NC-131
28.11.2022
La storia di Pinocchio ha sempre rappresentato una grande fascinazione per l'universo cinematografico. La sua ambivalenza nel rappresentare i confini tra il male e il bene e quel suo essere una novella morale camuffata da fiaba per bambini, hanno da sempre isolato questa narrazione da altri celebri racconti dell’infanzia. Collodi la scrisse a puntate - uscite tra il 1881 e il 1882 - pervadendola di un’atmosfera romantico-decadente. È ovvio che, con la nascita della settima arte, questo tono così inconsueto abbia ispirato generazioni di cineasti. Dalla prima trasposizione di Giulio Antamoro (1911) al capolavoro disneyano (1940), dalla versione di Giannetto Guardone (1947) a quella di Giuliano Cenci (1971), per poi passare attraverso l’immaginario di Luigi Comencini (1972), Roberto Benigni (2002), Enzo D’Alò (2012), Matteo Garrone (2019) e Robert Zemeckis (2022), Pinocchio è sempre stato un topos immortale. L’interrogativo che a questo punto viene a presentarsi è: come poter riproporre un intreccio narrato e rinarrato? La risposta ce la dà Guillermo del Toro: reimmaginandolo completamente. Il cineasta, che negli ultimi due decenni ha manifestato un inarrestabile talento visionario, raccoglie il guanto della sfida e si imbarca in una nuova versione in stop-motion del celebre romanzo collodiano. Il lungometraggio, prodotto da Netflix, uscirà il 4 dicembre nelle sale - per un periodo limitato - per poi approdare, cinque giorni dopo, sulla piattaforma streaming. Attraverso tre brevi spunti - tranquilli non faremo spoiler, vogliamo che la pellicola vi sorprenda - illustreremo perché sarebbe un vero peccato lasciarselo sfuggire.
Lo stravolgimento della storia
Del Toro prende il plot originale e lo distrugge in mille pezzi, lasciando di Pinocchio solo dei minuscoli frammenti che, fluttuando in un nuovo universo, servono da coordinate generali per imbarcarsi in un’inedita chiave di lettura. Il periodo diviene specifico e non più, come era all’origine, sfumato e perso nel tempo: sono gli anni che intercorrono, e attraversano, il primo e il secondo conflitto mondiale, quando il fascismo asfissiava le menti. Questa scelta, non di certo lasciata al caso, racchiude in sé il significato portante dell’opera: il diritto di provare empatia in un mondo che sta cadendo a pezzi. In questo modo la storia si arricchisce di nuovi insegnamenti, tematiche, punti di vista, fungendo da parabola della modernità e comunicando, come Collodi parlava al pubblico letterario di allora, con il linguaggio e la consapevolezza del presente. È così che, stravolgendo ogni cosa, del Toro fortifica, e rinnova, una trama già sentita. Anche i personaggi subiscono una grande trasformazione: molti di essi vengono totalmente eliminati e i superstiti assumono nuove forme - geniale è la reinvenzione della fata turchina, spaccata in due entità semi-divine che rimandano ad antichi culti della natura - brillando di una luce differente. Muta anche la stessa origine del protagonista - resa magnificamente in una sequenza, a tratti orrorifica, che sembra omaggiare il Frankenstein di James Whale (1931) - non più nato da un magico pezzo di legno parlante ma frutto dell’elaborazione di un dolore.
Una fiaba stratificata
Il regista messicano ha sempre dimostrato, attraverso il suo verbo cinematografico, una propensione all’universo favolistico - emblematici sono in questo senso El espinazo del diablo (La spina del diavolo, 2001), El laberinto del fauno (Il labirinto del fauno, 2006), Crimson Peak (2015), The shape of water (La forma dell’acqua, 2017) - un universo dove, però, la favola non è mai fine a se stessa. Pur essendo totalmente caratterizzati da una «poetica del surreale», i suoi lavori portano in loro una profonda consapevolezza d’intenti: servirsi del simbolico e dell’allusivo per parlare delle mille sfaccettature della realtà. Ed è proprio quello che del Toro compie ancora una volta. Servendosi dell’immagine animata, l’autore si astrae ulteriormente dai fatti concreti per giungere in una dimensione dove ogni cosa diviene metafora. Con un tono dalla cadenza delicata si parla di morte e del vuoto che essa si porta dietro, del prezzo dell’esistenza, e del valore di una vita breve ma piena.
Il reparto creativo
Succede spesso che i grandi filmmaker della modernità si cimentino nell’animazione in stop-motion. Se solo pensiamo alla coppia Tim Burton - Corpse Bride (La sposa cadavere, 2005), Frankenweenie (2012) - Henry Selick - Tim Burton’s Nightmare Before Christmas (Nightmare Before Christmas, 1993), Coraline (Coraline e la porta magica, 2009) - a Wes Anderson - Fantastic Mr. Fox (2009), Isle of Dogs (L’isola dei cani, 2018) - o Charlie Kaufman - Anomalisa (2015) - ci renderemo facilmente conto di come questa tecnica sia divenuta un mezzo per esprimere appieno una visione autoriale. Grazie al totale controllo esercitato sulla messa in scena, i registi hanno così l’opportunità di esprimere in tutto e per tutto il loro mondo, costruendo, pezzo dopo pezzo, le immagini che poi passeranno sul grande schermo. Per creare Pinocchio del Toro si avvale di un team di veri artisti, dall’aiuto alla regia di Mark Gustafson - professionista della stop motion - alla sceneggiatura firmata a quattro mani con Patrick McHale, dalla fotografia di Frank Passingham fino alle musiche di Alexandre Desplat. Indimenticabile è anche il cast che presta le voci ai personaggi: dal piccolo Gregory Mann - Pinocchio - a Ewan McGregor - il grillo parlante - da David Bradley - mastro Geppetto - a Tilda Swinton - la fata - fino ad arrivare a Christoph Waltz, Cate Blanchett, Finn Wolfhard, Ron Perlman e John Turturro nelle vesti di nuovi, o rivisitati, personaggi. C’è già chi vocifera di una possibile nomination agli Oscar 2023, non solo per la categoria del miglior film d’animazione, ma anche per quella di miglior film dell’anno. In qualunque modo andrà rimane indubbio che il Pinocchio di Guillermo del Toro sia un’operazione di rilettura portata avanti con incredibile estro, un’opera struggente e sentita fino all’ultimo fotogramma.
NC-131
28.11.2022
La storia di Pinocchio ha sempre rappresentato una grande fascinazione per l'universo cinematografico. La sua ambivalenza nel rappresentare i confini tra il male e il bene e quel suo essere una novella morale camuffata da fiaba per bambini, hanno da sempre isolato questa narrazione da altri celebri racconti dell’infanzia. Collodi la scrisse a puntate - uscite tra il 1881 e il 1882 - pervadendola di un’atmosfera romantico-decadente. È ovvio che, con la nascita della settima arte, questo tono così inconsueto abbia ispirato generazioni di cineasti. Dalla prima trasposizione di Giulio Antamoro (1911) al capolavoro disneyano (1940), dalla versione di Giannetto Guardone (1947) a quella di Giuliano Cenci (1971), per poi passare attraverso l’immaginario di Luigi Comencini (1972), Roberto Benigni (2002), Enzo D’Alò (2012), Matteo Garrone (2019) e Robert Zemeckis (2022), Pinocchio è sempre stato un topos immortale. L’interrogativo che a questo punto viene a presentarsi è: come poter riproporre un intreccio narrato e rinarrato? La risposta ce la dà Guillermo del Toro: reimmaginandolo completamente. Il cineasta, che negli ultimi due decenni ha manifestato un inarrestabile talento visionario, raccoglie il guanto della sfida e si imbarca in una nuova versione in stop-motion del celebre romanzo collodiano. Il lungometraggio, prodotto da Netflix, uscirà il 4 dicembre nelle sale - per un periodo limitato - per poi approdare, cinque giorni dopo, sulla piattaforma streaming. Attraverso tre brevi spunti - tranquilli non faremo spoiler, vogliamo che la pellicola vi sorprenda - illustreremo perché sarebbe un vero peccato lasciarselo sfuggire.
Lo stravolgimento della storia
Del Toro prende il plot originale e lo distrugge in mille pezzi, lasciando di Pinocchio solo dei minuscoli frammenti che, fluttuando in un nuovo universo, servono da coordinate generali per imbarcarsi in un’inedita chiave di lettura. Il periodo diviene specifico e non più, come era all’origine, sfumato e perso nel tempo: sono gli anni che intercorrono, e attraversano, il primo e il secondo conflitto mondiale, quando il fascismo asfissiava le menti. Questa scelta, non di certo lasciata al caso, racchiude in sé il significato portante dell’opera: il diritto di provare empatia in un mondo che sta cadendo a pezzi. In questo modo la storia si arricchisce di nuovi insegnamenti, tematiche, punti di vista, fungendo da parabola della modernità e comunicando, come Collodi parlava al pubblico letterario di allora, con il linguaggio e la consapevolezza del presente. È così che, stravolgendo ogni cosa, del Toro fortifica, e rinnova, una trama già sentita. Anche i personaggi subiscono una grande trasformazione: molti di essi vengono totalmente eliminati e i superstiti assumono nuove forme - geniale è la reinvenzione della fata turchina, spaccata in due entità semi-divine che rimandano ad antichi culti della natura - brillando di una luce differente. Muta anche la stessa origine del protagonista - resa magnificamente in una sequenza, a tratti orrorifica, che sembra omaggiare il Frankenstein di James Whale (1931) - non più nato da un magico pezzo di legno parlante ma frutto dell’elaborazione di un dolore.
Una fiaba stratificata
Il regista messicano ha sempre dimostrato, attraverso il suo verbo cinematografico, una propensione all’universo favolistico - emblematici sono in questo senso El espinazo del diablo (La spina del diavolo, 2001), El laberinto del fauno (Il labirinto del fauno, 2006), Crimson Peak (2015), The shape of water (La forma dell’acqua, 2017) - un universo dove, però, la favola non è mai fine a se stessa. Pur essendo totalmente caratterizzati da una «poetica del surreale», i suoi lavori portano in loro una profonda consapevolezza d’intenti: servirsi del simbolico e dell’allusivo per parlare delle mille sfaccettature della realtà. Ed è proprio quello che del Toro compie ancora una volta. Servendosi dell’immagine animata, l’autore si astrae ulteriormente dai fatti concreti per giungere in una dimensione dove ogni cosa diviene metafora. Con un tono dalla cadenza delicata si parla di morte e del vuoto che essa si porta dietro, del prezzo dell’esistenza, e del valore di una vita breve ma piena.
Il reparto creativo
Succede spesso che i grandi filmmaker della modernità si cimentino nell’animazione in stop-motion. Se solo pensiamo alla coppia Tim Burton - Corpse Bride (La sposa cadavere, 2005), Frankenweenie (2012) - Henry Selick - Tim Burton’s Nightmare Before Christmas (Nightmare Before Christmas, 1993), Coraline (Coraline e la porta magica, 2009) - a Wes Anderson - Fantastic Mr. Fox (2009), Isle of Dogs (L’isola dei cani, 2018) - o Charlie Kaufman - Anomalisa (2015) - ci renderemo facilmente conto di come questa tecnica sia divenuta un mezzo per esprimere appieno una visione autoriale. Grazie al totale controllo esercitato sulla messa in scena, i registi hanno così l’opportunità di esprimere in tutto e per tutto il loro mondo, costruendo, pezzo dopo pezzo, le immagini che poi passeranno sul grande schermo. Per creare Pinocchio del Toro si avvale di un team di veri artisti, dall’aiuto alla regia di Mark Gustafson - professionista della stop motion - alla sceneggiatura firmata a quattro mani con Patrick McHale, dalla fotografia di Frank Passingham fino alle musiche di Alexandre Desplat. Indimenticabile è anche il cast che presta le voci ai personaggi: dal piccolo Gregory Mann - Pinocchio - a Ewan McGregor - il grillo parlante - da David Bradley - mastro Geppetto - a Tilda Swinton - la fata - fino ad arrivare a Christoph Waltz, Cate Blanchett, Finn Wolfhard, Ron Perlman e John Turturro nelle vesti di nuovi, o rivisitati, personaggi. C’è già chi vocifera di una possibile nomination agli Oscar 2023, non solo per la categoria del miglior film d’animazione, ma anche per quella di miglior film dell’anno. In qualunque modo andrà rimane indubbio che il Pinocchio di Guillermo del Toro sia un’operazione di rilettura portata avanti con incredibile estro, un’opera struggente e sentita fino all’ultimo fotogramma.