista anche nel corto Anna) che da sola ci fa empatizzare con la sua sofferenza e con il senso di smarrimento che si prova quando non si sa più quale possa essere il nostro posto d’apparenza.
Laurent dans le vent, di Anton Balekdjian, Léo Couture e Mattéo Eustachon
Essere adulti senza sentirtici, essere persi senza capire il perché. Laurent è un giovane ragazzo di 29 e la sua storia è la stessa di un’intera generazione, dove l’antagonista non è la strega cattiva o l’orco, ma noi stessi e il senso di smarrimento che la nostra stessa paura di fallire ci procura. Laurent dans le vent è un film diretto a sei mani dai giovani registi Anton Balekdjian (1996), Léo Couture (1997) e Matteo Eustachio (1999). Non è un caso che i cineasti portino sullo schermo la storia di un loro coetaneo che non sa più cosa significhi vivere. Laurent dopo una crisi viene “spinto” dalla sorella a prendersi una pausa e col suo aiuto si trasferisce in una stazione sciistica deserta (poiché non è stagione). Qui Laurent inizia a condurre una vita lenta, fatta di incontri casuali ma significativi che lo porteranno piano piano a voler di nuovo essere protagonista della propria vita e non solo uno spettatore. Presentato nella sezione ACID, Laurent dans le vent è un vero e proprio manifesta del cinema millennials. Il film sfugge dall’idea di una regia veloce ricercando un montaggio veloce, ma invece si presenta lento, senza mai però essere pesante, come a voler dare respiro a chi lo guarda, senza mai sovraccaricarlo di informazioni o stimoli. Il pubblico è portato a vivere la tranquillità tanto ricercata da Laurent. Inoltre, la regia che richiama molto quella di Wes Anderson. La ricerca della simmetria, i personaggi spesso messi proprio al centro della scena e le scene assurde e serie allo stesso tempo che portano lo spettatore a una risata inconsapevole. Al contrario del regista americano, però, i tre giovani registi francesi vogliono solo giocare con l’assurdo ma senza mai decorarla coi colori pastello o carta da zucchero molto cari a Anderson. La fotografia, infatti, rimane molto realistica, a tratti cruda. Balekdjian, Couture e Eustachio creano un affresco realistico, ma mai banale o tendente al dramma, di cosa significhi essere un adulto che non viene considerato tale e che ha paura di esserlo. Laurent è un personaggio all’apparenza apatico, ma che nasconde in sé un’enorme umanità che emerge solo grazie ai nuovi incontri che fa nella stazione sciistica. I personaggi che orbitano intorno a Laurent sono unici, particolari e vivono a pieno la propria esistenza fregandosene di ciò che il mondo pensa di loro. Ed è grazie a loro che Laurent imparerà a lasciarsi trasportare dal vento senza più preoccuparsi di ciò che le persone si aspettano da lui.
di Omar Franini, Antonio Orrico, Lorenzo Sartor e Cecilia Parini
NC-304
21.05.2025
Come ad ogni manifestazione cinematografica a cui ODG partecipa, nei prossimi giorni pubblicheremo diversi reportage in cui vi racconteremo dei film che stiamo visionando alla 78ª edizione del Festival di Cannes. Per questo terzo appuntamento ci concentreremo su altri due film presentati in Competizione, tra cui il brutale Die, My Love di Lynne Ramsay con protagonisti Jennifer Lawrence e Robert Pattinson, il coming of age Renoir di Chia Hayakawa e Nouvelle Vague di Richard Linklater. Entreremo anche nel vivo di Un Certain Regard con Pillion di Harry Lighton, O Riso e a Faca di Pedro Pinho e Un Poeta di Simón Mesa Soto. Inoltre vi racconteremo anche di Mama di Or Sinai, Kika di Alexe Poukine e Laurent dans le vent del trio dei registi Anton Balekdjian, Léo Couture e Mattéo Eustachon. Concluderemo infine con i titoli dalla Quinzaine, tra cui Le dance des renards di Valéry Carnoy.
Die, My Love, di Lynne Ramsay
“Thank God I’m a beast”.Un’inquadratura fissa su un soggiorno spoglio e senza vita apre Die, My Love di Lynne Ramsay. Pian piano si cominciano ad udire le voci di Grace (Jennifer Lawrence) e Jackson (Robert Pattinson) che iniziano a discutere dei progetti futuri, in soli pochi mesi una terza persona si aggiungerà alla coppia stravolgendo drasticamente la loro relazione. Il cinema di Lynne Ramsay non è mai stato caratterizzato da un approccio minimalista o sotteso e subito dopo l’overture pacata, la cineasta britannica introduce lo spettatore ad una sequenza animalesca nel quale i protagonisti danno vita ai loro istinti più primordiali, una sorta di danza nel quale il sesso viene mostrato come se i due fossero dei felini che stanno cercando di avere il predominio l’uno sull’altro. “È un gatto, un orso e un bambino”, le parole dette dal padre di Jackson a Grace ad un primo istante sembrano riguardare il futuro pargolo della coppia, ma ben presto ci si accorgerà che riguardano più la protagonista e come il parto cambierà radicalmente la sua esistenza. Die My Love è un’opera brutale e bestiale, nella quale Ramsay esagera ogni aspetto della propria narrativa per trasportare lo spettatore nella depressione post partum di Grace - a partire da un uso del suono e di una soundtrack rock che permane per tutta la durata del film, unita alle classiche immagini esplicite di violenza fisica e psicologica che si ritrovano nella filmografia di Ramsay. La regista gestisce magistralmente la propria visione in ogni singolo momento, probabilmente nella mani di un altro cineasta, Die My Love sarebbe stato un disastro. Il modo in cui Ramsay dirige Jennifer Lawrence, che regala un'eccellente interpretazione sopra le righe, richiama la grande Gena Rowlands nelle collaborazioni con il marito John Cassavetes risultando intenzionalmente fastidiosa e irritante per cercare di trasmettere il senso di auto-isolamento imposto dalla depressione. Die My Love è un’affascinante new entry nella filmografia di Ramsay, una devastante, e accattivante, riflessione sulla depressione post partum che illustra come, spesso, non siamo in grado di capire pienamente la condizione di chi ci sta accanto.
Renoir, di Chie Hayakawa
Il nome di Chie Hayakawa è stato uno dei più chiacchierati nell’edizione di Cannes 2022, Plan 75, la sua intrigante opera prima, aveva mostrato il talento grezzo di una regista davvero promettente. Renoir, il suo secondo lungometraggio, un coming of age che narra di Fuki, una giovane undicenne che si sente costantemente sola; il padre, malato di cancro, spesso si trova in ospedale, mentre la madre è sempre impegnata per via del suo lavoro e non riesce a dare le attenzioni dovute alla figlia in questo periodo difficile. Per raccontare la condizione di Fuki, la cineasta giapponese adopera una narrazione frammentata per rispecchiare le continue riflessioni che la ragazzina ha sul mondo che la circonda. Un punto di vista interessante, che però non funziona mai appieno. Hayakawa infatti pone una certa distanza tra lo spettatore e la protagonista, un’apatia che non permette un vero investimento emotivo sulla storia, lo si ha solo nelle scene tra Fuki e i genitori, soprattutto per lo sguardo empatico con cui Hayakawa dipinge le figure paterne e le loro difficoltà. Ma man mano che la storia si espande e nuovi personaggi vengono introdotti, la struttura narrativa diventa piuttosto tediosa, non aiutata da un montaggio sconnesso e da un susseguirsi di scene che invece di aggiungere una certa profondità, rinforzano questa distanza emotiva tra Fuki e l’audience. Renoir non risulta una completa bocciatura, ma solo un piccolo passo indietro rispetto a Plan 75. Se quest’ultimo aveva alcune lacune nel reparto tecnico, in Renoir non si può dire lo stesso. Le composizioni immacolate di Hayakawa trasmettono comunque un senso di tranquillità e pace che fungono da contrasto con la storia piuttosto melanconica del film, ma queste non sono in grado di salvare un’opera che trasmette troppo poco a livello emotivo.
Nouvelle Vague, di Richard Linklater
Quale posto migliore per presentare un film sulla Nouvelle Vague e sulla lavorazione di À bout de souffle (Fino all'ultimo respiro, 1960) se non il Festival di Cannes? Il nuovo film di Richard Linklater esplora il dietro le quinte del film più celebre di Godard e le numerose difficoltà che il cineastadovette affrontare per far sì che la sua opera rivoluzionaria vedesse la luce. Come si è visto in Blue Moon, l’operazione compiuta da Linklater è per lo più focalizzata sulla ricostruzione storica, artistica e cinematografica del periodo storico affrontato; se il film precedente rispecchiava lo stile teatrale e da screwball comedy degli anni ‘40, Nouvelle Vague risulta diretto come uno dei primi film della corrente cinematografica francese di cui narra. L’uso del bianco e nero, dei jumpcut “godardiani”e dell’estetica tipica del 35mm, donano al film quel senso di autenticità, una ricerca minuziosa più che lodevole. La messa in scena non risulta mai rivoluzionaria nella forma come quella del film a cui vuole rendere omaggio, ma non è nemmeno necessario, Nouvelle Vague è semplicemente un omaggio ad un cinema ribelle e sovversivo che ha influenzato numerose generazioni di cineasti, tra cui quella indipendente statunitense degli anni’ 90 - la generazione di Linklater appunto. Recitato egregiamente da Guillaume Marbeck e Zoey Dutch, la cui chimica rispecchia perfettamente il rapporto amore/odio tra Godard e Jean Seberg, Nouvelle Vague risulta una piacevole visione, uno sguardo spensierato che rende omaggio a quella giovane sfrontatezza che ha rivelato il talento di molti artisti.
Miroirs n.3, di Christian Petzold
Miroirs No.3 di Christian Petzold si può considerare come il capitolo conclusivo della trilogia degli elementi. Se in Undine (2020) e Roter Himmel (Il cielo brucia, 2023) l’acqua e il fuoco ricoprivano un ruolo predominante, qui il vento, o l’aria, rimangono elementi quasi minimali, ma pur sempre presenti, come se lo stesso corpo della protagonista Laura (Paula Beer) rappresenti una presenza eterea e silenziosa che fluttua all’interno delle vite di diverse persone, specialmente quelle di un piccolo nucleo famigliare che la accoglie dopo che è stata vittima di un incidente stradale. Miroirs No.3 è un film sul lutto, sui fantasmi del passato e su come per alleviare le nostre sofferenze cerchiamo di ricreare, se non rimpiazzare, la persona perduta. Non a caso, queste tematiche hanno sempre caratterizzato il cinema di Petzold e questo suo nuovo film funge infatti come un “greatest hits” della sua poetica, un punto d’incontro tra le sue opere più conosciute - dove si ripresentano l'ossessione verso il “doppio”e i toni pacati e "rohmeriani" del resto della trilogia degli elementi. Miroirs No.3 è un film "leggiadro", nel quale il regista tedesco, nonostante si affrontino tematiche intricate come il lutto, è in grado di infondere una vena umoristica - proprio come in Roter Himmel. Minimale nella forma, ma pur sempre complesso nella narrativa, Miroirs No.3 non rappresenta un film “minore” nella carriera di Petzold, ma la conferma della maestria di un autore in grado di trasformarsi e reinventarsi ad ogni occasione, rimanendo fedele al suo stile e alla sua poetica.
Pillion, di Harry Lighton
Il BDSM e le relazioni sadomaso sono al centro di Pillion, opera prima di Harry Lighton che esplora la peculiare dinamica tra il timido Collin (Harry Melling) e il biker Ray (Alexander Skarsgård) che, dopo un incontro fugace in un pub, iniziano una relazione che ben presto rivelerà la tossicità dietro alla dinamica sottomesso/dominatore. Pillion non vuole porre il BSDM in cattiva luce, anzi, riesce a mostrare un lato della sessualità e del feticismo esplorato di rado nel mondo del cinema. Lighton sfrutta proprio questa premessa per smontare i tabù e gli stereotipi che accompagnano la natura della relazione BDSM dirigendo il film come se fosse una classica commedia romantica americana. Questo approccio funziona inizialmente, ma in seguito non riesce a non scadere in un sentimentalismo prevedibile. Il film è comunque una piacevole e "lussuriosa" visione che intrattiene, diverte e a tratti commuove, principalmente grazie alle interpretazioni di Melling e Skarsgård, in grado di mostrare quanto la loro bramosia sessuale nasconda una vulnerabilità più profonda.
Un poeta, di Simón Mesa Soto
Simón Mesa Soto rappresenta una delle nuove voci del cinema colombiano e internazionale. Il regista ha studiato Comunicazione Audiovisiva presso l'Università di Antioquia, dove ha anche insegnato montaggio cinematografico. Successivamente, dopo essersi trasferito in pianta stabile a Londra, ha conseguito un Master in Regia presso la London Film School, laureandosi con distinzione nel 2014. Nel corso del suo periodo di soggiorno in terra britannica, ha cominciato ad approcciare concretamente alla materia cinematografica. I suoi cortometraggi Back Home (2009) e Leidi (2014), progetto di laurea candidato poi a Cannes nella sezione Cortometraggi e vincitore della Palma d’Oro ad essi dedicata, si incentrano perlopiù su un aspetto familiare, aiutando a distinguere la sua opera attraverso un realismo intimo e sociale, spesso incentrato su storie ambientate nei quartieri popolari della sua città natale. Un impegno testimoniato anche dal successivo cortometraggio, Madre (2016), selezionato nuovamente a Cannes e prodotto nell'ambito del progetto internazionale "Break the Silence", a causa del suo approccio diretto nei confronti della tematica dell’abuso sessuale nei confronti dei minori. Con Amparo (2021), ha esordito nel lungometraggio, presentando il film alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes, e rinforzando il legame nei confronti di un’altra tematica principale della sua filmografia, ovvero i rapporti familiari. Questi ultimi tornano a scorrere e ad essere centrali anche nel nuovo Un Poeta, presentato nella sezione Un Certain Regard al Festival di Cannes 2025. Il film conferma l’abilità del regista nel raccontare storie intime con profondità e sensibilità, offrendo una riflessione sull’importanza del trasmettere la conoscenza e l'arte tra generazioni diverse. La scelta di concentrarsi su personaggi marginali e su una narrazione intima permette a Mesa Soto di offrire una prospettiva fresca e autentica sul potere trasformativo dell'arte, dove la figura del poeta ossessivo Oscar, interpretato abilmente da Ubeimar Rios, dà corpo inevitabilmente al legame tra memoria e tradizione, costruito in antitesi con il potenziale e la rinascita incarnata, invece, da Rebeca Andrade. Il loro incontro diventa un simbolo della continuità culturale e della capacità dell'arte di unire le persone al di là delle differenze generazionali, sfruttando come modello il melò di Finding Forrester (Cercando Forrester, 2000) di Gus Van Sant e concentrandosi su un approccio minimalista, adottando uno stile sobrio e realistico, in cui inquadrature statiche si alternano a inquadrature più “sanguigne” e la palette cromatica naturale riflette l'ambiente quotidiano dei protagonisti conferendo nostalgia al film. La ricerca del ruolo artistico “sopra ogni cosa”, però, appare troppo sognante e poco realistico, in un contesto in cui la rinascita artistica passa per un mix di commedia e tragedia, il cui tono segna inevitabilmente il finale classicheggiante, che non mancherà di dividere gli spettatori e lasciare a loro lo spazio per la riflessione morale su questo rapporto “poetico”.
O Riso e a Faca, di Pedro Pinho
Il cinema portoghese si è sempre confrontato con il proprio retaggio coloniale e con la difficoltà di cancellare dalla Storia i crimini dell’Estado Novo, in una continua dialettica tra passato e presente. L’indagine sulla memoria presentata nel quarto film di Pedro Pinho non ha però come oggetto di studio il Portogallo contemporaneo e la sua nostalgia nei confronti del regime, bensì una fittizia città dell’Africa occidentale, in cui vive ancora il ricordo del colonialismo e vige un rapporto conflittuale tra etnie afrodiscendenti e caucasiche. In questo luogo segnato dalla divisione tra classi e dalla presenza ingombrante di marchi, canzoni e simboli dell’Occidente, Sérgio (Sérgio Coragem) arriverà da Lisbona per entrare in contatto con gli abitanti della metropoli, collaborando con una ONG per costruire una strada in grado di unire tutti i villaggi del territorio e portare così un reale progresso per le ex-colonie. Il viaggio di Sérgio è quello di una nazione che ancora deve fare i conti con un lascito imperialista e che continua a cercare riscatto per i peccati dell’uomo bianco. Centrale nell’opera di Pinho è infatti il complesso del white savior, l’idea che il protagonista si senta colpevole per gli errori dei suoi avi e cerchi nell’attivismo un’espiazione personale, comprendendo lungo il percorso che gli abitanti della zona non attendono da lui alcun miracolo e che anche nell’ideale neoliberista dell’aiuto umanitario può nascondersi una forma più subdola ed evoluta del neo-colonialismo e dell’occupazione dei territori in via di sviluppo. Il confronto con i fantasmi dell’imperialismo portoghese non può che portare a un conflitto identitario interno al protagonista, che cambierà modo di vivere la vita sessuale dopo essere entrato in contatto con una popolazione che esperisce il piacere con un differente senso di moralità e libertà. In questa opera-fiume di oltre duecento minuti piena di digressioni e quadri di vita comune (durante i quali è impossibile non pensare al Miguel Gomes di Arabian Nights), i corpi di Sérgio, Diara (Cleo Diara) e dei loro partner sessuali rimarranno al centro dell’intreccio, restando in costante dialogo con la fede politica dei personaggi. Laddove non sembra esistere redenzione per l’uomo bianco che si ferma in un luogo e cerca di aiutare i più bisognosi, la fuga da ogni insoddisfazione sessuale e dalle contraddizioni etiche del lavoro umanitario si svelerà nell’ultimo atto, nel costante movimento del protagonista verso un altrove indefinito. Uno stato di smarrimento e di nomadismo che però permetteranno al personaggio di lasciarsi alle spalle le strutture del neoliberalismo e gli consentiranno di trovare riposo. Una quiete che come dice lo stesso titolo si può trovare “solo nella tempesta”, nello stato di perenne irrequietezza, abbandonando ogni pretesa di controllo a favore di una libertà che il cittadino occidentale, da solo, non sarebbe mai riuscito a trovare.
La Dance des renards, di Valery Carnoy
Valéry Carnoy è un regista e sceneggiatore belga emergente, che ha inizialmente intrapreso studi in psicologia sociale e interculturale presso l'Université libre de Bruxelles (ULB). Successivamente, ha proseguito la sua formazione artistica presso l'Institut National Supérieur des Arts du Spectacle (INSAS), dove si è specializzato in fotografia prima di dedicarsi alla regia e alla sceneggiatura di opere di finzione. Il suo debutto nel mondo cinematografico arriva nel 2018, con Ma Planéte (2018), selezionato in oltre novanta festival internazionali, tra cui Camerimage, Leeds, Regard e Flickerfest e vincitore del New Talent Award al Tallinn Black Nights Film Festival (PÖFF). Dopo essere stato nominato ufficialmente ai Magritte du Cinéma nel 2021 con il suo secondo corto, dal titolo Titan (2021), coming-of-age mixato al crime con protagonista un tredicenne alle prese con il mondo della criminalità, quest’anno ha presentato il suo primo lungometraggio alla Quinzaine des Cinéastes del Festival di Cannes 2025, dal titolo La Danse Des Renards (2025). Nell’affrontare la storia di Camille - interpretato da Samuel Kircher, già a Cannes nel 2023 con L’Etè Dernier (2023) di Catherine Breillat -, giovane campione di boxe alle prese con un grave infortunio e con le sue ripercussioni psicologiche/morali, l’obiettivo raggiunto dal regista belga è quello di indagare la mascolinità fragile e in formazione, mettendo al centro il corpo, il trauma (causato in questo caso da un infortunio che espone il carattere vulnerabile del protagonista) e l’identità. Proprio la competizione sportiva e l’ambiente “duro” della boxe mette in risalto la tossicità del contesto, con la necessità di annullare le pulsioni affettive e mascherare ogni fragilità, laddove esprimere paura o dolore diventa un tabù doloroso da affrontare, che condiziona anche la crescita adolescenziale. La Danse Des Renards è ancorato ad un realismo psicologico che si radica in maniera austera nel tessuto sociale, esponendone le discrepanze e la necessità di affrontare un’età confusa, come quella della crescita, con la massima serenità possibile. In questo senso, la “danza delle volpi” diventa un’allegoria perfetta: la volpe è astuta, elusiva, selvatica, come le emozioni che Camille non riesce a verbalizzare e, soprattutto, come gli ambienti, tenebrosi e cupi (la foresta e la palestra, due non-luoghi apparentemente diversi ma tutto sommato uniformi), che la regia della Carnoy, che in molti punti appare molto piatta e anonima immersa tra i suoi primi piani alla ricerca di empatia con il suo protagonista, sfrutta per rendere il film decisamente più austero ed ellittico. La performance di Samuel Kircher, con la sua espressività corporea che gioca tutto su movimenti istintivi che ben si adattano allo scenario incerto e “animalesco” che il film delinea di minuto in minuto, risulta essere ottima, dando conferma di essere una delle giovani “star” più promettenti del panorama francese odierno. In definitiva, La Danse Des Renards, pur con le sue incertezze tipiche di un’opera prima, resta un prodotto molto godibile, pieno di assenze, non detti e tensioni trattenute che il regista francese manovra con sapienza per creare contrasti tra violenza e tenerezza e focalizzarsi, principalmente, sull’alterità umana.
Kika, di Alexe Poukine
Dopo aver ricevuto elogi per i suoi lavori nel campo dell’esibizione fotografica e in seguito ai riconoscimenti ottenuti grazie ai primi documentari a tema sociale, la regista francese Alexe Poukine esordisce nel lungometraggio di finzione con un racconto che tratta molteplici temi: la maternità e il lutto, ma anche il mondo del lavoro precariato e quello delle sex worker. Dopo che la perdita del proprio partner l’ha portata a non riuscire a provvedere alle spese familiari, Kika (Manon Clavel) inizia una doppia vita divisa tra il ruolo di madre e quello da escort. La figura del fidanzato venuto a mancare continuerà a venir esclusivamente suggerita per tutta la pellicola, non apparendo mai fisicamente in scena ma rappresentando comunque una presenza che si nasconde dietro ogni incontro sessuale della protagonista. Tali sequenze saranno caratterizzate dalla progressiva perdita di dignità dei partner passeggeri di Kika, che troveranno piacere nel sentirsi dominati dalla donna e sfogando nel rapporto di autorità la propria frustrazione maschile. Come nel mondo del lavoro quotidianamente accettiamo di vivere subordinati a un potere più alto, anche nel settore dello scambio di prestazioni sessuali possono essere replicate queste dinamiche, mostrando non solo le difficoltà affrontate dalle figure che lavorano in tale dimensione, ma anche la condizione emotiva di chi arriva a desiderare di essere sottomesso per ritrovare godimento in una società contemporanea dove il singolo è sempre più isolato. Attraverso una forma pulita che non si concede alcun eccesso stilizzato, la cineasta riesce a seminare il film di momenti di delicatezza e di genuina vicinanza ai personaggi, esaminando questa dimensione sociale con uno sguardo mai giudicante, ma comunque consapevole della fragilità del contenuto trattato. Queste stanze buie ma dai colori accesi e stranianti in cui avvengono i rapporti sessuali assumono la funzione di luoghi distaccati dal tempo e dalle condizioni sociali, permettendo alla regista di isolare i personaggi in spazi irreali in cui questi ultimi sono costretti a confrontarsi con le loro pulsioni più intime. Kika arriva così a rivedere in ogni uomo il proprio partner-fantasma e a comprendere progressivamente la vulnerabilità dell’altro, in un gioco di ruoli che è pure una fuga dall’oppressione del neoliberismo moderno. Per quanto sicuramente limitato da una narrazione eccessivamente diluita e da una sobrietà alle volte fin troppo chirurgica, il nuovo film di Alexe Poukine riesce comunque a raccontare una piccola storia umana senza mai eccedere, né in scelte stilistiche ardite, ma neanche in cadute di stile melodrammatiche.
Mama, di Or Sinai
Non è insolito vedere a Cannes esordi cinematografici che nascono dai cortometraggi. Pensiamo a Plan 75 (2022) di Chie Hayakawa (in concorso quest’anno con Renoir), oppure basti pensare a Love Letter (2025) di Alice Douard, presentato quest’anno nella sezione Semaine de la critique. Non è una novità che i cortometraggi siano spesso un “anteprima” o un “biglietto da visita” della visione dei giovani cineasti che vogliono raccontare, e raccontarsi, attraverso il cinema in ogni sua forma. Or Sinai, giovane regista israeliana non sfugge da questo meccanismo. Si presenta quest’anno a Cannes col suo primo lungometraggio Mama - come proiezione speciale - un adattamento del proprio corto Anna. Il film racconta di una donna, Mila, che come tante altre, lascia il proprio Paese e la propria casa per andare a lavorare all’estero come donna delle pulizie per riuscire ad aiutare la famiglia che resta. Mila dopo molti anni inizia a sentirsi bene nella sua nuova “casa” israeliana. I suoi datori di lavoro la trattano come una di famiglia e ha anche trovato l’amore nel suo collega giardiniere. Le telefonate alla famiglia la rassicurano e le fanno capire che i sacrifici che sta compiendo stanno dando i propri frutti. Dopo un incidente Mila è costretta a tornare a casa in Polonia per un breve periodo, e sarà in quel viaggio che si renderà conto che non era tutto come lei credeva e che la riunione famigliare tanto attesa si rivelerà ben altro. Or Sinai porta al centro della storia lo sguardo di tutte quelle donne che sacrificano la propria vita e famiglia e che abbandonano la loro casa per un futuro migliore per i propri cari, ma che a causa di queste scelte vengono spesso tagliate fuori dai questi legami. La regia, pur elementare e senza troppi virtuosismi tecnici, porta il film a basarsi soprattutto sulle relazioni umane che si intrecciano e si sciolgono tra i vari personaggi. A reggere tutta la storia è sicuramente l’interpretazione di Evgenia Dodina (protagonista anche nel corto Anna) che da sola ci fa empatizzare con la sua sofferenza e con il senso di smarrimento che si prova quando non si sa più quale possa essere il nostro posto d’apparenza.
Laurent dans le vent, di Anton Balekdjian, Léo Couture e Mattéo Eustachon
Essere adulti senza sentirtici, essere persi senza capire il perché. Laurent è un giovane ragazzo di 29 e la sua storia è la stessa di un’intera generazione, dove l’antagonista non è la strega cattiva o l’orco, ma noi stessi e il senso di smarrimento che la nostra stessa paura di fallire ci procura. Laurent dans le vent è un film diretto a sei mani dai giovani registi Anton Balekdjian (1996), Léo Couture (1997) e Matteo Eustachio (1999). Non è un caso che i cineasti portino sullo schermo la storia di un loro coetaneo che non sa più cosa significhi vivere. Laurent dopo una crisi viene “spinto” dalla sorella a prendersi una pausa e col suo aiuto si trasferisce in una stazione sciistica deserta (poiché non è stagione). Qui Laurent inizia a condurre una vita lenta, fatta di incontri casuali ma significativi che lo porteranno piano piano a voler di nuovo essere protagonista della propria vita e non solo uno spettatore. Presentato nella sezione ACID, Laurent dans le vent è un vero e proprio manifesta del cinema millennials. Il film sfugge dall’idea di una regia veloce ricercando un montaggio veloce, ma invece si presenta lento, senza mai però essere pesante, come a voler dare respiro a chi lo guarda, senza mai sovraccaricarlo di informazioni o stimoli. Il pubblico è portato a vivere la tranquillità tanto ricercata da Laurent. Inoltre, la regia che richiama molto quella di Wes Anderson. La ricerca della simmetria, i personaggi spesso messi proprio al centro della scena e le scene assurde e serie allo stesso tempo che portano lo spettatore a una risata inconsapevole. Al contrario del regista americano, però, i tre giovani registi francesi vogliono solo giocare con l’assurdo ma senza mai decorarla coi colori pastello o carta da zucchero molto cari a Anderson. La fotografia, infatti, rimane molto realistica, a tratti cruda. Balekdjian, Couture e Eustachio creano un affresco realistico, ma mai banale o tendente al dramma, di cosa significhi essere un adulto che non viene considerato tale e che ha paura di esserlo. Laurent è un personaggio all’apparenza apatico, ma che nasconde in sé un’enorme umanità che emerge solo grazie ai nuovi incontri che fa nella stazione sciistica. I personaggi che orbitano intorno a Laurent sono unici, particolari e vivono a pieno la propria esistenza fregandosene di ciò che il mondo pensa di loro. Ed è grazie a loro che Laurent imparerà a lasciarsi trasportare dal vento senza più preoccuparsi di ciò che le persone si aspettano da lui.