
NC-333
20.09.2025
Il festival internazionale del cinema di Toronto, meglio conosciuto come il TIFF, è una delle manifestazioni cinematografiche più ricche dal punto di vista del programma. Oltre alle varie premiere di film statunitensi che cercano un buon trampolino di lancio verso l’Awards Season, il festival si contraddistingue per la varietà di opere che giungono da tutto il mondo. Oggi ci concentreremo su alcuni titoli che ci hanno colpito per diversi motivi. Tra questi, vi parleremo di Leavers di Rhayne Vermette, Exit 8 di Genki Kawamura, Ky Nam Inn di Leon Le, As We Breath di Şeyhmus Altun, Lovely Day di Philippe Falerdau e To the Victory! di Valentin Vasyanovych, l’opera che ha vinto il TIFF Platform award.
As We Breath, di Şeyhmus Altun

Con As We Breathe, il regista turco Şeyhmus Altun firma un esordio potente e sommesso, ritraendo una famiglia sull’orlo della frattura in un villaggio anatolico soffocato dall’inquinamento, dalla povertà e dall’assenza. La giovane Esma (Defne Zeynep Enci) osserva il mondo adulto con sguardo silenzioso e attento, in un’atmosfera sospesa tra malattia e disillusione. Il padre Mehmet (un intenso Hakan Karsak) attraversa giorni sempre più disperati; la fabbrica brucia, il bestiame si ammala, l’auto si guasta, le istituzioni chiedono lo sgombero. “Ovunque è fumo e cenere”, dice, riassumendo un’esistenza senza via d’uscita. Altun non indulge nella retorica del dramma sociale, ma sceglie piuttosto un racconto fatto di sguardi e gesti minimi, dove i bambini osservano da lontano, senza capire del tutto ma pur sempre sentendo tutto. La regia costruisce il film intorno al non detto, adottando spesso il punto di vista dei più piccoli; da una scena vista attraverso il parabrezza di un’auto a momenti in cui Esma resta immobile davanti a un muro di fiamme, il film privilegia uno sguardo laterale, vulnerabile, che coglie la desolazione senza filtri. È proprio questa prospettiva che rende As We Breathe così toccante. Il dolore degli adulti si rifrange negli occhi dei bambini, diventando silenzioso ma palpabile. La fotografia di Cevahir Şahin trasforma la desolazione in immagini pittoriche, con un uso evocativo delle fiamme e del paesaggio rurale. As We Breathe è un film che chiede attenzione e restituisce empatia, ogni respiro è un atto di resistenza, in un mondo che sembra franare sotto il peso del tempo e della fatica.
Exit 8, di Genki Kawamura

Genki Kawamura nasce inizialmente come scrittore, dopo una laurea in Lettere presso la facoltà della Jochi Daigaku. La sua è una figura letteraria importante grazie al suo If Cats Disappeared from the World (2012), libro da oltre 2 milioni di copie vendute nel mondo. La sua fama, però, si rinnova anche nella figura di produttore cinematografico. C’è infatti la sua firma dietro i successi del regista Makoto Shinkai - per cui produce Your Name (2016), Weathering With You (2019) e Suzume (2022) - e di Mamoru Hosoda - Belle (2022) -, fino a firmare il suo esordio dietro la macchina da presa, Exit 8 (2025), presentato nella sezione Lightbox del TIFF 2025. Prendendo ispirazione dal famigerato videogioco di Kotake Create, l’horror di Kawamura è un prodotto che riflette, attraverso la trans-medialità e adattando i walking simulators che si concentrano sull’atmosfera più che sull’azione, sulla contemporaneità della condizione umana, dove l’ambientazione metropolitana, gli spazi anonimi e univoci dello scenario del film si trasformano da luoghi progettati per movimento a prigioni inconsapevoli dell’anonimato. Kawamura mette in scena un paradosso, formato soprattutto da una condizione d’isolamento malgrado la presenza umana, dove proprio questa porta il protagonista (Kazunari Ninomiya) a cercare una via di fuga per ritrovare sé stesso ed uscire dalla sua condizione alienata. L’orrore è la percezione deformata dell’uomo metropolitano, i suoi timori interiori, il tentativo di sfuggire ad un’anomalia e ad una routine che porta più incertezze che sicurezze e dove la città diventa un sistema operativo che non ammette eccezioni. Kawamura adatta in modo divertito la meccanica di gioco, regolando lo spazio attraverso logiche che sfuggono all’umano, le quali devono essere rispettate ciecamente, riflettendo anche, attraverso vari POV e l’uso delle semi-soggettive, sulla nostra pratica digitalizzata di guardare walkthroughs, interpretare modi diversi di giocare e le nostre diverse reazioni. Il tutto si traduce in una vera e propria esperienza liminale, dove l’ignoto non è mostruoso nel senso fantastico, ma subdolo. Facendo eco anche a citazioni letterarie dal registro altissimo - quale il continuo richiamo al viaggio della Commedia dantesca - lo scenario di Exit 8 diventa quindi un moderno Purgatorio, una versione più astratta dell’alienazione urbana di “kiyoshiana” memoria, dove i peccati si materializzano e devono essere affrontati a viso aperto.
Ghost School, di Seemab Gul

Seemab Gul porta al Toronto Film Festival una moderna fiaba per bambini che nasconde molte denunce al proprio paese. Da sempre le fiabe cerano di insegnare ai più piccoli come sopravvivere nel mondo che li circonda ed è anche lo scopo del film Ghost School. La regista inglese di origine pakistana racconta la storia della piccola Rabia che una mattina si ritrova la scuola chiusa senza preavviso. Alla domanda del perché le viene risposto che è infestata dai Jinn – spirito soprannaturale della tradizione araba e islamica – che hanno fatto ammalare l’insegnante. La chiusura dell’unica scuola del villaggio porta le famiglie a prendere drastiche decisioni: i maschi andranno a studiare nella città affianco in un istituto maschile, mentre le bambine staranno a casa ad aiutare. Rabia si rifiuta di accettare questa soluzione e intraprende un personale “viaggio” all’interno del villaggio per scoprire come mai la scuola sia davvero stata chiusa e come poterla riaprire. Seemab Gul mischia la propria esperienza da documentarista alla finzione. Le inquadrature ci trasportano direttamente in Pakistan, tra le case con enormi cortili dove le donne lavorano e rassettano casa, il mare popolato dai pescatori che ogni giorno provano a guadagnarsi qualcosa fino alle enormi strade piene di plastica e immondizia nei quali i bambini giocano incuranti. In questi paesaggi urbani e rurali la piccola Rabia va dritta per la sua strada facendo domande e passando da un personaggio più insolito dell’altro. Gul con questo film vuole porre l’attenzione sulle ingiustizie che le bambine vivono ancora oggi in Pakistan, e non solo, costrette a rinunciare agli studi a causa non solo della cultura, ma anche dei giochi di potere tra gli adulti che rischiano di chiudere loro le porte delle residue possibilità che anno. Rabia lungo il percorso non affronta i famigerati Jinn, ma si scontra contro l’ottusità e la superstizione degli adulti.
Ky Nam Inn, di Leon Le

Leon Le è un regista vietnamita che, attualmente, vive a New York. Dopo aver intrapreso una lunga carriera che lo ha portato anche a confrontarsi con scenari teatrali prestigiosi - quale Broadway - ha cominciato a scrivere e dirigere i suoi primi cortometraggi, dai titoli Dawn (2012) e Talking To My Mother (2014). Nel 2018 arriva la grande occasione di farsi conoscere al pubblico, tramite il suo primo lungometraggio Song Lang (2018), presentato per l’occasione al Tokyo International Film Festival, dramma con cui ha affrontato in modo molto particolare l’apertura vietnamita nei confronti della libertà - anche sessuale - dopo gli anni ‘80. Sempre a Saigon, nello stesso periodo, è ambientato anche il suo nuovo lungometraggio, Ky Nam Inn (2025), presentato nella sezione Special del TIFF 2025. Nel trattare una storia d’amore non convenzionale tra un giovane traduttore del Nord e una vedova del Sud del Vietnam, Leon Le dialoga con l’eredità hongkonghese anni ’90-2000 - con riferimenti, in particolare, al cinema di Wong Kar-Wai, richiamato soprattutto tramite soluzioni estetiche, tra cui carrellate verticali sinuose e un uso di colori caldi che riportano alla mente, inevitabilmente, il capolavoro In The Mood For Love (2000) - senza però imitarla, filtrandola attraverso la visione storica di un Vietnam afflitto dal trauma storico post-bellico. I due protagonisti, in tal senso, riflettono la continua tensione che il racconto crea tra individuo e Storia, senza però perdersi in didascalismi politici, ma anzi rafforzando la priorità del rapporto intimo al di sopra di tutto. Lo sfruttamento del 35mm, formato usato da Leon Le per girare, diventa supporto materiale per l’immagine, mezzo per dare corpo proprio al ricordo e ai flashback - adeguatamente assestati all’interno della narrazione - inscrivendo i personaggi dentro una temporalità altra, caratterizzando un presente che si fa già memoria a sua volta, e portando dunque la narrazione del film ad inscriversi in un flusso di “deleuziana” memoria, usando il materiale tecnico come ponte tra passato traumatico e presente di rielaborazione. Un ponte rappresentato attraverso luoghi liminari e fantasmatici - quale l’hotel teatro di Ky Nam Inn - in cui a tratti il melò si trasforma in ghost movie teorico, diventando un rito visivo attraverso l’uso della pellicola, medium che permette a queste presenze di manifestarsi e di dare corpo ad una specie di fantasmagoria cinematografica molto interessante.
Levers, di Rhayne Vermette

Rhayne Vermette è un’artista che ormai da qualche anno è sulla cresta dell’onda del cinema canadese, in cui è approdata attraverso le sue prime opere sperimentali. Dopo vari corti/ collage che riflettono sulla memoria, sull’identità e sul territorio, gira il suo primo lungometraggio, Ste. Anne (2021), con cui riceve riconoscimenti, tra cui l’Amplify Voices Award al TIFF come miglior film canadese. Proprio quest’anno la regista ritorna a Toronto con il suo secondo lungometraggio, dal titolo Levers (2025), che sfrutta elementi post-apocalittici per riflettere su come il quotidiano possa turbare le certezze dell’umanità. Nel narrare le vite di tre personaggi, messe in relazione attraverso un andamento episodico che sfrutta una struttura ispirata ai “maggiori arcani” dei tarocchi, Vermette sfrutta la metafora dell’eclissi per raccontare di una resistenza all’iper-visione, una condizione che porta lo sguardo a sovraccaricarsi attraverso l’uso di immagini ad alta definizione algoritmicamente filtrate, iper-luminose, nitide e immediate. Levers, da questo punto di vista, lavora per contrasto, portandoci in uno stato d’impercettibilità visiva, di deficit, per aprire uno spazio in cui vedere non significa controllare, ma piuttosto accettare il buio, l’invisibile, il non detto. Il film dunque funziona soprattutto nel momento in cui rappresenta una critica materiale all’estetica contemporanea. Se, infatti, da un lato il regime visivo contemporaneo ci chiede sempre più chiarezza, precisione e nitidezza, Vermette insiste su opacità, imperfezione e intermittenza, trasformando la pellicola 16mm in un luogo di resistenza. L’immagine si trasforma, dunque, in un invito a ripensare i limiti del visibile, riflettendo in parte la frammentazione e la saturazione della visione presente nei lavori tardi di uno sperimentatore come Jean-Luc Godard, la cui attitudine dispersiva viene resa in modo analogico attraverso la pellicola, in modo da configurare non una “rottura digitale”, ma un fallimento analogico programmato, che crea spazi di opacità e che apparecchia la resistenza a un’idea di cinema come mera trasparenza narrativa. Levers diventa dunque un’opportunità per resistere alla “dittatura” della nitidezza dell’immagine e per fare, piuttosto, dell’opacità un gesto politico fondamentale, in un mondo sempre di più alle prese con la ricerca della qualità perfetta e dell’immagine “industrializzata” che porta lo spettatore ad essere succube inconsapevole dell’iper-visibilità.
Lovely Day, di Philippe Falardeau

Dicono tutti che il matrimonio è il giorno più importante e felice della vita di tutti, ma nessuno accenna mai alle paure e alle ansie che quell’unico giorno provoca nelle persone. Philippe Falardeau porta al TIFF il suo nuovo lungometraggio Lovely Day nel quale mostra anche le ombre che si celano dietro alle nozze. Alain, interpretato da Neil Elias, si sta preparando a sposare l’amore della sua vita Virginie (Rose-Marie Perreault) ma nonostante la gioia, in lui si insinuano le paure che tutto vada nel verso giusto, soprattutto vista la presenza dei genitori divorziati alla cerimonia. Falardeau scompone il classico film sui matrimoni trasformandolo in una storia di vita. Attraverso Alain, il regista canadese ci mostra come sia crescere in Quebec in una famiglia araba, a cavallo tra due culture. Non solo, è interessante vedere come viene affrontata il tema della malattia, infatti Alain soffre del morbo di Chron, condizione che non gli permette di vivere come gli altri, ma non a causa dei sintomi fisici come si potrebbe pensare, ma sono le paure che gli hanno trasmesso i genitori a portarlo a vivere in maniera invalidante per certi aspetti la sua condizione. Falardeau in questo film gioca col tempo accrescendo sempre più la curiosità dello spettatore nello scoprire i vari flashback, ma soprattutto a far vivere al pubblico la stessa tensione di Alain per il suo giorno speciale. Il film nonostante sia perfettamente composto e presenti una serie di personaggi straordinari, a partire dai genitori di Alain, Yolande e Elias – interpretati magistralmente da Hiam Abou Chedid e Georges Khabbaz –, non sempre funziona, a discapito della parte comica che viene schiacciata soprattutto dall’interpretazione di Neil Elias che rimane fin troppo serio. Non si viene quindi a creare la risata che scaturisce da una situazione seria perché assurda. Questa però non è del tutto un aspetto negativo del film. Falardeau infatti non ci mostra l’assurdo del reale che spesso suscita la risata, ma ci mostra le difficoltà di un giovane ragazzo nel lasciarsi andare e ad accettare non solo l’amore degli amici, ma soprattutto ad accettare e perdonare dei genitori, che anche se imperfetti sono pur sempre l’origine di tutto.
The Cost of Heaven, di Mathieu Denis

Mathieu Denis è uno dei nomi più noti del contemporaneo cinema canadese. Ex collaboratore di Xavier Dolan, il lavoro di Denis è contraddistinto da uno sguardo caustico sulle dinamiche della società contemporanea. Con The cost of heaven propone il ritratto della discesa negli abissi di un uomo comune, Nacer (Samir Guesmi), a causa di una serie di investimenti fallimentari. Ci sono tanti nervi scoperti nel film di Denis, che il regista tocca con una precisione chirurgica. Il primo: Nacer è un arabo che in Canada è riuscito a costruire una famiglia, ha un lavoro tranquillo che lo fa guadagnare abbastanza bene, ha una bella moglie, tre bei figli, una bella casa e una comunità di amici - anch’essi arabi - che gli vuole bene e lo rispetta. Il secondo: Nacer manda i propri figli in una scuola prestigiosa frequentata dall’elite di Montrèal. Elìte a cui l’uomo sogna di appartenere, ma a cui non appartiene. Il terzo: tutto ciò che fa Nacer, apparentemente, lo fa per la propria famiglia. Tutto viene messo in chiaro nei primi minuti del film, con una sequenza magistrale in cui, durante una cena, Nacer finge una chiamata all’ufficio di Babbo Natale chiedendo di mettere da parte una serie di regali costosi per i membri della sua famiglia. L’abilità di Denis è quella di dipingere la catabasi di Nacer, una progressiva discesa negli inferi (contraltare del paradiso che dà il titolo al film) che lo porta vicino a una regressione allo stato bestiale pur di avere più soldi, con il ritmo di un thriller. Diverse sono le scene che lasciano lo spettatore senza fiato e, più il punto di non ritorno si avvicina, più cresce la tensione e l’intensità psicologica del film. Sebbene la struttura possa assomigliare a quella di Diamanti grezzi (2019), Mathieu Denis rifiuta la caoticità dei Safdie e l’eccentricità del personaggio di Adam Sandler. All’overlapping e alla camera a mano, preferisce un lavoro intelligente sull’alternanza fra fuoco e fuori fuoco, muovendosi verso una progressiva essenzialità del linguaggio non priva, però, di soluzioni originali. Come se il tormento interiore del proprio protagonista, tutt’altro che esteriore, venisse lentamente interiorizzato dallo stesso linguaggio cinematografico. Non mancano poi metafore - come il gioco di prestigio che ama fare Nacer con le monete - che, anche se esplicite, trovano il giusto spazio in una narrazione gestita con grande equilibrio dal regista. Ultima nota di merito va alla prova di Samir Guesmi. Noto più come comprimario, l’attore francese sfoggia un’interpretazione estremamente convincente e dà corpo, con una prova in sottrazione, a un vinto con cui è difficile non empatizzare.
To the Victory!, di Valentin Vasyanovych

Valentin Vasyanovych è una delle voci più note del contemporaneo cinema ucraino. Regista che si è fatto da sempre narratore del conflitto russo-ucraino iniziato nel 2014 e autore dei celebri Atlantis e Reflection, entrambi presentati a Venezia, porta a Toronto il suo primo film girato dall’allargamento della guerra. Lo fa mantenendo intatto il proprio stile, fatto di rigorosi piani sequenza in campo totale perlopiù a camera fissa, di un montaggio pressoché assente e di un utilizzo estremamente intelligente della dialettica fra campo e fuori campo. I toni cupi di Reflection ed Atlantis - entrambi incentrati su militari di ritorno dalla guerra che soffrono di stress post-traumatico e che non riescono a ricostruire le proprie relazioni familiari - vengono apparentemente distesi. A mettersi in scena è, infatti, il regista stesso e il suo ristretto numero di collaboratori. Come in Atlantis, Vasyanovych colloca nell’immediato futuro - corrispondente alla fine della guerra russo-ucraina - le vicende. To the victory! è dunque una complessa operazione meta-cinematografica che - partendo dall’esperienza autobiografica del regista - mette in scena gli esiti del conflitto sulla tenuta sociale dell’Ucraina. Uno stato in cui sono rimasti solo uomini, con famiglie sparse per tutta Europa, incapaci di portare avanti il proprio paese - nonostante la “vittoria” della guerra. Vasyanovych è molto abile nel tratteggiare un’umanità dimessa, tormentata, fragile. Il suo corpo in scena, testimonianza di un processo umano e artistico a un bivio, garantisce poi un’inaspettata empatia dello spettatore con i suoi tormenti e i suoi drammi (borghesi) individuali. Ecco dunque che la crisi esistenziale ed artistica del regista diventa un ritratto di un paese in una situazione di stallo, di liminalità, di un paese lacerato che - però - deve trovare la forza per andare avanti. Fra sequenze di una brillantezza mai vista nel cinema del regista ucraino e altre che fanno intravedere una certa pigrizia argomentativa, ma che riescono indubbiamente sul piano comico, To the victory! è un film agrodolce. Drammatico, ma non tragico. Umano come non lo sono mai stati i film del regista che pure indagano rapporti familiari segnati dal conflitto. E, inaspettatamente, speranzoso. La magnifica scena finale - anche se suona programmatica - ne è una dimostrazione.
NC-333
20.09.2025
Il festival internazionale del cinema di Toronto, meglio conosciuto come il TIFF, è una delle manifestazioni cinematografiche più ricche dal punto di vista del programma. Oltre alle varie premiere di film statunitensi che cercano un buon trampolino di lancio verso l’Awards Season, il festival si contraddistingue per la varietà di opere che giungono da tutto il mondo. Oggi ci concentreremo su alcuni titoli che ci hanno colpito per diversi motivi. Tra questi, vi parleremo di Leavers di Rhayne Vermette, Exit 8 di Genki Kawamura, Ky Nam Inn di Leon Le, As We Breath di Şeyhmus Altun, Lovely Day di Philippe Falerdau e To the Victory! di Valentin Vasyanovych, l’opera che ha vinto il TIFF Platform award.
As We Breath, di Şeyhmus Altun

Con As We Breathe, il regista turco Şeyhmus Altun firma un esordio potente e sommesso, ritraendo una famiglia sull’orlo della frattura in un villaggio anatolico soffocato dall’inquinamento, dalla povertà e dall’assenza. La giovane Esma (Defne Zeynep Enci) osserva il mondo adulto con sguardo silenzioso e attento, in un’atmosfera sospesa tra malattia e disillusione. Il padre Mehmet (un intenso Hakan Karsak) attraversa giorni sempre più disperati; la fabbrica brucia, il bestiame si ammala, l’auto si guasta, le istituzioni chiedono lo sgombero. “Ovunque è fumo e cenere”, dice, riassumendo un’esistenza senza via d’uscita. Altun non indulge nella retorica del dramma sociale, ma sceglie piuttosto un racconto fatto di sguardi e gesti minimi, dove i bambini osservano da lontano, senza capire del tutto ma pur sempre sentendo tutto. La regia costruisce il film intorno al non detto, adottando spesso il punto di vista dei più piccoli; da una scena vista attraverso il parabrezza di un’auto a momenti in cui Esma resta immobile davanti a un muro di fiamme, il film privilegia uno sguardo laterale, vulnerabile, che coglie la desolazione senza filtri. È proprio questa prospettiva che rende As We Breathe così toccante. Il dolore degli adulti si rifrange negli occhi dei bambini, diventando silenzioso ma palpabile. La fotografia di Cevahir Şahin trasforma la desolazione in immagini pittoriche, con un uso evocativo delle fiamme e del paesaggio rurale. As We Breathe è un film che chiede attenzione e restituisce empatia, ogni respiro è un atto di resistenza, in un mondo che sembra franare sotto il peso del tempo e della fatica.
Exit 8, di Genki Kawamura

Genki Kawamura nasce inizialmente come scrittore, dopo una laurea in Lettere presso la facoltà della Jochi Daigaku. La sua è una figura letteraria importante grazie al suo If Cats Disappeared from the World (2012), libro da oltre 2 milioni di copie vendute nel mondo. La sua fama, però, si rinnova anche nella figura di produttore cinematografico. C’è infatti la sua firma dietro i successi del regista Makoto Shinkai - per cui produce Your Name (2016), Weathering With You (2019) e Suzume (2022) - e di Mamoru Hosoda - Belle (2022) -, fino a firmare il suo esordio dietro la macchina da presa, Exit 8 (2025), presentato nella sezione Lightbox del TIFF 2025. Prendendo ispirazione dal famigerato videogioco di Kotake Create, l’horror di Kawamura è un prodotto che riflette, attraverso la trans-medialità e adattando i walking simulators che si concentrano sull’atmosfera più che sull’azione, sulla contemporaneità della condizione umana, dove l’ambientazione metropolitana, gli spazi anonimi e univoci dello scenario del film si trasformano da luoghi progettati per movimento a prigioni inconsapevoli dell’anonimato. Kawamura mette in scena un paradosso, formato soprattutto da una condizione d’isolamento malgrado la presenza umana, dove proprio questa porta il protagonista (Kazunari Ninomiya) a cercare una via di fuga per ritrovare sé stesso ed uscire dalla sua condizione alienata. L’orrore è la percezione deformata dell’uomo metropolitano, i suoi timori interiori, il tentativo di sfuggire ad un’anomalia e ad una routine che porta più incertezze che sicurezze e dove la città diventa un sistema operativo che non ammette eccezioni. Kawamura adatta in modo divertito la meccanica di gioco, regolando lo spazio attraverso logiche che sfuggono all’umano, le quali devono essere rispettate ciecamente, riflettendo anche, attraverso vari POV e l’uso delle semi-soggettive, sulla nostra pratica digitalizzata di guardare walkthroughs, interpretare modi diversi di giocare e le nostre diverse reazioni. Il tutto si traduce in una vera e propria esperienza liminale, dove l’ignoto non è mostruoso nel senso fantastico, ma subdolo. Facendo eco anche a citazioni letterarie dal registro altissimo - quale il continuo richiamo al viaggio della Commedia dantesca - lo scenario di Exit 8 diventa quindi un moderno Purgatorio, una versione più astratta dell’alienazione urbana di “kiyoshiana” memoria, dove i peccati si materializzano e devono essere affrontati a viso aperto.
Ghost School, di Seemab Gul

© Victor Juca
Seemab Gul porta al Toronto Film Festival una moderna fiaba per bambini che nasconde molte denunce al proprio paese. Da sempre le fiabe cerano di insegnare ai più piccoli come sopravvivere nel mondo che li circonda ed è anche lo scopo del film Ghost School. La regista inglese di origine pakistana racconta la storia della piccola Rabia che una mattina si ritrova la scuola chiusa senza preavviso. Alla domanda del perché le viene risposto che è infestata dai Jinn – spirito soprannaturale della tradizione araba e islamica – che hanno fatto ammalare l’insegnante. La chiusura dell’unica scuola del villaggio porta le famiglie a prendere drastiche decisioni: i maschi andranno a studiare nella città affianco in un istituto maschile, mentre le bambine staranno a casa ad aiutare. Rabia si rifiuta di accettare questa soluzione e intraprende un personale “viaggio” all’interno del villaggio per scoprire come mai la scuola sia davvero stata chiusa e come poterla riaprire. Seemab Gul mischia la propria esperienza da documentarista alla finzione. Le inquadrature ci trasportano direttamente in Pakistan, tra le case con enormi cortili dove le donne lavorano e rassettano casa, il mare popolato dai pescatori che ogni giorno provano a guadagnarsi qualcosa fino alle enormi strade piene di plastica e immondizia nei quali i bambini giocano incuranti. In questi paesaggi urbani e rurali la piccola Rabia va dritta per la sua strada facendo domande e passando da un personaggio più insolito dell’altro. Gul con questo film vuole porre l’attenzione sulle ingiustizie che le bambine vivono ancora oggi in Pakistan, e non solo, costrette a rinunciare agli studi a causa non solo della cultura, ma anche dei giochi di potere tra gli adulti che rischiano di chiudere loro le porte delle residue possibilità che anno. Rabia lungo il percorso non affronta i famigerati Jinn, ma si scontra contro l’ottusità e la superstizione degli adulti.
Ky Nam Inn, di Leon Le

Leon Le è un regista vietnamita che, attualmente, vive a New York. Dopo aver intrapreso una lunga carriera che lo ha portato anche a confrontarsi con scenari teatrali prestigiosi - quale Broadway - ha cominciato a scrivere e dirigere i suoi primi cortometraggi, dai titoli Dawn (2012) e Talking To My Mother (2014). Nel 2018 arriva la grande occasione di farsi conoscere al pubblico, tramite il suo primo lungometraggio Song Lang (2018), presentato per l’occasione al Tokyo International Film Festival, dramma con cui ha affrontato in modo molto particolare l’apertura vietnamita nei confronti della libertà - anche sessuale - dopo gli anni ‘80. Sempre a Saigon, nello stesso periodo, è ambientato anche il suo nuovo lungometraggio, Ky Nam Inn (2025), presentato nella sezione Special del TIFF 2025. Nel trattare una storia d’amore non convenzionale tra un giovane traduttore del Nord e una vedova del Sud del Vietnam, Leon Le dialoga con l’eredità hongkonghese anni ’90-2000 - con riferimenti, in particolare, al cinema di Wong Kar-Wai, richiamato soprattutto tramite soluzioni estetiche, tra cui carrellate verticali sinuose e un uso di colori caldi che riportano alla mente, inevitabilmente, il capolavoro In The Mood For Love (2000) - senza però imitarla, filtrandola attraverso la visione storica di un Vietnam afflitto dal trauma storico post-bellico. I due protagonisti, in tal senso, riflettono la continua tensione che il racconto crea tra individuo e Storia, senza però perdersi in didascalismi politici, ma anzi rafforzando la priorità del rapporto intimo al di sopra di tutto. Lo sfruttamento del 35mm, formato usato da Leon Le per girare, diventa supporto materiale per l’immagine, mezzo per dare corpo proprio al ricordo e ai flashback - adeguatamente assestati all’interno della narrazione - inscrivendo i personaggi dentro una temporalità altra, caratterizzando un presente che si fa già memoria a sua volta, e portando dunque la narrazione del film ad inscriversi in un flusso di “deleuziana” memoria, usando il materiale tecnico come ponte tra passato traumatico e presente di rielaborazione. Un ponte rappresentato attraverso luoghi liminari e fantasmatici - quale l’hotel teatro di Ky Nam Inn - in cui a tratti il melò si trasforma in ghost movie teorico, diventando un rito visivo attraverso l’uso della pellicola, medium che permette a queste presenze di manifestarsi e di dare corpo ad una specie di fantasmagoria cinematografica molto interessante.
Levers, di Rhayne Vermette

Rhayne Vermette è un’artista che ormai da qualche anno è sulla cresta dell’onda del cinema canadese, in cui è approdata attraverso le sue prime opere sperimentali. Dopo vari corti/ collage che riflettono sulla memoria, sull’identità e sul territorio, gira il suo primo lungometraggio, Ste. Anne (2021), con cui riceve riconoscimenti, tra cui l’Amplify Voices Award al TIFF come miglior film canadese. Proprio quest’anno la regista ritorna a Toronto con il suo secondo lungometraggio, dal titolo Levers (2025), che sfrutta elementi post-apocalittici per riflettere su come il quotidiano possa turbare le certezze dell’umanità. Nel narrare le vite di tre personaggi, messe in relazione attraverso un andamento episodico che sfrutta una struttura ispirata ai “maggiori arcani” dei tarocchi, Vermette sfrutta la metafora dell’eclissi per raccontare di una resistenza all’iper-visione, una condizione che porta lo sguardo a sovraccaricarsi attraverso l’uso di immagini ad alta definizione algoritmicamente filtrate, iper-luminose, nitide e immediate. Levers, da questo punto di vista, lavora per contrasto, portandoci in uno stato d’impercettibilità visiva, di deficit, per aprire uno spazio in cui vedere non significa controllare, ma piuttosto accettare il buio, l’invisibile, il non detto. Il film dunque funziona soprattutto nel momento in cui rappresenta una critica materiale all’estetica contemporanea. Se, infatti, da un lato il regime visivo contemporaneo ci chiede sempre più chiarezza, precisione e nitidezza, Vermette insiste su opacità, imperfezione e intermittenza, trasformando la pellicola 16mm in un luogo di resistenza. L’immagine si trasforma, dunque, in un invito a ripensare i limiti del visibile, riflettendo in parte la frammentazione e la saturazione della visione presente nei lavori tardi di uno sperimentatore come Jean-Luc Godard, la cui attitudine dispersiva viene resa in modo analogico attraverso la pellicola, in modo da configurare non una “rottura digitale”, ma un fallimento analogico programmato, che crea spazi di opacità e che apparecchia la resistenza a un’idea di cinema come mera trasparenza narrativa. Levers diventa dunque un’opportunità per resistere alla “dittatura” della nitidezza dell’immagine e per fare, piuttosto, dell’opacità un gesto politico fondamentale, in un mondo sempre di più alle prese con la ricerca della qualità perfetta e dell’immagine “industrializzata” che porta lo spettatore ad essere succube inconsapevole dell’iper-visibilità.
Lovely Day, di Philippe Falardeau

Dicono tutti che il matrimonio è il giorno più importante e felice della vita di tutti, ma nessuno accenna mai alle paure e alle ansie che quell’unico giorno provoca nelle persone. Philippe Falardeau porta al TIFF il suo nuovo lungometraggio Lovely Day nel quale mostra anche le ombre che si celano dietro alle nozze. Alain, interpretato da Neil Elias, si sta preparando a sposare l’amore della sua vita Virginie (Rose-Marie Perreault) ma nonostante la gioia, in lui si insinuano le paure che tutto vada nel verso giusto, soprattutto vista la presenza dei genitori divorziati alla cerimonia. Falardeau scompone il classico film sui matrimoni trasformandolo in una storia di vita. Attraverso Alain, il regista canadese ci mostra come sia crescere in Quebec in una famiglia araba, a cavallo tra due culture. Non solo, è interessante vedere come viene affrontata il tema della malattia, infatti Alain soffre del morbo di Chron, condizione che non gli permette di vivere come gli altri, ma non a causa dei sintomi fisici come si potrebbe pensare, ma sono le paure che gli hanno trasmesso i genitori a portarlo a vivere in maniera invalidante per certi aspetti la sua condizione. Falardeau in questo film gioca col tempo accrescendo sempre più la curiosità dello spettatore nello scoprire i vari flashback, ma soprattutto a far vivere al pubblico la stessa tensione di Alain per il suo giorno speciale. Il film nonostante sia perfettamente composto e presenti una serie di personaggi straordinari, a partire dai genitori di Alain, Yolande e Elias – interpretati magistralmente da Hiam Abou Chedid e Georges Khabbaz –, non sempre funziona, a discapito della parte comica che viene schiacciata soprattutto dall’interpretazione di Neil Elias che rimane fin troppo serio. Non si viene quindi a creare la risata che scaturisce da una situazione seria perché assurda. Questa però non è del tutto un aspetto negativo del film. Falardeau infatti non ci mostra l’assurdo del reale che spesso suscita la risata, ma ci mostra le difficoltà di un giovane ragazzo nel lasciarsi andare e ad accettare non solo l’amore degli amici, ma soprattutto ad accettare e perdonare dei genitori, che anche se imperfetti sono pur sempre l’origine di tutto.
The Cost of Heaven, di Mathieu Denis

Mathieu Denis è uno dei nomi più noti del contemporaneo cinema canadese. Ex collaboratore di Xavier Dolan, il lavoro di Denis è contraddistinto da uno sguardo caustico sulle dinamiche della società contemporanea. Con The cost of heaven propone il ritratto della discesa negli abissi di un uomo comune, Nacer (Samir Guesmi), a causa di una serie di investimenti fallimentari. Ci sono tanti nervi scoperti nel film di Denis, che il regista tocca con una precisione chirurgica. Il primo: Nacer è un arabo che in Canada è riuscito a costruire una famiglia, ha un lavoro tranquillo che lo fa guadagnare abbastanza bene, ha una bella moglie, tre bei figli, una bella casa e una comunità di amici - anch’essi arabi - che gli vuole bene e lo rispetta. Il secondo: Nacer manda i propri figli in una scuola prestigiosa frequentata dall’elite di Montrèal. Elìte a cui l’uomo sogna di appartenere, ma a cui non appartiene. Il terzo: tutto ciò che fa Nacer, apparentemente, lo fa per la propria famiglia. Tutto viene messo in chiaro nei primi minuti del film, con una sequenza magistrale in cui, durante una cena, Nacer finge una chiamata all’ufficio di Babbo Natale chiedendo di mettere da parte una serie di regali costosi per i membri della sua famiglia. L’abilità di Denis è quella di dipingere la catabasi di Nacer, una progressiva discesa negli inferi (contraltare del paradiso che dà il titolo al film) che lo porta vicino a una regressione allo stato bestiale pur di avere più soldi, con il ritmo di un thriller. Diverse sono le scene che lasciano lo spettatore senza fiato e, più il punto di non ritorno si avvicina, più cresce la tensione e l’intensità psicologica del film. Sebbene la struttura possa assomigliare a quella di Diamanti grezzi (2019), Mathieu Denis rifiuta la caoticità dei Safdie e l’eccentricità del personaggio di Adam Sandler. All’overlapping e alla camera a mano, preferisce un lavoro intelligente sull’alternanza fra fuoco e fuori fuoco, muovendosi verso una progressiva essenzialità del linguaggio non priva, però, di soluzioni originali. Come se il tormento interiore del proprio protagonista, tutt’altro che esteriore, venisse lentamente interiorizzato dallo stesso linguaggio cinematografico. Non mancano poi metafore - come il gioco di prestigio che ama fare Nacer con le monete - che, anche se esplicite, trovano il giusto spazio in una narrazione gestita con grande equilibrio dal regista. Ultima nota di merito va alla prova di Samir Guesmi. Noto più come comprimario, l’attore francese sfoggia un’interpretazione estremamente convincente e dà corpo, con una prova in sottrazione, a un vinto con cui è difficile non empatizzare.
To the Victory!, di Valentin Vasyanovych

Valentin Vasyanovych è una delle voci più note del contemporaneo cinema ucraino. Regista che si è fatto da sempre narratore del conflitto russo-ucraino iniziato nel 2014 e autore dei celebri Atlantis e Reflection, entrambi presentati a Venezia, porta a Toronto il suo primo film girato dall’allargamento della guerra. Lo fa mantenendo intatto il proprio stile, fatto di rigorosi piani sequenza in campo totale perlopiù a camera fissa, di un montaggio pressoché assente e di un utilizzo estremamente intelligente della dialettica fra campo e fuori campo. I toni cupi di Reflection ed Atlantis - entrambi incentrati su militari di ritorno dalla guerra che soffrono di stress post-traumatico e che non riescono a ricostruire le proprie relazioni familiari - vengono apparentemente distesi. A mettersi in scena è, infatti, il regista stesso e il suo ristretto numero di collaboratori. Come in Atlantis, Vasyanovych colloca nell’immediato futuro - corrispondente alla fine della guerra russo-ucraina - le vicende. To the victory! è dunque una complessa operazione meta-cinematografica che - partendo dall’esperienza autobiografica del regista - mette in scena gli esiti del conflitto sulla tenuta sociale dell’Ucraina. Uno stato in cui sono rimasti solo uomini, con famiglie sparse per tutta Europa, incapaci di portare avanti il proprio paese - nonostante la “vittoria” della guerra. Vasyanovych è molto abile nel tratteggiare un’umanità dimessa, tormentata, fragile. Il suo corpo in scena, testimonianza di un processo umano e artistico a un bivio, garantisce poi un’inaspettata empatia dello spettatore con i suoi tormenti e i suoi drammi (borghesi) individuali. Ecco dunque che la crisi esistenziale ed artistica del regista diventa un ritratto di un paese in una situazione di stallo, di liminalità, di un paese lacerato che - però - deve trovare la forza per andare avanti. Fra sequenze di una brillantezza mai vista nel cinema del regista ucraino e altre che fanno intravedere una certa pigrizia argomentativa, ma che riescono indubbiamente sul piano comico, To the victory! è un film agrodolce. Drammatico, ma non tragico. Umano come non lo sono mai stati i film del regista che pure indagano rapporti familiari segnati dal conflitto. E, inaspettatamente, speranzoso. La magnifica scena finale - anche se suona programmatica - ne è una dimostrazione.