
di Beatrice Gangi, Pavel Belli Micati e Mattia Pescitelli
NC-354
27.10.2025
Sabato si è chiusa la 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma e, ancora una volta, la manifestazione si è confermata una vetrina fondamentale per il cinema italiano che, tra ambizioni sproporzionate, tentativi sinceri e qualche piacevole sorpresa, ha saputo riservare momenti di autentico interesse. Il panorama che emerge dai titoli che vi proponiamo è quello di un cinema in cerca di forma, spesso più preoccupato di rappresentarsi che di raccontarsi davvero.
In La vita va così di Riccardo Milani, la commedia civile si fa favola identitaria sul legame con la terra; 40 secondi di Vincenzo Alfieri ripercorre il caso Willy Monteiro Duarte trasformandolo in un racconto corale sulla violenza e la responsabilità; Alla festa della rivoluzione di Arnaldo Catinari rievoca l’impresa di D’Annunzio con un respiro storico e visivo che sfiora l’epica. Con Cinque secondi, Paolo Virzì firma una fiaba morale sul senso di colpa e la possibilità di rinascita, mentre Gli occhi degli altri di Andrea De Sica indaga il potere dello sguardo e le dinamiche di dominio all’interno della coppia.
Tra le opere più personali, Elena del ghetto di Stefano Casertano restituisce una Roma viva e popolare attraverso la figura leggendaria di Elena di Porto, mentre Breve storia d’amore di Ludovica Rampoldi esplora le fragilità del desiderio e dell’infedeltà. Chiudono il quadro La lezione di Stefano Mordini, che intreccia thriller e dramma psicologico sul tema del consenso, e Fuori la verità di Davide Minnella, satira del presente che usa il linguaggio televisivo per riflettere sul bisogno di autenticità.
Ne risulta un mosaico disomogeneo, dove il bisogno di “dire qualcosa” spesso prevale sulla chiarezza del linguaggio. Eppure, anche in questa irregolarità, si intravede un movimento, quello di un cinema che, pur inciampando nei suoi limiti, continua a cercare un senso dentro le sue storie, e forse anche fuori dallo schermo.
40 secondi, di Vincenzo Alfieri

Una pecora si allontana dal suo gregge. Un’agente di polizia non riesce a dormire perché, nella piazza sotto casa, dei ragazzi fanno chiasso. La solita rissa fuori da una discoteca degenera quando un giovane cade a terra, esamine, senza dare segnali di vita: queste sono le premesse di 40 secondi, tratto dal romanzo di Federica Angeli, un’ambiziosa tanto quanto imprudente indagine filologica sul paradigma di violenza che, il 3 giugno del 2020, portò alla morte il ventunenne Willy Monteiro Duarte. La regia di Vincenzo Alfieri si inserisce così nella direzione ambigua che ha preso il cinema italiano degli ultimi anni - romanzare i casi di cronaca nera più discussi. 40 secondi sono il tempo impiegato dai fratelli Bianchi per prendere parte alla rissa, pestare a sangue il ragazzo e dileguarsi dalla scena del crimine. La storia ripercorre le 24 ore che precedono i fatti, attraverso le prospettive dei personaggi coinvolti nella vicenda. Quaranta secondi sarebbe anche potuta essere la durata di questo film che, con l’incipit che tributa Noyz Narcos, racconterebbe “storie maledette di ragazzi truci”. Tra le altre ambizioni della pellicola, c’è quella di fornire un trattamento drammaturgico al clima di desolazione e indolenza percepito e promosso nelle realtà di provincia. Una fotografia energica e un sound-editing incisivo sono tecniche astute, e pur tuttavia pretestuose, se applicate a una struttura che si compiace di imitare quella di un Paul Thomas Anderson, quando ciò di cui avrebbe bisogno è solo un’intenzione poetica chiara. Liti dal barber shop, scenate di gelosia in pista, sacrifici d’agnelli e threesome in auto davanti al cimitero: queste sono sequenze elaborate che si preoccupano troppo, di produrre un effetto della violenza così calcato, artefatto, che falliscono nel trovare un senso al senso di vuoto che permea sia la scena che i suoi protagonisti. Bar di paese, panorami post-industriali e raccordi sull’edilizia popolare suggeriscono qui una condizione, ma non la assimilano né la contestano. Il copione tenta di andare oltre la superficie della desolazione, sfiorando tematiche quali genitorialità precoce, disoccupazione giovanile e povertà generazionale; eppure, è tutto così poco approfondito e alla rinfusa che neppure le performance attoriali, per giunta discrete, riscattano un film che si compiace giusto di promuovere la violenza gratuita ad esercizio di stile. Nella pretesa di comprendere ciò che descrive, la lente di Alfieri finisce per estetizzarlo. Se la conclusione - negli atti giudiziari come nel film - è che la vittima era nel posto sbagliato al momento sbagliato, è lecito domandarsi che tipo d’intenzione servano questi 121 minuti. Le parole di Sergio Rubini, nel ruolo del padre della ragazza di uno dei fratelli, racchiudono quella stessa verità che il regista di 40 secondi forse ha intravisto, ma che non ha saputo cogliere: «La qualità non è mai casuale, è sempre il risultato di uno sforzo intellettuale».
Alla festa della rivoluzione, di Arnaldo Catinari

Nel settembre del 1919 Gabriele D’Annunzio occupò con un manipolo di volontari la città di Fiume, allora contesa tra Italia e Jugoslavia, sfidando apertamente il governo di Roma. Di quell’episodio - insieme utopia ribelle e mito protofascista - tenta una rivisitazione in chiave romanzata il film Alla festa della rivoluzione di Arnaldo Catinari, ispirato all’omonimo saggio di Claudia Salaris e sceneggiato con Silvio Muccino. Catinari sovrappone intrighi personali, amori, e idealismi rivoluzionari sullo sfondo di una città sospesa tra mito e realtà, ma l’ambizione del progetto non trova corrispettivo in uno sviluppo narrativo drammaturgicamente povero. L’intreccio, al tempo stesso troppo denso e troppo anemico, smarrisce la complessità storica di Fiume, riducendola a una mera cornice scenografica che soffoca la complessità del periodo e riduce la parabola dannunziana a un’epica semplificata di eroi e antagonisti. La mano di Catinari, noto direttore della fotografia, si riconosce nella cura visiva: luci, cromie, e composizione restituiscono una compostezza pittorica che, però, si rovescia spesso in artificio. Tutto appare impostato, ampolloso, finto. La parola, invece, invade la scena: dialoghi solenni, aforistici, personaggi più declamati che interpretati. La stessa ambiguità morale e politica di D’Annunzio, il "poeta-guerriero", si sposta sullo sfondo, in una semplificazione del suo conflitto interiore come un passaggio dal bianco al nero. Là dove Alla festa della rivoluzione avrebbe potuto farsi riflessione sulla fragilità delle utopie e sull’estetizzazione del potere, si arresta al livello del racconto illustrativo, incapace di restituire la tensione e il disordine del tempo che vorrebbe evocare.
Anna, di Monica Guerritore

Roma, 31 marzo 1956. Anna Magnani cammina per le vie di Trastevere. A Los Angeles si celebra la cerimonia degli Oscar, ma per l’attrice più famosa d’Italia è un’altra notte dove tutto può accadere, anche se, come dice lei, «nella mia vita tutto è già accaduto». Anna, scritto, diretto e interpretato da Monica Guerritore, ripercorre le tappe della carriera di Magnani, dall’inaspettata vittoria per La Rosa tatuata fino alla sua morte. La Anna di Guerritore vaga per i vicoli, si accende sigarette, nutre i gatti randagi, ripensa, rivive e reimmagina il suo passato. Nelle parole di un passante, «È lupa stanotte, e fiuta la vita sua». Un tentativo di raccontare la consacrazione e il declino di un’attrice negli anni più turbolenti del cinema italiano - ossia quando, da dispositivo che indaga il reale, si fa intrattenimento moralista e operazione da big majors. L’attrice è nota per il suo carattere difficile, ma anche la sua vita, in fondo, non è stata proprio clemente. Guerritore la interpreta e racconta come figlia di padre ignoto, amante abbandonata, madre di un giovane segnato dalla poliomielite. Non è chiaro se sia l’attrice e la sua persona, o il personaggio e il suo carattere, che l’attrice-convertita-regista tenta di rappresentare. Più che un ritratto della Magnani, Anna è un’emozione che indugia nel suo mito e, inevitabilmente, lo compromette. Tra un editing disorganico, raccordi bizzarri e strambi tuffi nel passato - dal sodalizio con Tennessee Williams, passando per le riprese di Roma città aperta (1945), arrivando alla vittoria del Grand Prix a Cannes - Guerritore crede che un film possa reggersi unicamente sull’interpretazione della sua protagonista. E nonostante ce la metta tutta, non ci riesce. Un misurato Fabrizio Bentivoglio offre la sua versione di Rossellini, ma anche questa liaison impallidisce nel tentativo di ricondurla a una delle ferite più grandi di una delle dive più note del Novecento. Magnani qui vive per la gloria del suo nome, ma soffre per un amore finito male. È come se il copione volesse approfondire un personaggio di cui conosce solo la sua storicità, e il risultato è di un manierismo petulante. Un’opera che, nelle parole che potrebbero essere della stessa Anna, se la canta e se la sona. Su Magnani Guerritore non ci dice nulla che abbiamo già visto, letto o sentito; eppure lascia lo spettatore con una domanda in sospeso: è lei che chiede troppo a se stessa, oppure è il personaggio che esige troppo dall’interprete? Il biopic sull’Oscar italiano più insolito nella storia del cinema è meglio, forse, che rimanga anche l’ultimo.
Breve storia d’amore, di Ludovica Rampoldi

Rocco è un sismologo che il venerdì sera pratica scacchi e pugilato; sua moglie Cecilia è un’analista che la domenica spara al poligono. Lea è una scrittrice colta nella sua impasse creativa; il compagno Andrea, un attore di fiction con tendenze narcisiste. Quando Rocco e Lea si incontrano una sera in un bar, tra loro nasce una relazione extra-coniugale che si consuma in una stanza d’albergo, ma le cui scosse producono propaggini ben più estreme. Per il suo esordio alla regia, Ludovica Rampoldi rovista nel repertorio della “crisi di coppia” e firma un esercizio di stile che esplora la fantasia dell’adulterio. Un moderno melò (i cui otto capitoli tradiscono la brevità professata dal titolo) può apparire scontato a un pubblico che vede l’ennesima storia di tradimento adattata sugli schermi. Ma la lente iperrealista, giocando con un intreccio minuziosamente costruito, sembra voler portare in esame qualcosa in più che la semplice esposizione di una realtà. «Sei sempre così gentile?», chiede Lea a Rocco, appena conosciuto. «Solo con gli sconosciuti», risponde lui. La dialettica certo non consente l’identificazione del pubblico con i suoi eroi, ma perché il focus non è su di loro, ma su quanto lontano possa spingersi un desiderio, per giunta poco virtuoso. Così, quando a scappatella inoltrata, Rocco domanda «Ma tu cosa vuoi da me?» e Lea ribatte «Perché, tu lo sai cosa vuoi?», diventa evidente che la direzione che prende la storia è tutt’altro che chiara - e forse è proprio in questo parossismo che Rampoldi esercita la sua visione. Le sue preoccupazioni formali - manifeste nella cura morbosa per la scena e in una caratterizzazione eccessiva dei personaggi - prevalgono su un’intenzione narrativa che seduce più di quanto non colpisca. Eppure, la seduzione sta nell’ambizione stessa (non il tradimento né le sue implicazioni) che dietro l’adulterio si nasconda una verità più profonda: così non è. Rampoldi, che scrive anche il copione, difende la tesi secondo cui, nelle parole di Valeria Golino, il tradimento può avere anche un valore positivo. In fondo, è l’esperienza di altro dalla monotonia coniugale a essere portata in analisi. E la diagnosi conclusiva - come il vento apparente che chiude l’avventura - è che questa Breve storia d’amore non è reale, ma se non altro è molto bella.
Cinque Secondi, di Paolo Virzì

Adriano è un uomo distrutto. Si è isolato nei pressi di una villa in rovina, dove passa le sue giornate a revisionare documenti, fumare sigari e rifiutarsi di presenziare alle udienze del processo intentatogli dalla ex-moglie per l’omicidio colposo della figlia disabile, annegata sotto la sua responsabilità. Ha un altro figlio, con cui non parla. Un tempo non lontano era un avvocato di successo che difendeva cause nobili. Adesso non riesce a badare neanche a se stesso. Un giorno, una colonia di figli dei fiori occupa la villa abbandonata; lui si dimostra ostile nei confronti degli squatters eco-transfemministi, capitanati dalla nipote del vecchio proprietario, un nobile decaduto, e disapprova il loro progetto di ripristino del terreno adiacente, coltura di vigneti e vendemmia. Ma quando un tentativo di sgombero per un piano di speculazione edilizia minaccia la loro missione di rigenerazione ecologica, e Adriano scopre che la contessina espropriata è in dolce attesa, il senso del dovere si riaccende e lo costringe a confrontarsi con la sua colpa più grande. Può un dialogo tra generazioni farsi parabola di guarigione e indagare il labile confine tra affetto e responsabilità? Paolo Virzì ci regala una fiaba universale che, nel servire il suo motore narrativo, qui due cause civili in contatto con un caso di coscienza, ci racconta qualcosa di più del tempo, dell’attesa e della possibilità - sempre viva - di rinascita. Come è vero che potranno tagliare tutti i fiori, ma non fermeranno mai la primavera, l’ultima delicata composizione del regista livornese lo conferma come una delle voci più originali, spassionate e sensibili del panorama italiano, anche a fronte di una carriera lunga trent’anni. La sua capacità di creare storie che, più che imitare la vita, sembrano ispirarla, non passa mai inosservata - soprattutto in tempi autunnali come i recenti. Magari esiste una formula segreta. O forse lui ha semplicemente quella giusta. Il risultato è sempre tragicomico, anche in questo tentativo sincero di imprimere una rinnovata sensibilità eco-critica alle strutture ostili della commedia italiana.
Elena del ghetto, di Stefano Casertano

Diretto da Stefano Casertano, Elena del Ghetto restituisce voce a una figura rimasta per decenni ai margini della memoria collettiva: Elena di Porto, “La Matta” del Ghetto, divenuta nota nel racconto popolare come una Cassandra romana, profetessa non creduta del rastrellamento datato 16 ottobre 1943. Il film di Casertano ne restituisce la leggenda più che la cronaca, privilegiando la leggerezza della commedia popolare, in un tono a metà fra il ritratto d’epoca e l’omaggio corale a una comunità. Nella performance di Micaela Ramazzotti, Elena emerge come una donna eccentrica, ribelle, animata da un’energia caotica che fa del suo spirito libero tanto un motore di emancipazione quanto un’inevitabile condanna all’incomprensione. Il regista riesce a restituire un Ghetto di Roma vivo, abitato, credibile nella sua dimensione quotidiana e comunitaria, evitando la rigidità tipica delle ricostruzioni d’ambientazione. Dove il film si indebolisce è però nel tentativo di fondere leggerezza e tragedia: la dimensione comica, efficace nei toni di ensemble e nella coralità del quartiere, si smarrisce nei passaggi che richiederebbero un pathos maggiore, lasciando in superficie la complessità storica e morale del contesto fascista. Ne risulta un’opera godibile, di grande umanità, ma oscillante fra la leggerezza della commedia e il, meno convincente, tentativo di allegoria neorealista. Elena del Ghetto riesce dunque a restituire un ritratto affettuoso e vitale, ma consuma la possibilità di un racconto più lacerante: quello di una donna che vide l’orrore prima degli altri e non poté evitarlo.
Fuori la verità, di Davide Minnella

Edoardo e Carolina Moretti gestiscono una società di eventi e hanno tre figli: Micol è una influencer in erba, Flavio un neolaureato in economia e Prisca studia lettere. Sono una famiglia apparentemente perfetta - perfetta per partecipare a Fuori la verità, un game show televisivo che mette in palio un milione di euro: l’unico requisito per vincerli? Dirsi, semplicemente, tutta la verità. Ma non tutto è come sembra. Già al secondo round, diventa chiaro che per i Moretti il jackpot è un’occasione più necessaria che unica e, parallelamente, la contesa rivela l’agenda nascosta dagli autori televisivi. L’idea di partenza è che le bugie più grosse si dicano quando più si ha paura di dire la verità; così, il pretesto della scalata verso la vittoria serve un confronto ad alta tensione quando segreti più scomodi di altri minano la pretesa integrità dei concorrenti. Sospetti di tradimento, furti domestici e infelicità coniugali sono gli ingredienti di un rischiatutto che innesca una reazione a catena che ha come sola pretesa costringere lo spettatore a proseguirne la visione, un po’ come il paradigma televisivo dove ambienta la sua finzione. Se la televisione attuale si nutre di traumi reali ed emozioni sincere, l’opera di Minnella tenta di portarne in luce i meccanismi e gli imbrogli, finendo però vittima degli stessi strumenti che sfrutta. La regia si impegna oltremodo nell’illustrare un copione che sì, parte anche da un assunto originale, ma si declina in maniera prevedibile. Lie detectors, face scanners, led walls: non è chiaro se questi apparecchi, onnipresenti sulla scena, servano più da prova tecnica per la fotografia o da esercizio di dizione per la triade Claudia - Amendola, Gerini, Pandolfi - più assorti nello scandire le loro battute che nell’offrire un’interpretazione sincera. Archetipi, luoghi comuni, stereotipi: più si va avanti, più il gioco si fa difficile - da guardare però. Tra l’omosessualità nascosta, la gelosia sublimata e altre sintesi freudiane del genere, l’unico vero rischio che si prende il film è raccontare come “verità scomoda” l’interruzione di gravidanza di una delle concorrenti. Invece di sferrare colpi di scena, Fuori la verità infligge colpi apoplettici al suo pubblico, soprattutto quello più fotosensibile. La premessa che, per una generica famiglia moderna sia difficile essere onesti, trascura che alcune verità, seppur taciute o nascoste, sono così banali che è meglio che restino segrete.
Gli occhi degli altri, di Andrea De Sica

Gli occhi degli altri si apre su una terrazza a strapiombo sul mare. È da lì che il marchese guarda. È il 1960. In una villa sulla costa amalfitana Lelio si annoia e colleziona fucili, animali impagliati e altri trofei. Elena è tra gli invitati a una festa che ospita una sera, e vedendola, se ne innamora. I due si sposano. Lui ama guardare l’amore nei suoi occhi, e lei ama essere guardata da lui. Gli occhi sono il dispositivo catalizzatore di questa tragica storia d’amore ispirata a uno dei casi di delitto d’onore più noti della storia italiana. Il film riscrive un fatto di cronaca, qui il delitto Casati Stampa, tramite una lussuosa e seducente riduzione dell’ethos di una tarda aristocrazia annoiata, tronfia e libertina. De Sica omaggia l’estetica soporifera degli anni Sessanta e ambienta un dramma di costume che parla senza troppi giri di parole. Tra bollenti ménage à trois e interminabili scambi di sguardi, il film riscrive le dinamiche di potere e i giochi di ruolo che regolano il vincolo matrimoniale in un sensuale e cromato abbellimento di un caso di dipendenza affettiva: gli occhi di Trinca amano farsi guardare dagli occhi di Timi, che in cambio ama che lei guardi lui. E lui soltanto. La storia ripercorre i dieci anni di relazione tra passione e tormento. La drammatizzazione li offre al pubblico in una espressione più contemporanea. Questo amore è una catartica esperienza visiva, dove il corpo femminile si presta a metafora del male gaze che sfugge da se stesso. Lui è un narcisista, e lei una manipolatrice, o il contrario? Non ci è dato saperlo, perché questa è una sfida tra sguardi che ribalta continuamente i ruoli tra i loro protagonisti. Un saggio estetico sulle dinamiche di subordinazione e dominazione dell’assetto coniugale, ma anche un’indagine distillata attraverso le passioni e trasgressioni della vecchia nobilità del secolo scorso. È percepibile, in qualche punto del copione, lo sforzo di reindirizzare lo sguardo dello spettatore verso questioni che strizzano l’occhio a discorsi più attuali - qui poliamore, revenge porn e possessività - ma ciò è irrilevante perché la novità di questa dialettica tra occhi è l’approdo più originale del lavoro del regista romano che si è fatto conoscere dal pubblico con I figli della notte (2016). Gli occhi degli altri ci costringe a vedere il cinema, e l’amore, con uno sguardo diverso. E se questo amore si conclude in mattanza, la sua interpretazione tragica vuole l’eroe vittorioso perché, finalmente, si guarda negli occhi dell’altro.
La lezione, di Stefano Mordini

Nella sua ultima opera, La lezione, Stefano Mordini tenta di coniugare thriller giudiziario e dramma psicologico, adattando il romanzo omonimo di Marco Franzoso. Il film segue Elisabetta (Matilda De Angelis), giovane avvocata triestina incaricata di difendere un docente universitario accusato di violenza sessuale (Angelo Walder, interpretato da Stefano Accorsi), e costretta a rivivere a sua volta il trauma di un abuso passato. In questo doppio movimento - la difesa dell’uomo e la memoria della vittima - il film tenta di interrogare le zone grigie del consenso e la percezione del femminile sulla propria vulnerabilità, spesso congedata come paranoia. L’intento è esplicito, nonché parzialmente apprezzabile: riflettere sulle dinamiche di potere quanto sulla difficoltà nel contenere le forme di abuso che non lasciano tracce evidenti. Tuttavia, la costruzione narrativa fatica a sostenere la complessità che vorrebbe evocare. Nonostante l'intensa interpretazione di Matilda De Angelis, capace di restituire fragilità e diffidenza di un corpo costantemente in allerta, oppresso ma mai creduto, La lezione resta in parte confinato da uno sguardo prevalentemente maschile - tanto nel romanzo quanto nella regia - incapace di comprendere pienamente le logiche interiori che si pone di raccontare. La dinamica di accusato e difensore si riduce a un meccanismo di coincidenze e forzature, dove le scelte dei personaggi appaiono più funzionali alla direzione voluta per la trama che all’introspezione psicologica. Anche l’ibridazione dei generi - tra thriller procedurale, melodramma e, come dichiarato dal regista, Kammerspiel - produce un effetto di dispersione. In particolare, il soggetto dello stupro, motore narrativo e tematico dell’opera, risulta più strumentale che elaborato, un pretesto drammaturgico che non trova mai reale profondità etica o emotiva. Il risultato è un racconto che, pur ambendo a interrogare il trauma, finisce col replicarne la distanza: un film che parla del femminile, ma non dal femminile.
La vita va così, di Riccardo Milani

Italia, fine ‘99. In un paesino a sud della Sardegna, la famiglia Mulas si riunisce attorno al patriarca Efisio per festeggiare il Capodanno; nel cuore di Milano, il potente capo di una società immobiliare presenta il suo sogno per il nuovo millennio: un resort a cinque stelle da costruirsi sul litorale sardo. Quando però la realizzazione del progetto incontra la resistenza di Efisio, che non è disposto a cedere il suo lembo di terra a nessun prezzo, la comunità di Bellesamanna gli si rivolta contro, interpretando il suo rifiuto come un atto egoista che mette a rischio l’economia, già precaria, del luogo e la possibilità, per i suoi abitanti, di ottenere lavori più redditizi e progettare un futuro più stabile… Dopo il tentativo di recuperare l’ethos marsicano con Un mondo a parte, Riccardo Milani torna a collaborare con Virginia Raffaele per restituire la sua visione personale dell’eccezionalismo sardo, in una commedia animata da buone intenzioni, e tuttavia racchiusa in un involucro artificioso. La difficoltà del regista romano nell’assimilare registri e toni provenienti da realtà diverse, che nelle sue opere più riuscite con Paola Cortellesi risultava come un tratto autoriale distintivo - qui, nel tentativo di veicolare un messaggio più eticamente stratificato, attraverso un linguaggio disorganico e una regia trasandata, si rivela fatale alla sua godibilità. La presenza di Aldo Baggio (del trio Aldo, Giovanni e Giacomo), nei panni del chiassoso capo cantiere Mariano, così come il cameo di Geppi Cucciari, una magistrata coinvolta nel conflitto d’interessi, non distolgono lo spettatore più attento dall’impressione che unire parabola identitaria, commedia di costume e denuncia sociale - e condensarle in un paradiso rurale alla fine del mondo - sia forse, più che una nuova forma di resistenza, un vecchio esercizio dall’inconsistenza poetica. Le buone intenzioni ci sono, ma il risultato è irrilevante. Che il film sia ispirato a fatti realmente accaduti, se da una parte attirerà più spettatori in sala, dall’altra non lo redime dalla sua esecuzione a dir poco grossolana. «I soldi volano via, quando ce li hai», pontifica in dialetto il vecchio pastore che giustifica la sua stoica presa di posizione. «Ma è la terra che resta». E resta l’imbarazzo di un’allegoria audiovisiva che - come spesso accade nel paradigma nostrano - arriva in ritardo di un paio di decenni rispetto alla sua urgenza. Ma La vita va così, e il titolo stesso, dal tono qualunquista, riflette la semplificazione con cui Milani omaggia la storia, il coraggio, la cucina e l’imperturbabilità sarde, così come il campione del Cagliari recentemente scomparso, Gigi Riva - a cui il film è dedicato.
di Beatrice Gangi, Pavel Belli Micati e Mattia Pescitelli
NC-354
27.10.2025
Sabato si è chiusa la 20ª edizione della Festa del Cinema di Roma e, ancora una volta, la manifestazione si è confermata una vetrina fondamentale per il cinema italiano che, tra ambizioni sproporzionate, tentativi sinceri e qualche piacevole sorpresa, ha saputo riservare momenti di autentico interesse. Il panorama che emerge dai titoli che vi proponiamo è quello di un cinema in cerca di forma, spesso più preoccupato di rappresentarsi che di raccontarsi davvero.
In La vita va così di Riccardo Milani, la commedia civile si fa favola identitaria sul legame con la terra; 40 secondi di Vincenzo Alfieri ripercorre il caso Willy Monteiro Duarte trasformandolo in un racconto corale sulla violenza e la responsabilità; Alla festa della rivoluzione di Arnaldo Catinari rievoca l’impresa di D’Annunzio con un respiro storico e visivo che sfiora l’epica. Con Cinque secondi, Paolo Virzì firma una fiaba morale sul senso di colpa e la possibilità di rinascita, mentre Gli occhi degli altri di Andrea De Sica indaga il potere dello sguardo e le dinamiche di dominio all’interno della coppia.
Tra le opere più personali, Elena del ghetto di Stefano Casertano restituisce una Roma viva e popolare attraverso la figura leggendaria di Elena di Porto, mentre Breve storia d’amore di Ludovica Rampoldi esplora le fragilità del desiderio e dell’infedeltà. Chiudono il quadro La lezione di Stefano Mordini, che intreccia thriller e dramma psicologico sul tema del consenso, e Fuori la verità di Davide Minnella, satira del presente che usa il linguaggio televisivo per riflettere sul bisogno di autenticità.
Ne risulta un mosaico disomogeneo, dove il bisogno di “dire qualcosa” spesso prevale sulla chiarezza del linguaggio. Eppure, anche in questa irregolarità, si intravede un movimento, quello di un cinema che, pur inciampando nei suoi limiti, continua a cercare un senso dentro le sue storie, e forse anche fuori dallo schermo.
40 secondi, di Vincenzo Alfieri

Una pecora si allontana dal suo gregge. Un’agente di polizia non riesce a dormire perché, nella piazza sotto casa, dei ragazzi fanno chiasso. La solita rissa fuori da una discoteca degenera quando un giovane cade a terra, esamine, senza dare segnali di vita: queste sono le premesse di 40 secondi, tratto dal romanzo di Federica Angeli, un’ambiziosa tanto quanto imprudente indagine filologica sul paradigma di violenza che, il 3 giugno del 2020, portò alla morte il ventunenne Willy Monteiro Duarte. La regia di Vincenzo Alfieri si inserisce così nella direzione ambigua che ha preso il cinema italiano degli ultimi anni - romanzare i casi di cronaca nera più discussi. 40 secondi sono il tempo impiegato dai fratelli Bianchi per prendere parte alla rissa, pestare a sangue il ragazzo e dileguarsi dalla scena del crimine. La storia ripercorre le 24 ore che precedono i fatti, attraverso le prospettive dei personaggi coinvolti nella vicenda. Quaranta secondi sarebbe anche potuta essere la durata di questo film che, con l’incipit che tributa Noyz Narcos, racconterebbe “storie maledette di ragazzi truci”. Tra le altre ambizioni della pellicola, c’è quella di fornire un trattamento drammaturgico al clima di desolazione e indolenza percepito e promosso nelle realtà di provincia. Una fotografia energica e un sound-editing incisivo sono tecniche astute, e pur tuttavia pretestuose, se applicate a una struttura che si compiace di imitare quella di un Paul Thomas Anderson, quando ciò di cui avrebbe bisogno è solo un’intenzione poetica chiara. Liti dal barber shop, scenate di gelosia in pista, sacrifici d’agnelli e threesome in auto davanti al cimitero: queste sono sequenze elaborate che si preoccupano troppo, di produrre un effetto della violenza così calcato, artefatto, che falliscono nel trovare un senso al senso di vuoto che permea sia la scena che i suoi protagonisti. Bar di paese, panorami post-industriali e raccordi sull’edilizia popolare suggeriscono qui una condizione, ma non la assimilano né la contestano. Il copione tenta di andare oltre la superficie della desolazione, sfiorando tematiche quali genitorialità precoce, disoccupazione giovanile e povertà generazionale; eppure, è tutto così poco approfondito e alla rinfusa che neppure le performance attoriali, per giunta discrete, riscattano un film che si compiace giusto di promuovere la violenza gratuita ad esercizio di stile. Nella pretesa di comprendere ciò che descrive, la lente di Alfieri finisce per estetizzarlo. Se la conclusione - negli atti giudiziari come nel film - è che la vittima era nel posto sbagliato al momento sbagliato, è lecito domandarsi che tipo d’intenzione servano questi 121 minuti. Le parole di Sergio Rubini, nel ruolo del padre della ragazza di uno dei fratelli, racchiudono quella stessa verità che il regista di 40 secondi forse ha intravisto, ma che non ha saputo cogliere: «La qualità non è mai casuale, è sempre il risultato di uno sforzo intellettuale».
Alla festa della rivoluzione, di Arnaldo Catinari

Nel settembre del 1919 Gabriele D’Annunzio occupò con un manipolo di volontari la città di Fiume, allora contesa tra Italia e Jugoslavia, sfidando apertamente il governo di Roma. Di quell’episodio - insieme utopia ribelle e mito protofascista - tenta una rivisitazione in chiave romanzata il film Alla festa della rivoluzione di Arnaldo Catinari, ispirato all’omonimo saggio di Claudia Salaris e sceneggiato con Silvio Muccino. Catinari sovrappone intrighi personali, amori, e idealismi rivoluzionari sullo sfondo di una città sospesa tra mito e realtà, ma l’ambizione del progetto non trova corrispettivo in uno sviluppo narrativo drammaturgicamente povero. L’intreccio, al tempo stesso troppo denso e troppo anemico, smarrisce la complessità storica di Fiume, riducendola a una mera cornice scenografica che soffoca la complessità del periodo e riduce la parabola dannunziana a un’epica semplificata di eroi e antagonisti. La mano di Catinari, noto direttore della fotografia, si riconosce nella cura visiva: luci, cromie, e composizione restituiscono una compostezza pittorica che, però, si rovescia spesso in artificio. Tutto appare impostato, ampolloso, finto. La parola, invece, invade la scena: dialoghi solenni, aforistici, personaggi più declamati che interpretati. La stessa ambiguità morale e politica di D’Annunzio, il "poeta-guerriero", si sposta sullo sfondo, in una semplificazione del suo conflitto interiore come un passaggio dal bianco al nero. Là dove Alla festa della rivoluzione avrebbe potuto farsi riflessione sulla fragilità delle utopie e sull’estetizzazione del potere, si arresta al livello del racconto illustrativo, incapace di restituire la tensione e il disordine del tempo che vorrebbe evocare.
Anna, di Monica Guerritore

Roma, 31 marzo 1956. Anna Magnani cammina per le vie di Trastevere. A Los Angeles si celebra la cerimonia degli Oscar, ma per l’attrice più famosa d’Italia è un’altra notte dove tutto può accadere, anche se, come dice lei, «nella mia vita tutto è già accaduto». Anna, scritto, diretto e interpretato da Monica Guerritore, ripercorre le tappe della carriera di Magnani, dall’inaspettata vittoria per La Rosa tatuata fino alla sua morte. La Anna di Guerritore vaga per i vicoli, si accende sigarette, nutre i gatti randagi, ripensa, rivive e reimmagina il suo passato. Nelle parole di un passante, «È lupa stanotte, e fiuta la vita sua». Un tentativo di raccontare la consacrazione e il declino di un’attrice negli anni più turbolenti del cinema italiano - ossia quando, da dispositivo che indaga il reale, si fa intrattenimento moralista e operazione da big majors. L’attrice è nota per il suo carattere difficile, ma anche la sua vita, in fondo, non è stata proprio clemente. Guerritore la interpreta e racconta come figlia di padre ignoto, amante abbandonata, madre di un giovane segnato dalla poliomielite. Non è chiaro se sia l’attrice e la sua persona, o il personaggio e il suo carattere, che l’attrice-convertita-regista tenta di rappresentare. Più che un ritratto della Magnani, Anna è un’emozione che indugia nel suo mito e, inevitabilmente, lo compromette. Tra un editing disorganico, raccordi bizzarri e strambi tuffi nel passato - dal sodalizio con Tennessee Williams, passando per le riprese di Roma città aperta (1945), arrivando alla vittoria del Grand Prix a Cannes - Guerritore crede che un film possa reggersi unicamente sull’interpretazione della sua protagonista. E nonostante ce la metta tutta, non ci riesce. Un misurato Fabrizio Bentivoglio offre la sua versione di Rossellini, ma anche questa liaison impallidisce nel tentativo di ricondurla a una delle ferite più grandi di una delle dive più note del Novecento. Magnani qui vive per la gloria del suo nome, ma soffre per un amore finito male. È come se il copione volesse approfondire un personaggio di cui conosce solo la sua storicità, e il risultato è di un manierismo petulante. Un’opera che, nelle parole che potrebbero essere della stessa Anna, se la canta e se la sona. Su Magnani Guerritore non ci dice nulla che abbiamo già visto, letto o sentito; eppure lascia lo spettatore con una domanda in sospeso: è lei che chiede troppo a se stessa, oppure è il personaggio che esige troppo dall’interprete? Il biopic sull’Oscar italiano più insolito nella storia del cinema è meglio, forse, che rimanga anche l’ultimo.
Breve storia d’amore, di Ludovica Rampoldi

Rocco è un sismologo che il venerdì sera pratica scacchi e pugilato; sua moglie Cecilia è un’analista che la domenica spara al poligono. Lea è una scrittrice colta nella sua impasse creativa; il compagno Andrea, un attore di fiction con tendenze narcisiste. Quando Rocco e Lea si incontrano una sera in un bar, tra loro nasce una relazione extra-coniugale che si consuma in una stanza d’albergo, ma le cui scosse producono propaggini ben più estreme. Per il suo esordio alla regia, Ludovica Rampoldi rovista nel repertorio della “crisi di coppia” e firma un esercizio di stile che esplora la fantasia dell’adulterio. Un moderno melò (i cui otto capitoli tradiscono la brevità professata dal titolo) può apparire scontato a un pubblico che vede l’ennesima storia di tradimento adattata sugli schermi. Ma la lente iperrealista, giocando con un intreccio minuziosamente costruito, sembra voler portare in esame qualcosa in più che la semplice esposizione di una realtà. «Sei sempre così gentile?», chiede Lea a Rocco, appena conosciuto. «Solo con gli sconosciuti», risponde lui. La dialettica certo non consente l’identificazione del pubblico con i suoi eroi, ma perché il focus non è su di loro, ma su quanto lontano possa spingersi un desiderio, per giunta poco virtuoso. Così, quando a scappatella inoltrata, Rocco domanda «Ma tu cosa vuoi da me?» e Lea ribatte «Perché, tu lo sai cosa vuoi?», diventa evidente che la direzione che prende la storia è tutt’altro che chiara - e forse è proprio in questo parossismo che Rampoldi esercita la sua visione. Le sue preoccupazioni formali - manifeste nella cura morbosa per la scena e in una caratterizzazione eccessiva dei personaggi - prevalgono su un’intenzione narrativa che seduce più di quanto non colpisca. Eppure, la seduzione sta nell’ambizione stessa (non il tradimento né le sue implicazioni) che dietro l’adulterio si nasconda una verità più profonda: così non è. Rampoldi, che scrive anche il copione, difende la tesi secondo cui, nelle parole di Valeria Golino, il tradimento può avere anche un valore positivo. In fondo, è l’esperienza di altro dalla monotonia coniugale a essere portata in analisi. E la diagnosi conclusiva - come il vento apparente che chiude l’avventura - è che questa Breve storia d’amore non è reale, ma se non altro è molto bella.
Cinque Secondi, di Paolo Virzì

Adriano è un uomo distrutto. Si è isolato nei pressi di una villa in rovina, dove passa le sue giornate a revisionare documenti, fumare sigari e rifiutarsi di presenziare alle udienze del processo intentatogli dalla ex-moglie per l’omicidio colposo della figlia disabile, annegata sotto la sua responsabilità. Ha un altro figlio, con cui non parla. Un tempo non lontano era un avvocato di successo che difendeva cause nobili. Adesso non riesce a badare neanche a se stesso. Un giorno, una colonia di figli dei fiori occupa la villa abbandonata; lui si dimostra ostile nei confronti degli squatters eco-transfemministi, capitanati dalla nipote del vecchio proprietario, un nobile decaduto, e disapprova il loro progetto di ripristino del terreno adiacente, coltura di vigneti e vendemmia. Ma quando un tentativo di sgombero per un piano di speculazione edilizia minaccia la loro missione di rigenerazione ecologica, e Adriano scopre che la contessina espropriata è in dolce attesa, il senso del dovere si riaccende e lo costringe a confrontarsi con la sua colpa più grande. Può un dialogo tra generazioni farsi parabola di guarigione e indagare il labile confine tra affetto e responsabilità? Paolo Virzì ci regala una fiaba universale che, nel servire il suo motore narrativo, qui due cause civili in contatto con un caso di coscienza, ci racconta qualcosa di più del tempo, dell’attesa e della possibilità - sempre viva - di rinascita. Come è vero che potranno tagliare tutti i fiori, ma non fermeranno mai la primavera, l’ultima delicata composizione del regista livornese lo conferma come una delle voci più originali, spassionate e sensibili del panorama italiano, anche a fronte di una carriera lunga trent’anni. La sua capacità di creare storie che, più che imitare la vita, sembrano ispirarla, non passa mai inosservata - soprattutto in tempi autunnali come i recenti. Magari esiste una formula segreta. O forse lui ha semplicemente quella giusta. Il risultato è sempre tragicomico, anche in questo tentativo sincero di imprimere una rinnovata sensibilità eco-critica alle strutture ostili della commedia italiana.
Elena del ghetto, di Stefano Casertano

Diretto da Stefano Casertano, Elena del Ghetto restituisce voce a una figura rimasta per decenni ai margini della memoria collettiva: Elena di Porto, “La Matta” del Ghetto, divenuta nota nel racconto popolare come una Cassandra romana, profetessa non creduta del rastrellamento datato 16 ottobre 1943. Il film di Casertano ne restituisce la leggenda più che la cronaca, privilegiando la leggerezza della commedia popolare, in un tono a metà fra il ritratto d’epoca e l’omaggio corale a una comunità. Nella performance di Micaela Ramazzotti, Elena emerge come una donna eccentrica, ribelle, animata da un’energia caotica che fa del suo spirito libero tanto un motore di emancipazione quanto un’inevitabile condanna all’incomprensione. Il regista riesce a restituire un Ghetto di Roma vivo, abitato, credibile nella sua dimensione quotidiana e comunitaria, evitando la rigidità tipica delle ricostruzioni d’ambientazione. Dove il film si indebolisce è però nel tentativo di fondere leggerezza e tragedia: la dimensione comica, efficace nei toni di ensemble e nella coralità del quartiere, si smarrisce nei passaggi che richiederebbero un pathos maggiore, lasciando in superficie la complessità storica e morale del contesto fascista. Ne risulta un’opera godibile, di grande umanità, ma oscillante fra la leggerezza della commedia e il, meno convincente, tentativo di allegoria neorealista. Elena del Ghetto riesce dunque a restituire un ritratto affettuoso e vitale, ma consuma la possibilità di un racconto più lacerante: quello di una donna che vide l’orrore prima degli altri e non poté evitarlo.
Fuori la verità, di Davide Minnella

Edoardo e Carolina Moretti gestiscono una società di eventi e hanno tre figli: Micol è una influencer in erba, Flavio un neolaureato in economia e Prisca studia lettere. Sono una famiglia apparentemente perfetta - perfetta per partecipare a Fuori la verità, un game show televisivo che mette in palio un milione di euro: l’unico requisito per vincerli? Dirsi, semplicemente, tutta la verità. Ma non tutto è come sembra. Già al secondo round, diventa chiaro che per i Moretti il jackpot è un’occasione più necessaria che unica e, parallelamente, la contesa rivela l’agenda nascosta dagli autori televisivi. L’idea di partenza è che le bugie più grosse si dicano quando più si ha paura di dire la verità; così, il pretesto della scalata verso la vittoria serve un confronto ad alta tensione quando segreti più scomodi di altri minano la pretesa integrità dei concorrenti. Sospetti di tradimento, furti domestici e infelicità coniugali sono gli ingredienti di un rischiatutto che innesca una reazione a catena che ha come sola pretesa costringere lo spettatore a proseguirne la visione, un po’ come il paradigma televisivo dove ambienta la sua finzione. Se la televisione attuale si nutre di traumi reali ed emozioni sincere, l’opera di Minnella tenta di portarne in luce i meccanismi e gli imbrogli, finendo però vittima degli stessi strumenti che sfrutta. La regia si impegna oltremodo nell’illustrare un copione che sì, parte anche da un assunto originale, ma si declina in maniera prevedibile. Lie detectors, face scanners, led walls: non è chiaro se questi apparecchi, onnipresenti sulla scena, servano più da prova tecnica per la fotografia o da esercizio di dizione per la triade Claudia - Amendola, Gerini, Pandolfi - più assorti nello scandire le loro battute che nell’offrire un’interpretazione sincera. Archetipi, luoghi comuni, stereotipi: più si va avanti, più il gioco si fa difficile - da guardare però. Tra l’omosessualità nascosta, la gelosia sublimata e altre sintesi freudiane del genere, l’unico vero rischio che si prende il film è raccontare come “verità scomoda” l’interruzione di gravidanza di una delle concorrenti. Invece di sferrare colpi di scena, Fuori la verità infligge colpi apoplettici al suo pubblico, soprattutto quello più fotosensibile. La premessa che, per una generica famiglia moderna sia difficile essere onesti, trascura che alcune verità, seppur taciute o nascoste, sono così banali che è meglio che restino segrete.
Gli occhi degli altri, di Andrea De Sica

Gli occhi degli altri si apre su una terrazza a strapiombo sul mare. È da lì che il marchese guarda. È il 1960. In una villa sulla costa amalfitana Lelio si annoia e colleziona fucili, animali impagliati e altri trofei. Elena è tra gli invitati a una festa che ospita una sera, e vedendola, se ne innamora. I due si sposano. Lui ama guardare l’amore nei suoi occhi, e lei ama essere guardata da lui. Gli occhi sono il dispositivo catalizzatore di questa tragica storia d’amore ispirata a uno dei casi di delitto d’onore più noti della storia italiana. Il film riscrive un fatto di cronaca, qui il delitto Casati Stampa, tramite una lussuosa e seducente riduzione dell’ethos di una tarda aristocrazia annoiata, tronfia e libertina. De Sica omaggia l’estetica soporifera degli anni Sessanta e ambienta un dramma di costume che parla senza troppi giri di parole. Tra bollenti ménage à trois e interminabili scambi di sguardi, il film riscrive le dinamiche di potere e i giochi di ruolo che regolano il vincolo matrimoniale in un sensuale e cromato abbellimento di un caso di dipendenza affettiva: gli occhi di Trinca amano farsi guardare dagli occhi di Timi, che in cambio ama che lei guardi lui. E lui soltanto. La storia ripercorre i dieci anni di relazione tra passione e tormento. La drammatizzazione li offre al pubblico in una espressione più contemporanea. Questo amore è una catartica esperienza visiva, dove il corpo femminile si presta a metafora del male gaze che sfugge da se stesso. Lui è un narcisista, e lei una manipolatrice, o il contrario? Non ci è dato saperlo, perché questa è una sfida tra sguardi che ribalta continuamente i ruoli tra i loro protagonisti. Un saggio estetico sulle dinamiche di subordinazione e dominazione dell’assetto coniugale, ma anche un’indagine distillata attraverso le passioni e trasgressioni della vecchia nobilità del secolo scorso. È percepibile, in qualche punto del copione, lo sforzo di reindirizzare lo sguardo dello spettatore verso questioni che strizzano l’occhio a discorsi più attuali - qui poliamore, revenge porn e possessività - ma ciò è irrilevante perché la novità di questa dialettica tra occhi è l’approdo più originale del lavoro del regista romano che si è fatto conoscere dal pubblico con I figli della notte (2016). Gli occhi degli altri ci costringe a vedere il cinema, e l’amore, con uno sguardo diverso. E se questo amore si conclude in mattanza, la sua interpretazione tragica vuole l’eroe vittorioso perché, finalmente, si guarda negli occhi dell’altro.
La lezione, di Stefano Mordini

Nella sua ultima opera, La lezione, Stefano Mordini tenta di coniugare thriller giudiziario e dramma psicologico, adattando il romanzo omonimo di Marco Franzoso. Il film segue Elisabetta (Matilda De Angelis), giovane avvocata triestina incaricata di difendere un docente universitario accusato di violenza sessuale (Angelo Walder, interpretato da Stefano Accorsi), e costretta a rivivere a sua volta il trauma di un abuso passato. In questo doppio movimento - la difesa dell’uomo e la memoria della vittima - il film tenta di interrogare le zone grigie del consenso e la percezione del femminile sulla propria vulnerabilità, spesso congedata come paranoia. L’intento è esplicito, nonché parzialmente apprezzabile: riflettere sulle dinamiche di potere quanto sulla difficoltà nel contenere le forme di abuso che non lasciano tracce evidenti. Tuttavia, la costruzione narrativa fatica a sostenere la complessità che vorrebbe evocare. Nonostante l'intensa interpretazione di Matilda De Angelis, capace di restituire fragilità e diffidenza di un corpo costantemente in allerta, oppresso ma mai creduto, La lezione resta in parte confinato da uno sguardo prevalentemente maschile - tanto nel romanzo quanto nella regia - incapace di comprendere pienamente le logiche interiori che si pone di raccontare. La dinamica di accusato e difensore si riduce a un meccanismo di coincidenze e forzature, dove le scelte dei personaggi appaiono più funzionali alla direzione voluta per la trama che all’introspezione psicologica. Anche l’ibridazione dei generi - tra thriller procedurale, melodramma e, come dichiarato dal regista, Kammerspiel - produce un effetto di dispersione. In particolare, il soggetto dello stupro, motore narrativo e tematico dell’opera, risulta più strumentale che elaborato, un pretesto drammaturgico che non trova mai reale profondità etica o emotiva. Il risultato è un racconto che, pur ambendo a interrogare il trauma, finisce col replicarne la distanza: un film che parla del femminile, ma non dal femminile.
La vita va così, di Riccardo Milani

Italia, fine ‘99. In un paesino a sud della Sardegna, la famiglia Mulas si riunisce attorno al patriarca Efisio per festeggiare il Capodanno; nel cuore di Milano, il potente capo di una società immobiliare presenta il suo sogno per il nuovo millennio: un resort a cinque stelle da costruirsi sul litorale sardo. Quando però la realizzazione del progetto incontra la resistenza di Efisio, che non è disposto a cedere il suo lembo di terra a nessun prezzo, la comunità di Bellesamanna gli si rivolta contro, interpretando il suo rifiuto come un atto egoista che mette a rischio l’economia, già precaria, del luogo e la possibilità, per i suoi abitanti, di ottenere lavori più redditizi e progettare un futuro più stabile… Dopo il tentativo di recuperare l’ethos marsicano con Un mondo a parte, Riccardo Milani torna a collaborare con Virginia Raffaele per restituire la sua visione personale dell’eccezionalismo sardo, in una commedia animata da buone intenzioni, e tuttavia racchiusa in un involucro artificioso. La difficoltà del regista romano nell’assimilare registri e toni provenienti da realtà diverse, che nelle sue opere più riuscite con Paola Cortellesi risultava come un tratto autoriale distintivo - qui, nel tentativo di veicolare un messaggio più eticamente stratificato, attraverso un linguaggio disorganico e una regia trasandata, si rivela fatale alla sua godibilità. La presenza di Aldo Baggio (del trio Aldo, Giovanni e Giacomo), nei panni del chiassoso capo cantiere Mariano, così come il cameo di Geppi Cucciari, una magistrata coinvolta nel conflitto d’interessi, non distolgono lo spettatore più attento dall’impressione che unire parabola identitaria, commedia di costume e denuncia sociale - e condensarle in un paradiso rurale alla fine del mondo - sia forse, più che una nuova forma di resistenza, un vecchio esercizio dall’inconsistenza poetica. Le buone intenzioni ci sono, ma il risultato è irrilevante. Che il film sia ispirato a fatti realmente accaduti, se da una parte attirerà più spettatori in sala, dall’altra non lo redime dalla sua esecuzione a dir poco grossolana. «I soldi volano via, quando ce li hai», pontifica in dialetto il vecchio pastore che giustifica la sua stoica presa di posizione. «Ma è la terra che resta». E resta l’imbarazzo di un’allegoria audiovisiva che - come spesso accade nel paradigma nostrano - arriva in ritardo di un paio di decenni rispetto alla sua urgenza. Ma La vita va così, e il titolo stesso, dal tono qualunquista, riflette la semplificazione con cui Milani omaggia la storia, il coraggio, la cucina e l’imperturbabilità sarde, così come il campione del Cagliari recentemente scomparso, Gigi Riva - a cui il film è dedicato.