di Omar Franini
NC-231
11.09.2024
Lo scorso sabato si è conclusa l’ottantunesima edizione del Festival di Venezia e, come di consueto, è arrivato il momento di trarre le somme e analizzare nel dettaglio non solo i vincitori, ma anche le principali problematiche che hanno caratterizzato la Mostra di quest'anno.
Prima di entrare nel vivo della conversazione sui vincitori, e cercare di capire i fattori che hanno portato la Giuria presieduta da Isabelle Huppert a prendere certe decisioni, è giusto fare un passo indietro per ripercorrere brevemente le vicende che hanno caratterizzato la Sessantaduesima edizione del Festival di Cannes. Nel 2009, infatti, Huppert era a capo della Giuria principale e le sue decisioni, assieme al “regno del terrore” instaurato nei confronti degli altri giurati, fecero discutere sin da subito. Durante il momento delle deliberazioni, Madame la President avrebbe insistito sull’assegnare la Palma d’Oro a Lars Von Trier per Antichrist, una scelta accolta abbastanza positivamente da quasi tutta la Giuria. Nonostante questo “equilibrio generale”, influenzato dall’egemonia dell’attrice francese, pare che due componenti del gruppo non condividessero le decisioni prese per il palmarès, tanto da arrivare ad accese discussioni con la sottoscritta. L’unico dei due giurati contrari che la stampa riuscì ad identificare fu il regista James Gray che, preso dalla disperazione, non solo diede della “fascist b*tch” alla Huppert, ma minacciò anche di boicottare la serata finale. Non ci sono mai state “conferme” su questa vicenda, ma nulla fu mai smentito. L’ipotetica ascia di guerra tra Huppert e Gray fu seppellita dopo qualche anno, quando i due si dichiararono rispetto reciproco - un rispetto che, non a caso, Alberto Barbera ha voluto mettere alla prova prendendo la decisione di inserirli entrambi nella giuria di Venezia 81.
Ma torniamo alle vicende del 2009: alla fine si raggiunse un compromesso e Huppert assegnò la Palma a Das weiße Band (Il Nastro Bianco) di Michael Haneke, cineasta che aveva già collaborato diverse volte con l'iconica attrice. Altri premi degni di nota in quell’edizione furono quelli agli attori: Charlotte Gainsbourg per la sua performance nel già citato film di Von Trier - un “contentino” più che meritato visto il tour de force interpretativo affrontato dell’attrice - e quello a Christoph Waltz per il suo ruolo in Inglourious Basterds (Bastardi senza gloria), una delle migliori vittorie per la categoria nell’intera storia del festival. Anche in questo caso il riconoscimento a Waltz risultò ancora più interessante quando venne diffusa la notizia di un litigio tra la Huppert e Quentin Tarantino; l’attrice doveva infatti partecipare al film in un ruolo minore, ma il forte scontro di personalità tra i due portò il regista ad eliminare completamente il suo ruolo. In questo caso la vittoria dell’attore si potrebbe dunque interpretare come un escamotage per incoronare il film di Tarantino - che era stato tra i più apprezzati di quell’edizione - senza premiare direttamente il cineasta.
Gli ultimi due riconoscimenti che vanno citati sono quelli per la miglior regia a Brillante Mendoza, per il controverso e divisivo Kinatay, e il premio della giuria ad Andrea Arnold per Fish Tank. Il primo conferma ancora la forte influenza della presidente - non a caso Huppert e Mendoza fecero un film assieme, Captive (2012), a meno di tre anni dalla cerimonia - mentre il secondo mostra la tendenza di Huppert nel premiare giovani registe donne dalla forte personalità autoriale - e anche qui, non sorprende il fatto che l’attrice abbia dichiarato un paio di volte la volontà di lavorare con la cineasta britannica.
Quest’analisi riduttiva è essenziale per comprendere come la Giuria, sotto l’attenta guida di Isabelle Huppert, finì per propendere verso determinate scelte, una dinamica dove si possono riscontrare interessanti parallelismi con le decisioni prese durante il corso del Festival di Venezia di quest’anno. Come sappiamo il Leone d’Oro è stato assegnato a The Room Next Door di Pedro Almodóvar, una scelta che pare fosse già nell’aria nei giorni precedenti alla serata di premiazione, poiché era cominciato a circolare il rumor che, una volta visto il film, Huppert abbia immediatamente deciso di consegnargli il premio principale. Che sia stato un parere unanime è ancora da vedere e solo il tempo sarà in grado di dare una risposta. Per il momento, ci stiamo chiedendo se questo Leone d’Oro sia il frutto dell’immenso rispetto che la giuria prova nei confronti di Almodóvar, e che quindi la decisione di assegnargli per la prima volta il riconoscimento più importante in uno dei tre festival europei più rinomati sia stata, di fatto, un’occasione per tributare la sua carriera.
The Room Next Door, il primo lungometraggio in lingua inglese del regista spagnolo, ha ricevuto pareri più che buoni da parte della critica e del pubblico ma non raggiunge nei livelli dei suoi lavori più riusciti ne quelli dei più recenti Madres paralelas (2021) e Dolor y gloria (2019). Quello che rimane è una vittoria storica per l’iconico autore spagnolo che con il Festival ha sempre intrattenuto ottimi rapporti, non a caso i tre film che durante il corso della sua carriera ha presentato in competizione sono sempre stati premiati: nel 1988 vinse il premio alla sceneggiatura per Mujeres al borde de un ataque de nervios (Donne sull’orlo di una crisi di nervi) e nel 2021 Penelope Cruz vinse la Coppa Volpi per il già citato Madres paralelas.
Forse la nostra velata mancanza di entusiasmo è anche dovuta al fatto che speravamo di vedere la vittoria di The Brutalist di Brady Corbet, un’opera colossale che è risultata la migliore del festival. Il film si è dovuto accontentare del premio per la miglior regia, un riconoscimento individuale meritato che sembra accostare l’arco narrativo del protagonista del film - quello di un architetto ungherese emigrato negli Stati Uniti e pronto a tutto pur di difendere la propria visione su un ambizioso progetto architettonico commissionatogli da un avido magnate - con il travagliato viaggio creativo di Corbet. Durante una recente intervista, il cineasta ha infatti raccontato di come ci siano voluti sette anni per completare il film, un periodo caratterizzato da vari scontri in fase di produzione che hanno messo a repentaglio la sua visione.
Una volta sul palcoscenico per ritirare il premio, il regista, visibilmente emozionato, ha rimarcato il fatto che gli artisti hanno bisogno di più libertà per portare avanti i propri progetti. Prendendo in considerazione che il budget del film era poco inferiore ai dieci milioni di dollari, l’operazione compiuta da Corbet è lodevole, sintomo che non sono necessari enormi capitali per produrre un film imponente come The Brutalist. Grazie al successo della première veneziana, il film si candida per essere uno dei cavalli su cui puntare durante la Awards Season, e non stupirebbe vederlo candidato a una dozzina di Academy Awards tra qualche mese.
L'italiana Maura Delpero si è invece classificata al “secondo posto” vincendo il Gran Premio della Giuria per Vermiglio. Ambientato nel 1944, il film narra le vicende di una grande famiglia che vive nell’omonimo paese di Montagna tra momenti di gioia e quelli di estrema miseria. Il trionfo del secondo lungometraggio della cineasta ha sorpreso, infatti non era tra i favoriti alla vigilia della serata delle premiazioni, ma ha comunque stupito in positivo la vittoria di un “cinema non difficile, uno che parla al cuore”, citando le stesse parole di Delpero una volta sul palco.
Discorso opposto per April, l’opera seconda di Dea Kulumbegashvili che si è aggiudicata un Premio Speciale della Giuria. Ancor prima della presentazione ufficiale, si poteva già predire una vittoria per Kulumbegashvili che, di fatto, sarebbe stata una conferma del suo grande talento. Già con l’uscita di Beginning (2020), la sua opera prima, la regista aveva mostrato una certa volontà di sperimentare con la forma cinematografica, ed April non è da meno. La maestria con cui utilizza il piano sequenza, il modo in cui imbastisce i vari simbolismi all’interno della storia e soprattutto la struggente vicenda di una donna che compie aborti illegali in un paesino rurale rendono April una visione impegnativa, controversa e a tratti estenuante, un’opera che fà parlare di se anche dopo aver lasciato la sala.
Le due Coppe Volpi per le migliori interpretazioni sono invece state vinte da Vincent Lindon per Jouer avec le feu e Nicole Kidman per Babygirl, due vittorie che tutto sommato soddisfano, anche se bisogna ammettere che erano presenti un paio di performance ancora più meritevoli. Ci interroghiamo, ancora una volta, su quanto l’influenza di Huppert abbia giocato un ruolo fondamentale in queste decisioni; l’amicizia e il sodalizio con Lindon sono ben risaputi e una volta ritirato il premio l’attore ha ringraziato la presidente di giuria ben cinque volte. L’interpretazione di questi è più che buona e incapsula perfettamente il dramma che sta vivendo il suo personaggio, quello di un padre che è costretto a vedere il figlio unirsi a dei gruppi di estrema destra. Forse avremmo apprezzato di più vedere Daniel Craig per Queer (il grande snobbato della serata finale) o Adrien Brody per The Brutalist calcare lo stage con la Coppa Volpi in mano.
Per quanto riguarda la vittoria di Nicole Kidman, l'attrice non ha potuto ritirare di persona il premio poiché è dovuta partire da Venezia qualche ora prima a causa della triste scomparsa di sua madre. Dopo la cerimonia si è tenuta una breve conferenza stampa dove Isabelle Huppert ha spiegato le motivazioni dietro a tale vittoria; quello che ha stupito la giuria dell’interpretazione di Kidman è stato il modo in cui ha rappresentato la duplice natura del suo personaggio, da una parte una CEO di un’innovativa azienda tecnologia in pieno controllo e dall’altra una donna pronta a rischiare tutto pur di soddisfare i suoi desideri sessuali più remoti. Non a caso, questa descrizione si addice perfettamente anche a una delle interpretazioni più iconiche della Huppert, quella in Elle (2016) di Paul Verhoeven. Con queste due vittorie, sia Nicole Kidman che Vincent Lindon si avvicinano a completare la tripletta dei premi alla recitazione ai tre festival europei principali - all’attrice australiana manca solo quello del Festival di Cannes, mentre a Lindon quello del Festival di Berlino.
Nonostante ciò, è dispiaciuto non vedere la performance attoriale migliore del festival vincere la Coppa Volpi. Stiamo parlando di Fernanda Torres per Ainda estou aqui. Il nuovo film di Walter Salles esplora il trauma di una famiglia sudamericana durante gli anni dei desaparecidos e, più nello specifico, quello della madre Eunice, una volta che il marito scompare dopo che viene portato via per un interrogatorio di “routine”. Il ritratto, complesso ed equilibrato, che riesce a documentare il dolore e la sofferenza di una donna senza scadere in un approccio eccessivamente melodrammatico, ha impressionato sin dalle prime sequenze. Anche se Torres non ha vinto, il film è stato comunque ben accolto dalla giuria che gli ha conferito il premio alla sceneggiatura per l’adattamento dell’omonimo romanzo autobiografico di Marcelo Rubens Paiva, che racconta proprio le vicende della sua famiglia tra il 1971 e il 2015.
Concludiamo la rassegna dei riconoscimenti con quello che ci ha deluso di più, ovvero il Premio Mastroianni, assegnato a un giovane interprete, che ha visto trionfare Paul Kircher per Leurs enfants aprés eux di Ludovic e Zoran Boukherma. Il dramma intergenerazionale francese è risultato uno dei film più deludenti della competizione e i cambiamenti apportati rispetto al romanzo originale non hanno permesso ai registi di esplorare in maniera dettagliata le storie dei giovani protagonisti.
Ne consegue che i tre attori principali non sono riusciti a regalare delle interpretazioni degne di nota, Kircher compreso, e stupisce vedere il talentuoso giovane attore vincere un premio così importante per una delle sue performance meno convincenti. Un premio a Martina Scrinzi, o a tutto il cast giovanile di Vermiglio sarebbe stato più meritevole.
di Omar Franini
NC-231
11.09.2024
Lo scorso sabato si è conclusa l’ottantunesima edizione del Festival di Venezia e, come di consueto, è arrivato il momento di trarre le somme e analizzare nel dettaglio non solo i vincitori, ma anche le principali problematiche che hanno caratterizzato la Mostra di quest'anno.
Prima di entrare nel vivo della conversazione sui vincitori, e cercare di capire i fattori che hanno portato la Giuria presieduta da Isabelle Huppert a prendere certe decisioni, è giusto fare un passo indietro per ripercorrere brevemente le vicende che hanno caratterizzato la Sessantaduesima edizione del Festival di Cannes. Nel 2009, infatti, Huppert era a capo della Giuria principale e le sue decisioni, assieme al “regno del terrore” instaurato nei confronti degli altri giurati, fecero discutere sin da subito. Durante il momento delle deliberazioni, Madame la President avrebbe insistito sull’assegnare la Palma d’Oro a Lars Von Trier per Antichrist, una scelta accolta abbastanza positivamente da quasi tutta la Giuria. Nonostante questo “equilibrio generale”, influenzato dall’egemonia dell’attrice francese, pare che due componenti del gruppo non condividessero le decisioni prese per il palmarès, tanto da arrivare ad accese discussioni con la sottoscritta. L’unico dei due giurati contrari che la stampa riuscì ad identificare fu il regista James Gray che, preso dalla disperazione, non solo diede della “fascist b*tch” alla Huppert, ma minacciò anche di boicottare la serata finale. Non ci sono mai state “conferme” su questa vicenda, ma nulla fu mai smentito. L’ipotetica ascia di guerra tra Huppert e Gray fu seppellita dopo qualche anno, quando i due si dichiararono rispetto reciproco - un rispetto che, non a caso, Alberto Barbera ha voluto mettere alla prova prendendo la decisione di inserirli entrambi nella giuria di Venezia 81.
Ma torniamo alle vicende del 2009: alla fine si raggiunse un compromesso e Huppert assegnò la Palma a Das weiße Band (Il Nastro Bianco) di Michael Haneke, cineasta che aveva già collaborato diverse volte con l'iconica attrice. Altri premi degni di nota in quell’edizione furono quelli agli attori: Charlotte Gainsbourg per la sua performance nel già citato film di Von Trier - un “contentino” più che meritato visto il tour de force interpretativo affrontato dell’attrice - e quello a Christoph Waltz per il suo ruolo in Inglourious Basterds (Bastardi senza gloria), una delle migliori vittorie per la categoria nell’intera storia del festival. Anche in questo caso il riconoscimento a Waltz risultò ancora più interessante quando venne diffusa la notizia di un litigio tra la Huppert e Quentin Tarantino; l’attrice doveva infatti partecipare al film in un ruolo minore, ma il forte scontro di personalità tra i due portò il regista ad eliminare completamente il suo ruolo. In questo caso la vittoria dell’attore si potrebbe dunque interpretare come un escamotage per incoronare il film di Tarantino - che era stato tra i più apprezzati di quell’edizione - senza premiare direttamente il cineasta.
Gli ultimi due riconoscimenti che vanno citati sono quelli per la miglior regia a Brillante Mendoza, per il controverso e divisivo Kinatay, e il premio della giuria ad Andrea Arnold per Fish Tank. Il primo conferma ancora la forte influenza della presidente - non a caso Huppert e Mendoza fecero un film assieme, Captive (2012), a meno di tre anni dalla cerimonia - mentre il secondo mostra la tendenza di Huppert nel premiare giovani registe donne dalla forte personalità autoriale - e anche qui, non sorprende il fatto che l’attrice abbia dichiarato un paio di volte la volontà di lavorare con la cineasta britannica.
Quest’analisi riduttiva è essenziale per comprendere come la Giuria, sotto l’attenta guida di Isabelle Huppert, finì per propendere verso determinate scelte, una dinamica dove si possono riscontrare interessanti parallelismi con le decisioni prese durante il corso del Festival di Venezia di quest’anno. Come sappiamo il Leone d’Oro è stato assegnato a The Room Next Door di Pedro Almodóvar, una scelta che pare fosse già nell’aria nei giorni precedenti alla serata di premiazione, poiché era cominciato a circolare il rumor che, una volta visto il film, Huppert abbia immediatamente deciso di consegnargli il premio principale. Che sia stato un parere unanime è ancora da vedere e solo il tempo sarà in grado di dare una risposta. Per il momento, ci stiamo chiedendo se questo Leone d’Oro sia il frutto dell’immenso rispetto che la giuria prova nei confronti di Almodóvar, e che quindi la decisione di assegnargli per la prima volta il riconoscimento più importante in uno dei tre festival europei più rinomati sia stata, di fatto, un’occasione per tributare la sua carriera.
The Room Next Door, il primo lungometraggio in lingua inglese del regista spagnolo, ha ricevuto pareri più che buoni da parte della critica e del pubblico ma non raggiunge nei livelli dei suoi lavori più riusciti ne quelli dei più recenti Madres paralelas (2021) e Dolor y gloria (2019). Quello che rimane è una vittoria storica per l’iconico autore spagnolo che con il Festival ha sempre intrattenuto ottimi rapporti, non a caso i tre film che durante il corso della sua carriera ha presentato in competizione sono sempre stati premiati: nel 1988 vinse il premio alla sceneggiatura per Mujeres al borde de un ataque de nervios (Donne sull’orlo di una crisi di nervi) e nel 2021 Penelope Cruz vinse la Coppa Volpi per il già citato Madres paralelas.
Forse la nostra velata mancanza di entusiasmo è anche dovuta al fatto che speravamo di vedere la vittoria di The Brutalist di Brady Corbet, un’opera colossale che è risultata la migliore del festival. Il film si è dovuto accontentare del premio per la miglior regia, un riconoscimento individuale meritato che sembra accostare l’arco narrativo del protagonista del film - quello di un architetto ungherese emigrato negli Stati Uniti e pronto a tutto pur di difendere la propria visione su un ambizioso progetto architettonico commissionatogli da un avido magnate - con il travagliato viaggio creativo di Corbet. Durante una recente intervista, il cineasta ha infatti raccontato di come ci siano voluti sette anni per completare il film, un periodo caratterizzato da vari scontri in fase di produzione che hanno messo a repentaglio la sua visione.
Una volta sul palcoscenico per ritirare il premio, il regista, visibilmente emozionato, ha rimarcato il fatto che gli artisti hanno bisogno di più libertà per portare avanti i propri progetti. Prendendo in considerazione che il budget del film era poco inferiore ai dieci milioni di dollari, l’operazione compiuta da Corbet è lodevole, sintomo che non sono necessari enormi capitali per produrre un film imponente come The Brutalist. Grazie al successo della première veneziana, il film si candida per essere uno dei cavalli su cui puntare durante la Awards Season, e non stupirebbe vederlo candidato a una dozzina di Academy Awards tra qualche mese.
L'italiana Maura Delpero si è invece classificata al “secondo posto” vincendo il Gran Premio della Giuria per Vermiglio. Ambientato nel 1944, il film narra le vicende di una grande famiglia che vive nell’omonimo paese di Montagna tra momenti di gioia e quelli di estrema miseria. Il trionfo del secondo lungometraggio della cineasta ha sorpreso, infatti non era tra i favoriti alla vigilia della serata delle premiazioni, ma ha comunque stupito in positivo la vittoria di un “cinema non difficile, uno che parla al cuore”, citando le stesse parole di Delpero una volta sul palco.
Discorso opposto per April, l’opera seconda di Dea Kulumbegashvili che si è aggiudicata un Premio Speciale della Giuria. Ancor prima della presentazione ufficiale, si poteva già predire una vittoria per Kulumbegashvili che, di fatto, sarebbe stata una conferma del suo grande talento. Già con l’uscita di Beginning (2020), la sua opera prima, la regista aveva mostrato una certa volontà di sperimentare con la forma cinematografica, ed April non è da meno. La maestria con cui utilizza il piano sequenza, il modo in cui imbastisce i vari simbolismi all’interno della storia e soprattutto la struggente vicenda di una donna che compie aborti illegali in un paesino rurale rendono April una visione impegnativa, controversa e a tratti estenuante, un’opera che fà parlare di se anche dopo aver lasciato la sala.
Le due Coppe Volpi per le migliori interpretazioni sono invece state vinte da Vincent Lindon per Jouer avec le feu e Nicole Kidman per Babygirl, due vittorie che tutto sommato soddisfano, anche se bisogna ammettere che erano presenti un paio di performance ancora più meritevoli. Ci interroghiamo, ancora una volta, su quanto l’influenza di Huppert abbia giocato un ruolo fondamentale in queste decisioni; l’amicizia e il sodalizio con Lindon sono ben risaputi e una volta ritirato il premio l’attore ha ringraziato la presidente di giuria ben cinque volte. L’interpretazione di questi è più che buona e incapsula perfettamente il dramma che sta vivendo il suo personaggio, quello di un padre che è costretto a vedere il figlio unirsi a dei gruppi di estrema destra. Forse avremmo apprezzato di più vedere Daniel Craig per Queer (il grande snobbato della serata finale) o Adrien Brody per The Brutalist calcare lo stage con la Coppa Volpi in mano.
Per quanto riguarda la vittoria di Nicole Kidman, l'attrice non ha potuto ritirare di persona il premio poiché è dovuta partire da Venezia qualche ora prima a causa della triste scomparsa di sua madre. Dopo la cerimonia si è tenuta una breve conferenza stampa dove Isabelle Huppert ha spiegato le motivazioni dietro a tale vittoria; quello che ha stupito la giuria dell’interpretazione di Kidman è stato il modo in cui ha rappresentato la duplice natura del suo personaggio, da una parte una CEO di un’innovativa azienda tecnologia in pieno controllo e dall’altra una donna pronta a rischiare tutto pur di soddisfare i suoi desideri sessuali più remoti. Non a caso, questa descrizione si addice perfettamente anche a una delle interpretazioni più iconiche della Huppert, quella in Elle (2016) di Paul Verhoeven. Con queste due vittorie, sia Nicole Kidman che Vincent Lindon si avvicinano a completare la tripletta dei premi alla recitazione ai tre festival europei principali - all’attrice australiana manca solo quello del Festival di Cannes, mentre a Lindon quello del Festival di Berlino.
Nonostante ciò, è dispiaciuto non vedere la performance attoriale migliore del festival vincere la Coppa Volpi. Stiamo parlando di Fernanda Torres per Ainda estou aqui. Il nuovo film di Walter Salles esplora il trauma di una famiglia sudamericana durante gli anni dei desaparecidos e, più nello specifico, quello della madre Eunice, una volta che il marito scompare dopo che viene portato via per un interrogatorio di “routine”. Il ritratto, complesso ed equilibrato, che riesce a documentare il dolore e la sofferenza di una donna senza scadere in un approccio eccessivamente melodrammatico, ha impressionato sin dalle prime sequenze. Anche se Torres non ha vinto, il film è stato comunque ben accolto dalla giuria che gli ha conferito il premio alla sceneggiatura per l’adattamento dell’omonimo romanzo autobiografico di Marcelo Rubens Paiva, che racconta proprio le vicende della sua famiglia tra il 1971 e il 2015.
Concludiamo la rassegna dei riconoscimenti con quello che ci ha deluso di più, ovvero il Premio Mastroianni, assegnato a un giovane interprete, che ha visto trionfare Paul Kircher per Leurs enfants aprés eux di Ludovic e Zoran Boukherma. Il dramma intergenerazionale francese è risultato uno dei film più deludenti della competizione e i cambiamenti apportati rispetto al romanzo originale non hanno permesso ai registi di esplorare in maniera dettagliata le storie dei giovani protagonisti.
Ne consegue che i tre attori principali non sono riusciti a regalare delle interpretazioni degne di nota, Kircher compreso, e stupisce vedere il talentuoso giovane attore vincere un premio così importante per una delle sue performance meno convincenti. Un premio a Martina Scrinzi, o a tutto il cast giovanile di Vermiglio sarebbe stato più meritevole.