

L'urlo nel cinema,
tra dolore, catarsi e sovversione dello sguardo
di Mattia Pescitelli
TR-134
31.07.2025
Grida dal fondo di una vallata. Grida dal bosco. Grida da uno scantinato. Grida dalla sala parto di un ospedale o dalla camera da letto del castello di Versailles. Tutto il mondo può trovarsi in un urlo. Lāurlo ci rende liberi, ci rende spaventosi, ci rende primordialmente umani. Si dice che la miglior difesa sia lāattacco, ma il grido ha qualcosa in più rispetto alla mera reazione fisica. Incute timore, spaventa, inibisce. Un buon urlo può pietrificare più dello sguardo di Medusa. Tutti possono farlo, nessuno escluso. PerchĆ© un urlo non ĆØ solo un suono che squarcia la quiete: ĆØ unāintenzione.
Un grido può essere muto, spezzato, privo di bocca o corde vocali. Anzi, spesso ĆØ ancora più intenso quando viene privato della sua dirompenza sonora. Francis Ford Coppola, a tal proposito, ci fornisce un esempio perfetto: alla fine de Il Padrino - Parte III (The Godfather Part III, 1990), lāurlo straziante di Michael Corleone ĆØ muto per tutta la sua prima, lunga, fase. Pacino, poi, prende fiato per poco, il tempo necessario a dare ritmo al suo lutto, ed ĆØ in questa pausa che il regista dona nuovamente la parola al genitore afflitto, facendo esplodere quel dolore con il doppio dellāintensitĆ , forse perchĆ© inaspettato, forse perchĆ© tremendamente vero, come quella sorditĆ momentanea che segue un evento che ci porta al di fuori del razionale, in un piano del reale alternativo, sospesi tra quello che era prima e quello che sarĆ dāora in avanti.
Il grido rubato e restituito a Michael ĆØ l'impronta audiovisiva del processo mentale necessario per raggiungere la realizzazione che qualcosa di tremendo ha scosso lo stato delle cose. Poi certo, rappresenta anche la disillusione di un uomo reo di superbia, perfetto contraltare al montaggio alternato del primo Padrino, ma in questo contesto non ci interessano tanto le vicissitudini e i sottotesti che ammantano le grida che andremo a scandagliare, quanto lāimpeto viscerale che riverbera nelle ossa degli spettatori, portandoli nei luoghi più scomodi e reconditi dellāumana percezione.
Ć bene mettere in chiaro che lāurlo ĆØ qualcosa di strettamente legato a porzioni chiave di una storia. Può trovarsi allāinizio, nel mezzo o alla fine di tutto, ma sottolinea sempre un momento fondamentale per la narrazione, qualcosa in grado di disturbare lāesperienza passiva di chi guarda. Quindi, per analizzarlo, dovremo per forza andare nello specifico e raccontare nel dettaglio alcune delle sequenze più iconiche della storia del cinema, dai suoi albori fino alle ultime incursioni in sala e televisione. Ma prima apriamo una piccola parentesi nel crepaccio dellāinquietudine.

Al Pacino in Il Padrino - Parte IIIĀ (1990)
Lāurlo che diverte
Era il 1951 quando nelle sale usciva Distant DrumsĀ (Tamburi lontani), un western di Raoul Walsh con protagonista Gary Cooper. Non ĆØ un film particolarmente rilevante in sĆ©, ma ĆØ passato alla storia per un fenomeno a esso legato. Come era consono allāepoca, molti dei suoni diegetici venivano registrati in un secondo momento rispetto alla scena, durante una sola incisione che prevedeva più campionamenti. Per questo film serviva un uomo che gridasse mentre veniva sbranato da un coccodrillo.
Nella registrazione āMan getting bit by an alligator, and he screamsā sono presenti diversi strilli, tra cui uno che, passando dapprima per le produzioni Warner Bros. a causa del riciclo dei propri materiali (cosƬ da tagliare i costi di realizzazione), arrivò nelle mani di Ben Burtt, progettista del suono incaricato di dare āvoceā allāuniverso di Guerre Stellari (Star Wars, George Lucas, 1977). Tra tutti i materiali archiviati Burtt trovò proprio questo grido che, dopo una minuziosa ricerca, riuscƬ ad attribuire a Sheb Wooley, che in Tamburi lontani aveva recitato non accreditato.
Da qui nasce la storia dellāurlo di Wilhelm, il più subconsciamente iconico della storia del cinema, data la sua comparsa in più di 400 film (secondo la ricerca svolta dal National Science and Media Museum nel 2023). Burtt ha coniato il termine a partire da un personaggio secondario, il soldato Wilhelm, che emette proprio questo grido in Lāindiana bianca (The Charge at Feather River, Gordon Douglas, 1953). Da allora lāimplementazione di questo piccolo segreto si ĆØ espansa a macchia dāolio nella maggior parte delle produzioni maggiori, diventando una sorta di rituale scherzoso tra i progettisti del suono di tutto il mondo.
In questo caso, il grido diventa gioco, forma ludica di un intrattenimento giĆ ludico di per sĆ©, considerando le opere dove continua a prosperare questo bizzarro fenomeno popolare. L'urlo di Wilhelm rappresenta lāesatto opposto di quanto stiamo per andare a esplorare: ĆØ la deriva più lontana rispetto allāintroiezione ricercata dalle urla di seguito analizzate.

Ben Burtt a lavoro sul set
Lāurlo che sveste
Quando si pensa a qualcuno che urla nel cinema molto probabilmente la prima cosa che viene in mente ĆØ qualche giovane donna che lancia un grido di terrore davanti a fatti da far accapponare la pelle. Magari ĆØ la Janet Leigh di Psyco (Psycho, Alfred Hitchcock, 1960) o la Marilyn Burns di Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, Tobe Hooper, 1974) o la Drew Berrymore di Scream (Wes Craven, 1996). A prescindere da chi si palesi nella vostra mente, ĆØ indubbio che il regno delle regine dellāurlo sia incontrastato nella percezione socio-culturale di tale azione nel mondo cinematografico.
Questo probabilmente perchĆ© il loro valore sta nellāassociazione con lāorrore, il truculento, lāeccesso. Insomma, tutto quello che fa del cinema pulp e di genere un cinema popolare, in grado di arrivare a tutti attraverso lāesperienza dislocata di un incontro con le proprie paure e fantasie più recondite. Anche per questo lāurlo di Marion Crane sotto la doccia si ĆØ impresso nellāimmaginario collettivo molto più di pianti e grida di disperazione. E con il suo quello di centinaia di altre attrici che hanno fatto la storia del medium seguendo le regole di un mercato assetato di sangue e pelle.
La bellezza standardizzata, di generazione in generazione, si adatta alle brutture del mondo patriarcale e al lerciume con il quale intende insozzare anche gli ultimi barlumi di innocenza, alimentando al contempo quella stessa ricerca scopica che guida lo sguardo maschile, addestrato alla messa in atto di una purificazione a partire dal punto più basso dellāumano.

L'iconico urlo di Janeth Leigh in Psycho Ā (1960)
Solo dopo aver mostrato un certo grado di debolezza la final girl trova la forza per affrontare ciò che le sta capitando. Arriva a un passo dalla completa umiliazione e abuso della sua persona prima di trovare la strategia che la porterĆ in salvo, facendola uscire da quellāincubo strettamente legato al timore della mascolinitĆ che la circonda. Quellāurlo di terrore, che caratterizza la maggior parte dei personaggi femminili allāinterno di produzioni del genere (ma anche di altre molto dissimili), reca alla loro tenacia una cicatrice che non le abbandonerĆ per tutto il resto della visione, non importa quanto incredibili e coraggiose possano essere le imprese compiute. Inibisce la portata delle azioni di queste donne allāocchio dellāuomo, potenziando lo sguardo maschile e alimentando una narrazione che si costruisce tutta attorno al piacere voyeuristico dello spettatore.
Lāaltro lato della medaglia ĆØ la rappresentazione dellāuomo in questo tipo di produzioni. Molto spesso anche i personaggi maschili gridano, ma il loro terrore si fa grottesco, infantile, quasi una battuta dāarresto nella strategia della tensione messa in atto da questa tipologia di film. Anche questo pare dialogare con la percezione maschile, messa dinanzi a personaggi inetti, incapaci e ridicoli, dando una botta di autostima allo spettatore āuomoā, che non si ĆØ spaventato come il suo simile nel film, che ĆØ rimasto tutto dāun pezzo (o quasi) e che può ambire, almeno nella sua fantasia, a conquistare lāaffetto della protagonista, donna forte e determinata, ma che non rappresenta una minaccia alla convinzione di superioritĆ che sottintende la societĆ umana da quando la prima parola ĆØ stata posta su pergamena.
Quei singoli urli funzionano perché non solo divertono e spaventano lo spettatore a prescindere dal suo sesso, ma soprattutto perché toccano le corde giuste di un pubblico maschile che, anche solo a livello inconscio, è stato formato a rivendicare continuamente la propria superiorità scopica e a godere della costruzione a tavolino di produzioni mediali in grado di attivare tale convizione dormiente.

Drew Barrymore in ScreamĀ (1998)Ā
Lāurlo come difesa
Negli ultimi anni questa stessa narrazione ha cominciato a vacillare, supportata da nuove tipologie di sguardi capaci di sovvertire la percezione delle immagini da parte del pubblico. Registi di ogni etĆ e genere hanno costruito la propria carriera sullāesplorazione di temi capaci di attaccare lo sguardo maschile e riprogrammarlo. Un esempio su tutti ĆØ la ricerca della repressione sessuale nel cinema di Eggers. Da The Witch (2015) a Nosferatu (2024) lāinsabbiamento delle pulsioni umane in un tempo antico (che pare più attuale dellāattualitĆ che ci viene raccontato da molti altri autori) ĆØ stato il marchio di fabbrica del regista. La sua esplorazione raggiunge i luoghi più reconditi e vili dellāumano e fa ciò anche attraverso le urla dei personaggi che camminano le sue terre cinematografiche.
Le grida nei suoi film sono meccanismi di difesa. Come davanti a un bestia feroce, gli uomini e le donne dei film di Eggers ruggiscono ancora più forte; si fanno grandi davanti al pericolo: il pericolo di dover scendere a patti con i propri desideri più proibiti. Ciò lo si nota particolarmente nelle sue due pellicole più recenti, The Northman (2022) e Nosferatu.
Nel primo si ha a che fare con una lotta per la supremazia tra due maschi dominanti. SkarsgĆ„rd e Bang non comunicano a parole, ma tramite versi, ruggiti primordiali che echeggiano tra le valli di quellāIslanda terra tra i reami dellāesistenza; grida capaci di spaccare la crosta terrestre e far eruttare i vulcani dellāeterno conflitto del virile. Al contrario, la passione bruciante della Ellen di Lily-Rose Depp in Nosferatu esplode in urla di avversione: alle sue pulsioni, alle sue paure, alla sua ossessione. Con le sue grida esorcizza il demone dentro di lei, che altera la sua percezione del reale, che affligge chiunque la circondi, che la tiene prigioniera fino a che non lascia che quegli istinti la conquistino completamente, cosƬ da liberare lei e i suoi amati dalla maledizione che la stessa societĆ per la quale ha deciso di immolarsi le ha scatenato contro.
Sono grida, queste, con un forte senso di disperazione al loro interno. Grida di aiuto che riflettono i dubbi e fanno vacillare le convinzioni di chi li ascolta. Lāesternazione ultima di chi si trova allāangolo e non ha alcuna intenzione di arrendersi senza combattere, la cui unica colpa ĆØ quella di essere stati alimentati senza freno da un ecosistema sociale che incrina le relazioni e ordina di conformarsi senza mai uscire dai binari del comune pensare.

Le grida primordiali di Alexander SkarsgÄrd in The Northman (2022)
Lāurlo come lutto
Se le urla di paura giocano con la consapevolezza dello spettatore riguardo quanto sta per accadere a un dato personaggio, quelle di lutto fanno lāesatto opposto: prendono alla sprovvista il pubblico, lacerando in modo inaspettato la visione con qualcosa che non si vorrebbe mai sentire, specialmente in un momento che dovrebbe essere di puro svago. Queste grida ci mettono faccia a faccia con la morte, la soglia che tutti dovremo prima o poi oltrepassare, e che arriverĆ solo dopo aver attraversato tante altre soglie lungo la via, quelle di coloro che ci circondano e ci lasciano. La scena de Il Padrino - Parte III ne ĆØ un esempio, ma il cinema ci fornisce campioni a non finire - uno dei miei preferiti arriva da un film insospettabile, King ArthurĀ (2017)Ā di Guy Ritchie, dove Jude Law si lascia andare a un pianto culminante in un grido furibondo che racchiude tutta lāessenza del personaggio di Vortigern.
Ari Aster ĆØ unāaltro che ha costruito la sua carriera sullāesplorazione di temi specifici. Lasciando per il momento da parte Hereditary (2018), mettiamo sotto alla nostra lente MidsommarĀ (2019). Lāintero film esplora il tema del lutto e di come riuscire a superare un trauma che pare invalicabile, il tutto scandito dai pianti disperati di Florence Pugh, che si faticano a contare. I titoli di testa ci portano oltre il suo dolore, lontano, in una bufera di neve, eppure il suo pianto ci raggiunge.
Non cāĆØ scampo nĆ© per lo spettatore, nĆ© per lei, nĆ© per i suoi compagni di viaggio. Il suo lutto ĆØ il pagliericcio secco al quale il fuoco del dramma si avvinghia e dal quale si alimenta. Le fiamme si alzano fino ad arrivare alla scena più iconica del film: i quasi due minuti di pianto collettivo con le altre donne del villaggio, un riverbero senza fine della pena di una femminilitĆ incrinata lasciata a guarire da sola. In quellāurlo disperato e assordante cāĆØ tutto il processo di elaborazione del lutto e della perdita, non solo materiale ma anche caratteriale e mentale, e della successiva accettazione e riconciliazione con il sĆ©.

Le urla collettive diĀ MidsommarĀ (2019)
Lāurlo come terrore
Lāultima istanza che ci preme esplorare ĆØ quella dellāurlo come forma di terrore puro, che agghiaccia lo spettatore a tal punto da disturbarlo più di ogni spavento o sadica malefatta. Questo modo di convogliare un disagio asfissiante può arrivare in modalitĆ differenti e non per forza unicamente dal genere horror. Tarantino fa delle grida di terrore un marchio di fabbrica, ma per ridicolizzare e svilire gli antagonisti delle proprie storie. In Cāera una volta a Hollywood (2019) trasforma gli angeli della morte della famiglia Manson in una combriccola di inetti terrorizzati dalle sevizie che il Cliff Booth di Brad Pitt gli scaglia contro con misurata violenza. Ma ĆØ in Kill Bill: Volume 2 (2004) che il regista dĆ il meglio di sĆ© in questo ambito, facendo impazzire dal terrore e dalla rabbia lāassassina tutta dāun pezzo Elle Driver, che si contorce alla cieca in uno squallido bagno di una roulotte in mezzo al deserto mentre cerca di difendersi dalla Sposa che gli ha cavato lāunico occhio buono.
Un urlo di terrore può anche amplificare il senso di spaesamento dello spettatore, come accade in Twin Peaks - Il Ritorno (Twin Peaks: The Return, David Lynch, 2017), che si chiude proprio con il grido pieno di mistero e paura di Sheryl Lee, tirando lāennesimo e più audace gancio allo spettatore, mettendolo fuori gioco per lāultima volta e costringendolo allāennesima riconsiderazione di tutto ciò che ha visto lungo lāiconica serie ABC/Showtime. Poi cāĆØ il terrore puro, viscerale, che percorre la spina vertebrale e la scuote con una forza che si credeva impossibile. E questo lo possiamo trovare tanto nel cinema dellāorrore quanto in contesti nei quali ci prende doppiamente alla sprovvista. E dato che la paura ĆØ fortemente soggettiva, prenderò come esempio due scene che trovo tra le più agghiaccianti della storia del cinema (forse perchĆ© più vicine al mio tempo e al mio vissuto). Partiamo dallāorrore puro, quello che ha scosso il genere meno di dieci anni fa: Hereditary.Ā
In generale, il film va a toccare corde che il genere ha faticato da sempre a raggiungere. Aster gioca sporco con lo spettatore e rompe quelle regole del cinema horror mainstream che hanno, bene o male, sempre accompagnato le produzioni più importanti del genere cinematografico. Lāapice di tutta questa tensione la troviamo praticamente allāinizio, divenendo quello spirito maligno che aleggia sulla testa dello spettatore fino alla fine della visione: il ritrovamento del corpo acefalo della figlia da parte Toni Collette.

L'urlo di Laura Palmer nella terza stagione di Twin PeaksĀ (1990-2017)
Arrivato a questo punto so di dover riguardare la scena per poterla analizzare. Lāho evitata consciamente, rimandandola fino allāultimo, tanto che ho scritto tutto lāarticolo prima di arrivare a questo punto. Ho come una morsa allo stomaco che mi blocca, perchĆ© so che quel grido disperato mi perseguiterĆ per giorni, se non settimane. La sua visceralitĆ mi disturba profondamente, tanto che ricordo di aver interrotto la visione (fortunatamente o sfortunatamente ero a casa), cosa che non mi ĆØ mai capitata prima con nessun altro film e che mai mi ĆØ capitata dopo. Lāurlo straziato di Collette mi fa tremare le mani mentre scrivo, forse perchĆ© ĆØ cosƬ vero e al contempo cosƬ lontano dal reale che si insinua in una parte dellāesperienza umana che va a richiamare un ancestrale senso di insicurezza. Anche se ĆØ per gran parte un urlo di dolore, molto più vicino a quello di Pugh in Midsommar, contiene al suo interno una nota di repulsione pura, disturbante al massimo del suo potenziale, complice anche la regia impeccabile di Aster, che pare un valzer con lāorrore.
Se qui, però, ci si può aspettare un momento del genere, in un film come Enter The Void (Gaspar NoĆ©, 2009) appare come un fulmine a ciel sereno. GiĆ evanescente e onirico di suo, il film a un certo punto ci mette faccia a faccia con una tragedia umana parecchio plausibile: un incidente stradale tra un camion e unāutilitaria con allāinterno una famiglia. Come per Hereditary, questa scena rappresenta un incubo cinematografico che non vorrei rivivere in alcun modo ma che mi trovo costretto a rivisitare. Qui le urla vengono messe in bocca a una bambina sconvolta dallāincidente che continua a gridare i nomi della madre e del padre, morti o moribondi sui sedili anteriori. NoĆ© ci guida con la sua macchina da presa senza corpo in questo carnaio di innocenti, accompagnati da lamenti distorti e distorcenti, che incrinano la percezione dello spettatore e lo immettono definitivamente sul piano dellāinquietudine subdurale.
Lāurlo a volte guida gli spettatori molto più delle immagini; li accompagna lungo strade subconscie che parevano precluse, ma che, al contrario, si aprono di colpo, attaccando le nostre paure più recondite. John Travolta di Blow Out (Brian De Palma, 1981) ĆØ ossessionato proprio da questa ricerca, dallāurlo perfetto. Quando finalmente riesce a trovarlo, proviene dallāultima persona da cui avrebbe voluto sentirlo fuoriuscire con cosƬ tanta disperata intensitĆ . E allora il film ĆØ pronto, il grido recuperato tra una pausa dal cinematografico e lāaltra, in una vita dedita alla narrazione per suoni e immagini. Non ĆØ neanche impeccabile, ma il pubblico non chiede tanto. Tutto considerato, āĆØ un buon urloā.

Toni Colette in Hereditary (2018)

L'urlo nel cinema,
tra dolore, catarsi e sovversione dello sguardo
di Mattia Pescitelli
TR-134
31.07.2025
Grida dal fondo di una vallata. Grida dal bosco. Grida da uno scantinato. Grida dalla sala parto di un ospedale o dalla camera da letto del castello di Versailles. Tutto il mondo può trovarsi in un urlo. Lāurlo ci rende liberi, ci rende spaventosi, ci rende primordialmente umani. Si dice che la miglior difesa sia lāattacco, ma il grido ha qualcosa in più rispetto alla mera reazione fisica. Incute timore, spaventa, inibisce. Un buon urlo può pietrificare più dello sguardo di Medusa. Tutti possono farlo, nessuno escluso. PerchĆ© un urlo non ĆØ solo un suono che squarcia la quiete: ĆØ unāintenzione.
Un grido può essere muto, spezzato, privo di bocca o corde vocali. Anzi, spesso ĆØ ancora più intenso quando viene privato della sua dirompenza sonora. Francis Ford Coppola, a tal proposito, ci fornisce un esempio perfetto: alla fine de Il Padrino - Parte III (The Godfather Part III, 1990), lāurlo straziante di Michael Corleone ĆØ muto per tutta la sua prima, lunga, fase. Pacino, poi, prende fiato per poco, il tempo necessario a dare ritmo al suo lutto, ed ĆØ in questa pausa che il regista dona nuovamente la parola al genitore afflitto, facendo esplodere quel dolore con il doppio dellāintensitĆ , forse perchĆ© inaspettato, forse perchĆ© tremendamente vero, come quella sorditĆ momentanea che segue un evento che ci porta al di fuori del razionale, in un piano del reale alternativo, sospesi tra quello che era prima e quello che sarĆ dāora in avanti.
Il grido rubato e restituito a Michael ĆØ l'impronta audiovisiva del processo mentale necessario per raggiungere la realizzazione che qualcosa di tremendo ha scosso lo stato delle cose. Poi certo, rappresenta anche la disillusione di un uomo reo di superbia, perfetto contraltare al montaggio alternato del primo Padrino, ma in questo contesto non ci interessano tanto le vicissitudini e i sottotesti che ammantano le grida che andremo a scandagliare, quanto lāimpeto viscerale che riverbera nelle ossa degli spettatori, portandoli nei luoghi più scomodi e reconditi dellāumana percezione.
Ć bene mettere in chiaro che lāurlo ĆØ qualcosa di strettamente legato a porzioni chiave di una storia. Può trovarsi allāinizio, nel mezzo o alla fine di tutto, ma sottolinea sempre un momento fondamentale per la narrazione, qualcosa in grado di disturbare lāesperienza passiva di chi guarda. Quindi, per analizzarlo, dovremo per forza andare nello specifico e raccontare nel dettaglio alcune delle sequenze più iconiche della storia del cinema, dai suoi albori fino alle ultime incursioni in sala e televisione. Ma prima apriamo una piccola parentesi nel crepaccio dellāinquietudine.

Al Pacino in Il Padrino - Parte IIIĀ (1990)
Lāurlo che diverte
Era il 1951 quando nelle sale usciva Distant DrumsĀ (Tamburi lontani), un western di Raoul Walsh con protagonista Gary Cooper. Non ĆØ un film particolarmente rilevante in sĆ©, ma ĆØ passato alla storia per un fenomeno a esso legato. Come era consono allāepoca, molti dei suoni diegetici venivano registrati in un secondo momento rispetto alla scena, durante una sola incisione che prevedeva più campionamenti. Per questo film serviva un uomo che gridasse mentre veniva sbranato da un coccodrillo.
Nella registrazione āMan getting bit by an alligator, and he screamsā sono presenti diversi strilli, tra cui uno che, passando dapprima per le produzioni Warner Bros. a causa del riciclo dei propri materiali (cosƬ da tagliare i costi di realizzazione), arrivò nelle mani di Ben Burtt, progettista del suono incaricato di dare āvoceā allāuniverso di Guerre Stellari (Star Wars, George Lucas, 1977). Tra tutti i materiali archiviati Burtt trovò proprio questo grido che, dopo una minuziosa ricerca, riuscƬ ad attribuire a Sheb Wooley, che in Tamburi lontani aveva recitato non accreditato.
Da qui nasce la storia dellāurlo di Wilhelm, il più subconsciamente iconico della storia del cinema, data la sua comparsa in più di 400 film (secondo la ricerca svolta dal National Science and Media Museum nel 2023). Burtt ha coniato il termine a partire da un personaggio secondario, il soldato Wilhelm, che emette proprio questo grido in Lāindiana bianca (The Charge at Feather River, Gordon Douglas, 1953). Da allora lāimplementazione di questo piccolo segreto si ĆØ espansa a macchia dāolio nella maggior parte delle produzioni maggiori, diventando una sorta di rituale scherzoso tra i progettisti del suono di tutto il mondo.
In questo caso, il grido diventa gioco, forma ludica di un intrattenimento giĆ ludico di per sĆ©, considerando le opere dove continua a prosperare questo bizzarro fenomeno popolare. L'urlo di Wilhelm rappresenta lāesatto opposto di quanto stiamo per andare a esplorare: ĆØ la deriva più lontana rispetto allāintroiezione ricercata dalle urla di seguito analizzate.

Ben Burtt a lavoro sul set
Lāurlo che sveste
Quando si pensa a qualcuno che urla nel cinema molto probabilmente la prima cosa che viene in mente ĆØ qualche giovane donna che lancia un grido di terrore davanti a fatti da far accapponare la pelle. Magari ĆØ la Janet Leigh di Psyco (Psycho, Alfred Hitchcock, 1960) o la Marilyn Burns di Non aprite quella porta (The Texas Chainsaw Massacre, Tobe Hooper, 1974) o la Drew Berrymore di Scream (Wes Craven, 1996). A prescindere da chi si palesi nella vostra mente, ĆØ indubbio che il regno delle regine dellāurlo sia incontrastato nella percezione socio-culturale di tale azione nel mondo cinematografico.
Questo probabilmente perchĆ© il loro valore sta nellāassociazione con lāorrore, il truculento, lāeccesso. Insomma, tutto quello che fa del cinema pulp e di genere un cinema popolare, in grado di arrivare a tutti attraverso lāesperienza dislocata di un incontro con le proprie paure e fantasie più recondite. Anche per questo lāurlo di Marion Crane sotto la doccia si ĆØ impresso nellāimmaginario collettivo molto più di pianti e grida di disperazione. E con il suo quello di centinaia di altre attrici che hanno fatto la storia del medium seguendo le regole di un mercato assetato di sangue e pelle.
La bellezza standardizzata, di generazione in generazione, si adatta alle brutture del mondo patriarcale e al lerciume con il quale intende insozzare anche gli ultimi barlumi di innocenza, alimentando al contempo quella stessa ricerca scopica che guida lo sguardo maschile, addestrato alla messa in atto di una purificazione a partire dal punto più basso dellāumano.

L'iconico urlo di Janeth Leigh in Psycho Ā (1960)
Solo dopo aver mostrato un certo grado di debolezza la final girl trova la forza per affrontare ciò che le sta capitando. Arriva a un passo dalla completa umiliazione e abuso della sua persona prima di trovare la strategia che la porterĆ in salvo, facendola uscire da quellāincubo strettamente legato al timore della mascolinitĆ che la circonda. Quellāurlo di terrore, che caratterizza la maggior parte dei personaggi femminili allāinterno di produzioni del genere (ma anche di altre molto dissimili), reca alla loro tenacia una cicatrice che non le abbandonerĆ per tutto il resto della visione, non importa quanto incredibili e coraggiose possano essere le imprese compiute. Inibisce la portata delle azioni di queste donne allāocchio dellāuomo, potenziando lo sguardo maschile e alimentando una narrazione che si costruisce tutta attorno al piacere voyeuristico dello spettatore.
Lāaltro lato della medaglia ĆØ la rappresentazione dellāuomo in questo tipo di produzioni. Molto spesso anche i personaggi maschili gridano, ma il loro terrore si fa grottesco, infantile, quasi una battuta dāarresto nella strategia della tensione messa in atto da questa tipologia di film. Anche questo pare dialogare con la percezione maschile, messa dinanzi a personaggi inetti, incapaci e ridicoli, dando una botta di autostima allo spettatore āuomoā, che non si ĆØ spaventato come il suo simile nel film, che ĆØ rimasto tutto dāun pezzo (o quasi) e che può ambire, almeno nella sua fantasia, a conquistare lāaffetto della protagonista, donna forte e determinata, ma che non rappresenta una minaccia alla convinzione di superioritĆ che sottintende la societĆ umana da quando la prima parola ĆØ stata posta su pergamena.
Quei singoli urli funzionano perché non solo divertono e spaventano lo spettatore a prescindere dal suo sesso, ma soprattutto perché toccano le corde giuste di un pubblico maschile che, anche solo a livello inconscio, è stato formato a rivendicare continuamente la propria superiorità scopica e a godere della costruzione a tavolino di produzioni mediali in grado di attivare tale convizione dormiente.

Drew Barrymore in ScreamĀ (1998)Ā
Lāurlo come difesa
Negli ultimi anni questa stessa narrazione ha cominciato a vacillare, supportata da nuove tipologie di sguardi capaci di sovvertire la percezione delle immagini da parte del pubblico. Registi di ogni etĆ e genere hanno costruito la propria carriera sullāesplorazione di temi capaci di attaccare lo sguardo maschile e riprogrammarlo. Un esempio su tutti ĆØ la ricerca della repressione sessuale nel cinema di Eggers. Da The Witch (2015) a Nosferatu (2024) lāinsabbiamento delle pulsioni umane in un tempo antico (che pare più attuale dellāattualitĆ che ci viene raccontato da molti altri autori) ĆØ stato il marchio di fabbrica del regista. La sua esplorazione raggiunge i luoghi più reconditi e vili dellāumano e fa ciò anche attraverso le urla dei personaggi che camminano le sue terre cinematografiche.
Le grida nei suoi film sono meccanismi di difesa. Come davanti a un bestia feroce, gli uomini e le donne dei film di Eggers ruggiscono ancora più forte; si fanno grandi davanti al pericolo: il pericolo di dover scendere a patti con i propri desideri più proibiti. Ciò lo si nota particolarmente nelle sue due pellicole più recenti, The Northman (2022) e Nosferatu.
Nel primo si ha a che fare con una lotta per la supremazia tra due maschi dominanti. SkarsgĆ„rd e Bang non comunicano a parole, ma tramite versi, ruggiti primordiali che echeggiano tra le valli di quellāIslanda terra tra i reami dellāesistenza; grida capaci di spaccare la crosta terrestre e far eruttare i vulcani dellāeterno conflitto del virile. Al contrario, la passione bruciante della Ellen di Lily-Rose Depp in Nosferatu esplode in urla di avversione: alle sue pulsioni, alle sue paure, alla sua ossessione. Con le sue grida esorcizza il demone dentro di lei, che altera la sua percezione del reale, che affligge chiunque la circondi, che la tiene prigioniera fino a che non lascia che quegli istinti la conquistino completamente, cosƬ da liberare lei e i suoi amati dalla maledizione che la stessa societĆ per la quale ha deciso di immolarsi le ha scatenato contro.
Sono grida, queste, con un forte senso di disperazione al loro interno. Grida di aiuto che riflettono i dubbi e fanno vacillare le convinzioni di chi li ascolta. Lāesternazione ultima di chi si trova allāangolo e non ha alcuna intenzione di arrendersi senza combattere, la cui unica colpa ĆØ quella di essere stati alimentati senza freno da un ecosistema sociale che incrina le relazioni e ordina di conformarsi senza mai uscire dai binari del comune pensare.

Le grida primordiali di Alexander SkarsgÄrd in The Northman (2022)
Lāurlo come lutto
Se le urla di paura giocano con la consapevolezza dello spettatore riguardo quanto sta per accadere a un dato personaggio, quelle di lutto fanno lāesatto opposto: prendono alla sprovvista il pubblico, lacerando in modo inaspettato la visione con qualcosa che non si vorrebbe mai sentire, specialmente in un momento che dovrebbe essere di puro svago. Queste grida ci mettono faccia a faccia con la morte, la soglia che tutti dovremo prima o poi oltrepassare, e che arriverĆ solo dopo aver attraversato tante altre soglie lungo la via, quelle di coloro che ci circondano e ci lasciano. La scena de Il Padrino - Parte III ne ĆØ un esempio, ma il cinema ci fornisce campioni a non finire - uno dei miei preferiti arriva da un film insospettabile, King ArthurĀ (2017)Ā di Guy Ritchie, dove Jude Law si lascia andare a un pianto culminante in un grido furibondo che racchiude tutta lāessenza del personaggio di Vortigern.
Ari Aster ĆØ unāaltro che ha costruito la sua carriera sullāesplorazione di temi specifici. Lasciando per il momento da parte Hereditary (2018), mettiamo sotto alla nostra lente MidsommarĀ (2019). Lāintero film esplora il tema del lutto e di come riuscire a superare un trauma che pare invalicabile, il tutto scandito dai pianti disperati di Florence Pugh, che si faticano a contare. I titoli di testa ci portano oltre il suo dolore, lontano, in una bufera di neve, eppure il suo pianto ci raggiunge.
Non cāĆØ scampo nĆ© per lo spettatore, nĆ© per lei, nĆ© per i suoi compagni di viaggio. Il suo lutto ĆØ il pagliericcio secco al quale il fuoco del dramma si avvinghia e dal quale si alimenta. Le fiamme si alzano fino ad arrivare alla scena più iconica del film: i quasi due minuti di pianto collettivo con le altre donne del villaggio, un riverbero senza fine della pena di una femminilitĆ incrinata lasciata a guarire da sola. In quellāurlo disperato e assordante cāĆØ tutto il processo di elaborazione del lutto e della perdita, non solo materiale ma anche caratteriale e mentale, e della successiva accettazione e riconciliazione con il sĆ©.

Le urla collettive diĀ MidsommarĀ (2019)
Lāurlo come terrore
Lāultima istanza che ci preme esplorare ĆØ quella dellāurlo come forma di terrore puro, che agghiaccia lo spettatore a tal punto da disturbarlo più di ogni spavento o sadica malefatta. Questo modo di convogliare un disagio asfissiante può arrivare in modalitĆ differenti e non per forza unicamente dal genere horror. Tarantino fa delle grida di terrore un marchio di fabbrica, ma per ridicolizzare e svilire gli antagonisti delle proprie storie. In Cāera una volta a Hollywood (2019) trasforma gli angeli della morte della famiglia Manson in una combriccola di inetti terrorizzati dalle sevizie che il Cliff Booth di Brad Pitt gli scaglia contro con misurata violenza. Ma ĆØ in Kill Bill: Volume 2 (2004) che il regista dĆ il meglio di sĆ© in questo ambito, facendo impazzire dal terrore e dalla rabbia lāassassina tutta dāun pezzo Elle Driver, che si contorce alla cieca in uno squallido bagno di una roulotte in mezzo al deserto mentre cerca di difendersi dalla Sposa che gli ha cavato lāunico occhio buono.
Un urlo di terrore può anche amplificare il senso di spaesamento dello spettatore, come accade in Twin Peaks - Il Ritorno (Twin Peaks: The Return, David Lynch, 2017), che si chiude proprio con il grido pieno di mistero e paura di Sheryl Lee, tirando lāennesimo e più audace gancio allo spettatore, mettendolo fuori gioco per lāultima volta e costringendolo allāennesima riconsiderazione di tutto ciò che ha visto lungo lāiconica serie ABC/Showtime. Poi cāĆØ il terrore puro, viscerale, che percorre la spina vertebrale e la scuote con una forza che si credeva impossibile. E questo lo possiamo trovare tanto nel cinema dellāorrore quanto in contesti nei quali ci prende doppiamente alla sprovvista. E dato che la paura ĆØ fortemente soggettiva, prenderò come esempio due scene che trovo tra le più agghiaccianti della storia del cinema (forse perchĆ© più vicine al mio tempo e al mio vissuto). Partiamo dallāorrore puro, quello che ha scosso il genere meno di dieci anni fa: Hereditary.Ā
In generale, il film va a toccare corde che il genere ha faticato da sempre a raggiungere. Aster gioca sporco con lo spettatore e rompe quelle regole del cinema horror mainstream che hanno, bene o male, sempre accompagnato le produzioni più importanti del genere cinematografico. Lāapice di tutta questa tensione la troviamo praticamente allāinizio, divenendo quello spirito maligno che aleggia sulla testa dello spettatore fino alla fine della visione: il ritrovamento del corpo acefalo della figlia da parte Toni Collette.

L'urlo di Laura Palmer nella terza stagione di Twin PeaksĀ (1990-2017)
Arrivato a questo punto so di dover riguardare la scena per poterla analizzare. Lāho evitata consciamente, rimandandola fino allāultimo, tanto che ho scritto tutto lāarticolo prima di arrivare a questo punto. Ho come una morsa allo stomaco che mi blocca, perchĆ© so che quel grido disperato mi perseguiterĆ per giorni, se non settimane. La sua visceralitĆ mi disturba profondamente, tanto che ricordo di aver interrotto la visione (fortunatamente o sfortunatamente ero a casa), cosa che non mi ĆØ mai capitata prima con nessun altro film e che mai mi ĆØ capitata dopo. Lāurlo straziato di Collette mi fa tremare le mani mentre scrivo, forse perchĆ© ĆØ cosƬ vero e al contempo cosƬ lontano dal reale che si insinua in una parte dellāesperienza umana che va a richiamare un ancestrale senso di insicurezza. Anche se ĆØ per gran parte un urlo di dolore, molto più vicino a quello di Pugh in Midsommar, contiene al suo interno una nota di repulsione pura, disturbante al massimo del suo potenziale, complice anche la regia impeccabile di Aster, che pare un valzer con lāorrore.
Se qui, però, ci si può aspettare un momento del genere, in un film come Enter The Void (Gaspar NoĆ©, 2009) appare come un fulmine a ciel sereno. GiĆ evanescente e onirico di suo, il film a un certo punto ci mette faccia a faccia con una tragedia umana parecchio plausibile: un incidente stradale tra un camion e unāutilitaria con allāinterno una famiglia. Come per Hereditary, questa scena rappresenta un incubo cinematografico che non vorrei rivivere in alcun modo ma che mi trovo costretto a rivisitare. Qui le urla vengono messe in bocca a una bambina sconvolta dallāincidente che continua a gridare i nomi della madre e del padre, morti o moribondi sui sedili anteriori. NoĆ© ci guida con la sua macchina da presa senza corpo in questo carnaio di innocenti, accompagnati da lamenti distorti e distorcenti, che incrinano la percezione dello spettatore e lo immettono definitivamente sul piano dellāinquietudine subdurale.
Lāurlo a volte guida gli spettatori molto più delle immagini; li accompagna lungo strade subconscie che parevano precluse, ma che, al contrario, si aprono di colpo, attaccando le nostre paure più recondite. John Travolta di Blow Out (Brian De Palma, 1981) ĆØ ossessionato proprio da questa ricerca, dallāurlo perfetto. Quando finalmente riesce a trovarlo, proviene dallāultima persona da cui avrebbe voluto sentirlo fuoriuscire con cosƬ tanta disperata intensitĆ . E allora il film ĆØ pronto, il grido recuperato tra una pausa dal cinematografico e lāaltra, in una vita dedita alla narrazione per suoni e immagini. Non ĆØ neanche impeccabile, ma il pubblico non chiede tanto. Tutto considerato, āĆØ un buon urloā.

Toni Colette in Hereditary (2018)