INT-59
09.03.2024
Quando è stata annunciata la selezione del Festival di Berlino, un paio di film hanno catturato da subito la nostra attenzione. Uno di questi progetti era diretto da un regista proveniente dalla Repubblica Dominicana, la cui opera prima, Cocote (2017), ci aveva affascinato per la sua intrepidezza e ambizione stilistica. Stiamo parlando di Nelson Carlos De Los Santos Arias, che alla Berlinale ha presentato in Competizione Pepe, lungometraggio con cui si è aggiudicato il premio per la Miglior Regia. Questa vittoria ha segnato una chiara volontà, da parte della giuria, di premiare un cinema giovane, che osa e tenta di rivoluzionare il linguaggio cinematografico moderno.
Pepe segue le vicende di uno dei tre ippopotami che Pablo Escobar esportò dall’Africa per arricchire il proprio zoo privato. Il film inizia dalla conclusione della “storia” dell’animale che, una volto ucciso da alcuni militanti, inizierà a raccontare a ritroso la sua esistenza, una vita che si può narrare solo attraverso “l’esperienza altrui”. La forte natura sperimentale dell'opera, e l’utilizzo di un punto di vista assai peculiare, costruiscono un’allegria politica che esprime alla perfezione il disagio di una Nazione. Questa serie di elementi estetico-narrativi riescono a sorprendere e ammaliare alla perfezione il pubblico.
Al Festival di Berlino abbiamo avuto il piacere di intervistare Nelson Carlos De Los Santos Arias, che ci ha parlato dell'importanza di realizzare un film che vada oltre il concetto tradizionale di narrativa, dei danni che alcuni servizi streaming stanno arrecando verso il cinema locale indipendente e, infine, di come è stato lavorare con degli ippopotami.
Vorrei cominciare questa conversazione parlando dell’affascinante mix tra fiction e documentario che sei riuscito a creare. Come definiresti Pepe? A quale genere cinematografico appartiene?
Il genere di Nelson (il regista scoppia a ridere, n.d.r.)! All’inizio non avevo le risorse per fare il tipo di cinema che volevo, dovevo adattarmi, ma con il passare del tempo, i miei progetti hanno iniziato ad essere selezionati ai Festival e mi sono reso conto che dovevo trovare la mia identità all’interno di questo panorama cinematografico. Quando avevo 24/25 anni ho iniziato a leggere dei trattati sulla teoria del postcolonialismo, come quelli di Rita Segato, Frantz Fanon e Jamaica Kincaid, argomenti che mi hanno sempre affascinato. Nello specifico ero molto interessato al concetto di métissage (processi di acculturazione che modificano l’identità collettiva di una nazione, n.d.r.), e ho notato come non fosse semplicemente un principio biologico legato alla razza nel mio paese, così ho iniziato a pensare a come si potesse costruire una certa estetica cinematografica legata ad esso. Puoi trattare questo argomento sia dal punto di vista biologico che politico ed è quello che fece il saggista francese Édouard Glissant con Poétique de la relation (1990). A quel punto mi sono reso conto che dovevo iniziare a mixare diverse tematiche e generi per raccontare il tipo di storie che volevo. Un altro aspetto importante era quello della dominazione della soggettività e come questa funzioni solo quando si riesce a creare una certa omogeneità nelle persone. Nel senso, ormai ogni nazione è, più o meno, “americanizzata” e questo è dovuto alla produzione di quella soggettività che condiziona e omogeneizza la gente. Ma c’è ancora speranza, c’è una “lotta” per preservare la diversità e la pluralità, e questa eterogeneità può portare alla creazione di nuove immagini e forme d'arte ad esempio. Non sto parlando di generi in questo caso. Anche se sono un regista che cura nel dettaglio certi aspetti della mise en scène, non ho mai costruito un sistema totalitario nella lavorazione dei miei film. Facendo un esempio… pensa ad Hollywood, ogni aspetto è così pianificato e ormai vige la “dittatura” della sceneggiatura e della trama, e la mise en scène deve sempre essere in funzione della narrativa.
Parlando di questo totalitarismo cinematografico, non posso non pensare alle piattaforme streaming, ormai sono presenti in molte case e condizionano la routine cinefila delle persone. Credi che farai mai un film per questi servizi?
No no… ma perché non mi prenderebbero mai (il regista ride, n.d.r.)! Sai, i prodotti per i servizi streaming hanno una certa estetica, e non importa da dove vieni, se vuoi lavorare con loro, devi seguire certe linee direttive che rispecchiano l’estetica che vogliono. Ora dirò un’altra cosa e spero tu la inserirai nell’intervista. Le piattaforme streaming conquistano la soggettività: la mia cara Lucrecia Martel decantava il periodo cinematografico tra gli anni ‘60/‘70 proprio perché c’era uno stile libero, che andava oltre alla narrativa, mentre oggi, la trama ha troppa importanza in questi progetti. Non mi nascondo dal fatto che guardo anche io alcune serie prodotte da loro… ti tengono sulle spine per anni e poi appare il classico “what’s going to happen next?”. E questo è un problema strettamente legato alla narrativa, ma ce n'è uno più grosso. Queste compagnie stanno distruggendo il cinema locale, vengono nei nostri paesi perché produrre certi contenuti costa meno rispetto agli Stati Uniti. Questo è colonialismo. Queste grandi corporazioni vanno in paesi poveri solo per sfruttare la manodopera a buon mercato. I registi indipendenti devono combattere questa battaglia da soli, anche perché il governo riceve cospicue somme di denaro, di sicuro non guadagnano soldi da Pepe. Ovviamente, Pepe è stato a Berlino e l’ambasciata era presente, hanno fatto le loro fotografie alla première e mi va bene perché alla fine lo hanno fatto per ragioni economiche. Poi c’è anche il problema di trovare persone che ti aiutano, perché queste corporazioni producono tanti contenuti e magari vengono in Repubblica Dominicana a lavorare per mesi. Mi è già capitato di sentire gente che mi diceva che avrebbe amato partecipare a Pepe ma che non poteva perché “la lavorazione del tuo film durerà solo quattro settimane, mentre loro mi danno lavoro per sette mesi e ho una famiglia da mantenere.” Ovviamente capisco molto bene certe motivazioni.
Passando ora a Pepe, visti i tuoi commenti, volevo chiederti se avevi già in mente una “trama” prima di iniziare la lavorazione? Come è evoluto il film durante le riprese?
Non proprio, è un discorso complesso. Il mio processo di scrittura consiste in una lunga fase di ricerca ed investigazione antropologica ed etnografica. Passo molto tempo sulle location in cui dobbiamo girare e in alcuni casi iniziò a vivere in certi territori, come se fossi un documentarista. Ho imparato molto dal mondo dei documentari, perché non dovrei usufruire di determinate lezioni che quella tipologia di cinema ti offre per fare un film di finzione? Per quanto riguarda la trama, è legata a una certa argomentazione, come ad esempio, cosa è successo a questi corpi? E a queste persone? Cosa pensano? Quando ho introdotto certi personaggi nel film, come quello di Candelario, mi hanno chiesto come fossi riuscito a creare questo mondo così reale ma allo stesso tempo così cinematografico. Hai visto il film e puoi notare che ha un certo linguaggio cinematografico, soprattutto attraverso i movimenti di camera. Amo il cinema e mi sono chiesto come potessi interagire con questo mondo. Come posso rappresentare una situazione così precaria da un punto di vista cinematografico quando il linguaggio appartiene per lo più alle grandi produzioni pronte a spendere un milione di dollari per una sola sequenza? E questa durerà solamente dieci secondi massimo (il regista sogghigna, n.d.r.).
Però avrai dato qualche direzione agli attori immagino.
Oh si certamente, anzi rimarrai sorpreso da quello che ti dirò: nonostante la natura sperimentale di Pepe, e anche quella di Cocote, i film sono stati pianificati nei minimi dettagli. Se ti dessi in mano la sceneggiatura di Pepe rimarresti davvero sorpreso.
Quindi hai già in mente cosa girare sul set, non modifichi mai la sceneggiatura?
No, non lo faccio mai. Forse inserisco delle scene che improvviso, ma la sceneggiatura iniziale non subisce mai modifiche, soprattutto i dialoghi perché lavoro con non professionisti e li devo “proteggere”. Sono persone vulnerabili e, se ad un primo istante sembrano entusiasti di lavorare con me, quando arrivava la crew cinematografica diventano timidi e a tratti impauriti da tutto ciò che li circonda. Di solito, se c’è qualche aggiustamento da fare, lo si effettua durante la fase di rehearsal, ma provo a non farlo perché una volta che gli attori prendono confidenza con i dialoghi, cerco di non metterli in una difficoltà ulteriore. L’importante è raggiungere quel momento dove i non attori riescono a comprendere che devono recitare e, al tempo stesso, interpretare se stessi. Quando si raggiunge quel punto posso ragionare se fare qualche modifica, ma per la maggior parte dei casi la sceneggiatura rimane invariata. Inoltre, la fase di montaggio non dura molto, ho già in mente il tipo di film che voglio fare.
Sempre su questo argomento e sulla tua volontà di non seguire una narrativa tradizionale, immagino che i cambi tra colore/bianco e nero e di formato non abbiano uno scopo metaforico all’interno dell’opera. Sto sbagliando?
No affatto. Di solito, se c’è un cambio di formato, colore, o anche di stile recitativo, questo è dettato da una certa “scelta estetica” legata alla narrativa del film, ma il mio modo di lavorare è più filosofico. Siccome volevo rappresentare questo métissage, questa idea barocca, dovevo operare su un altro livello e prendere certe decisioni. E, visto che il film ti è piaciuto, posso dire che questa eterogeneità in qualche modo ha funzionato. Quando stavo lavorando alla storia, inconsciamente avevo in mente l’estetica, la texture e l’uso delle luci di alcune sequenze. Il pubblico può interpretare queste scelte come vuole, e questo è piuttosto interessante, sono focalizzato nell’esplorare, e comprendere, i diversi punti di vista che una persona può avere su questo film.
A questo punto, mi sembra doveroso chiederti come mai hai i scelto un ippopotamo come protagonista della tua storia.
Quello che mi ha colpito era il fatto che era una delle prime volte che questa specie veniva trasportata fuori dall’Africa. Se fosse successo con un elefante, avrei scelto quello. Ero attratto dal fatto che Pablo Escobar avesse portato tre ippopotami, giaguari, giraffe… tutti questi animali esotici. Molti di questi morirono perché non furono in grado di adattarsi ad un nuovo habitat, ma gli ippopotami resistettero e diventarono la prima razza selvatica di origine africana a sopravvivere all’infuori del continente. È questo fatto che ha giustificato la mia scelta di raccontare questa “favola” sulla storica migrazione di questo animale.
All’inizio del film c’è una sequenza ambientata in un safari negli anni ‘80/‘90 e vediamo due guide turistiche, una tedesca e una locale, parlare degli animali presenti. Come mai hai deciso di inserire questa scena?
Vengo dalla Repubblica Domenicana, una nazione dove c’è molto turismo e credo che questo sia in qualche modo un’estensione di quella struttura coloniale che citavo all’inizio. L’idea delle due guide e il fatto di dover tradurre una cultura e dei racconti mi ha affascinato molto, perché come puoi vedere questi aspetti vengono semplificati per far sì che gli altri capiscano. Questo film è incentrato sul problema dell’ “altro”. Pepe è qualcun’altro per diverse persone, Betania è qualcun altro per Candelario e così via. La timeline del film inizia nel 1991, l’anno in cui gli ippopotami arrivano in Colombia. Non rispetto una narrativa tradizionale, quindi quello che vedi potrebbe essere vero o no, ma ho deciso di cominciare il film con questo “rapimento” dalla Namibia. Non conosco molto questo paese è non avevo nemmeno il tempo per approfondire meglio la sua storia e le sue tradizioni. Ho optato di ambientare la scena in Namibia durante l’apartheid, che ha rappresentato uno dei modi più crudeli per separare le persone a seconda della razza e della gerarchia sociale. Anche se questi paesi del terzo mondo non sono più colonizzati, il ruolo dei colonizzatori è stato preso dai turisti. “Oh, guarda l’Africa”, oppure “Che bello, andiamo nella giungla” sono frasi che ho già sentito più volte. Ho voluto utilizzare la mia esperienza sull’argomento, ho vissuto in Santo Domingo e nella Ciudad Colonial, e in ogni distretto o quartiere c’era una guida turistica che spiegava i diversi fatti storici legati ai monumenti. Ho preso un elemento di una nazione che non conosco e l’ho analizzato attraverso le lenti di qualcosa che conosco.
Pepe mostra l’intervento dell’uomo su un habitat naturale e l’influenza, per lo più negativa, che ha sulla fauna, e tu hai voluto raccontare questa storia dando voce ad un animale. Come mai questa decisione?
Per rispondere a questa domanda bisogna parlare dell'utilizzo della “favola” e del fantastico. Quando si inseriscono tali elementi, si entra in un nuovo genere cinematografico, un genere che riguarda soprattutto il mondo dei bambini e quello della creazione dell’immaginazione. E questo universo, almeno per i bambini di origini latinoamericane, è conquistato dagli Stati Uniti, e più nello specifico dalla Disney, Cartoon Network, Hanna Barbera ed altri. Vorrei ricordare che questo film si intitola per intero “Pepe - Estudio de la imaginación (parte I)”. La storia di Pepe finisce con questo primo capitolo, ma spero di poter realizzare altri film in futuro dove posso riflettere sulla natura dell’immaginazione e come questa sia legata alla produzione cinematografica. E voglio farlo perché credo che l’immaginazione abbia una grande importanza all’interno della mia visione politica del mondo. Al giorno d’oggi c’è una crisi sia filosofica che politica e credo sia dovuta alla mancanza di immaginazione. E con questo intendo la capacità di pensare a nuove forme politiche, che vadano oltre all’eurocentrismo, al capitalismo, al comunismo o al socialismo. Comunque, sin da bambino ho sempre amato la “favola” e il fantastico. Ero così entusiasta di utilizzare un ippopotamo per raccontare una storia e ciò mi ha permesso di mescolare l’aspettò più giocoso della mia immaginazione con quello più serio e politico del film.
Com'è stato lavorare con gli ippopotami? Volevo chiederti quanto essi siano integrati nella vita dell’uomo.
È interessante osservare come la natura riesca sempre a trovare un modo per adattarsi, e questo è incredibile. Quando sono stato in Africa, ho notato che l’uomo non vive vicino agli ippopotami perché sono molto più aggressivi e pericolosi rispetto a quelli del Sud America. È stato piuttosto rischioso girare certe scene e inoltre ho un problema che caratterizza la mia persona sin da quando ero un bambino: non riesco a comprendere quando una situazione è, o sta diventando, pericolosa. Mi spingo sempre al limite e non me ne rendo conto. Poi la notte mi sveglio d’improvviso e penso “Oddio, ma che cosa ho combinato?” ed ho un crollo. È successo tre volte mentre stavo girando Pepe, ho fatto qualcosa di irresponsabile e poi mi svegliavo e pensavo a quanto fossero state pericolose le mie azioni. Poi sai, in Colombia, come in tutto il Sud America, le persone sono riconosciute per il loro essere latini, e quindi “rumorosi”. In questo ambiente gli ippopotami si sono ambientati bene e sono diventati come delle mucche (il regista ride, n.d.r.), sono meno pericolosi e più addomesticabili. Per esempio, uno degli ippopotami che ha “interpretato” Pepe, quello che stava sempre da solo per farti capire, era una creatura fantastica e divertente, apriva e chiudeva la bocca (il regista mima il gesto con le braccia, n.d.r.) per avvertire della sua presenza o per “dire” di non avvicinarsi troppo a lui. Mentre stavo facendo le mie indagini mi trovavo in questo piccolo lago, così ho scattato una fotografia a questo ragazzo che stava nuotando, e vicino a lui c'erano un pesacatore, e sulla riva un gatto e delle galline e infine… un ippopotamo (il regista ride, n.d.r.) ormai sono completamente integrati nell'ambiente naturale e tra la popolazione del luogo. Bisogna solo ricordare che l’habitat degli ippopotami è l’acqua e, infatti, quando si trovano sulla terraferma, diventano più nervosi e pericolosi.
INT-59
09.03.2024
Quando è stata annunciata la selezione del Festival di Berlino, un paio di film hanno catturato da subito la nostra attenzione. Uno di questi progetti era diretto da un regista proveniente dalla Repubblica Dominicana, la cui opera prima, Cocote (2017), ci aveva affascinato per la sua intrepidezza e ambizione stilistica. Stiamo parlando di Nelson Carlos De Los Santos Arias, che alla Berlinale ha presentato in Competizione Pepe, lungometraggio con cui si è aggiudicato il premio per la Miglior Regia. Questa vittoria ha segnato una chiara volontà, da parte della giuria, di premiare un cinema giovane, che osa e tenta di rivoluzionare il linguaggio cinematografico moderno.
Pepe segue le vicende di uno dei tre ippopotami che Pablo Escobar esportò dall’Africa per arricchire il proprio zoo privato. Il film inizia dalla conclusione della “storia” dell’animale che, una volto ucciso da alcuni militanti, inizierà a raccontare a ritroso la sua esistenza, una vita che si può narrare solo attraverso “l’esperienza altrui”. La forte natura sperimentale dell'opera, e l’utilizzo di un punto di vista assai peculiare, costruiscono un’allegria politica che esprime alla perfezione il disagio di una Nazione. Questa serie di elementi estetico-narrativi riescono a sorprendere e ammaliare alla perfezione il pubblico.
Al Festival di Berlino abbiamo avuto il piacere di intervistare Nelson Carlos De Los Santos Arias, che ci ha parlato dell'importanza di realizzare un film che vada oltre il concetto tradizionale di narrativa, dei danni che alcuni servizi streaming stanno arrecando verso il cinema locale indipendente e, infine, di come è stato lavorare con degli ippopotami.
Vorrei cominciare questa conversazione parlando dell’affascinante mix tra fiction e documentario che sei riuscito a creare. Come definiresti Pepe? A quale genere cinematografico appartiene?
Il genere di Nelson (il regista scoppia a ridere, n.d.r.)! All’inizio non avevo le risorse per fare il tipo di cinema che volevo, dovevo adattarmi, ma con il passare del tempo, i miei progetti hanno iniziato ad essere selezionati ai Festival e mi sono reso conto che dovevo trovare la mia identità all’interno di questo panorama cinematografico. Quando avevo 24/25 anni ho iniziato a leggere dei trattati sulla teoria del postcolonialismo, come quelli di Rita Segato, Frantz Fanon e Jamaica Kincaid, argomenti che mi hanno sempre affascinato. Nello specifico ero molto interessato al concetto di métissage (processi di acculturazione che modificano l’identità collettiva di una nazione, n.d.r.), e ho notato come non fosse semplicemente un principio biologico legato alla razza nel mio paese, così ho iniziato a pensare a come si potesse costruire una certa estetica cinematografica legata ad esso. Puoi trattare questo argomento sia dal punto di vista biologico che politico ed è quello che fece il saggista francese Édouard Glissant con Poétique de la relation (1990). A quel punto mi sono reso conto che dovevo iniziare a mixare diverse tematiche e generi per raccontare il tipo di storie che volevo. Un altro aspetto importante era quello della dominazione della soggettività e come questa funzioni solo quando si riesce a creare una certa omogeneità nelle persone. Nel senso, ormai ogni nazione è, più o meno, “americanizzata” e questo è dovuto alla produzione di quella soggettività che condiziona e omogeneizza la gente. Ma c’è ancora speranza, c’è una “lotta” per preservare la diversità e la pluralità, e questa eterogeneità può portare alla creazione di nuove immagini e forme d'arte ad esempio. Non sto parlando di generi in questo caso. Anche se sono un regista che cura nel dettaglio certi aspetti della mise en scène, non ho mai costruito un sistema totalitario nella lavorazione dei miei film. Facendo un esempio… pensa ad Hollywood, ogni aspetto è così pianificato e ormai vige la “dittatura” della sceneggiatura e della trama, e la mise en scène deve sempre essere in funzione della narrativa.
Parlando di questo totalitarismo cinematografico, non posso non pensare alle piattaforme streaming, ormai sono presenti in molte case e condizionano la routine cinefila delle persone. Credi che farai mai un film per questi servizi?
No no… ma perché non mi prenderebbero mai (il regista ride, n.d.r.)! Sai, i prodotti per i servizi streaming hanno una certa estetica, e non importa da dove vieni, se vuoi lavorare con loro, devi seguire certe linee direttive che rispecchiano l’estetica che vogliono. Ora dirò un’altra cosa e spero tu la inserirai nell’intervista. Le piattaforme streaming conquistano la soggettività: la mia cara Lucrecia Martel decantava il periodo cinematografico tra gli anni ‘60/‘70 proprio perché c’era uno stile libero, che andava oltre alla narrativa, mentre oggi, la trama ha troppa importanza in questi progetti. Non mi nascondo dal fatto che guardo anche io alcune serie prodotte da loro… ti tengono sulle spine per anni e poi appare il classico “what’s going to happen next?”. E questo è un problema strettamente legato alla narrativa, ma ce n'è uno più grosso. Queste compagnie stanno distruggendo il cinema locale, vengono nei nostri paesi perché produrre certi contenuti costa meno rispetto agli Stati Uniti. Questo è colonialismo. Queste grandi corporazioni vanno in paesi poveri solo per sfruttare la manodopera a buon mercato. I registi indipendenti devono combattere questa battaglia da soli, anche perché il governo riceve cospicue somme di denaro, di sicuro non guadagnano soldi da Pepe. Ovviamente, Pepe è stato a Berlino e l’ambasciata era presente, hanno fatto le loro fotografie alla première e mi va bene perché alla fine lo hanno fatto per ragioni economiche. Poi c’è anche il problema di trovare persone che ti aiutano, perché queste corporazioni producono tanti contenuti e magari vengono in Repubblica Dominicana a lavorare per mesi. Mi è già capitato di sentire gente che mi diceva che avrebbe amato partecipare a Pepe ma che non poteva perché “la lavorazione del tuo film durerà solo quattro settimane, mentre loro mi danno lavoro per sette mesi e ho una famiglia da mantenere.” Ovviamente capisco molto bene certe motivazioni.
Passando ora a Pepe, visti i tuoi commenti, volevo chiederti se avevi già in mente una “trama” prima di iniziare la lavorazione? Come è evoluto il film durante le riprese?
Non proprio, è un discorso complesso. Il mio processo di scrittura consiste in una lunga fase di ricerca ed investigazione antropologica ed etnografica. Passo molto tempo sulle location in cui dobbiamo girare e in alcuni casi iniziò a vivere in certi territori, come se fossi un documentarista. Ho imparato molto dal mondo dei documentari, perché non dovrei usufruire di determinate lezioni che quella tipologia di cinema ti offre per fare un film di finzione? Per quanto riguarda la trama, è legata a una certa argomentazione, come ad esempio, cosa è successo a questi corpi? E a queste persone? Cosa pensano? Quando ho introdotto certi personaggi nel film, come quello di Candelario, mi hanno chiesto come fossi riuscito a creare questo mondo così reale ma allo stesso tempo così cinematografico. Hai visto il film e puoi notare che ha un certo linguaggio cinematografico, soprattutto attraverso i movimenti di camera. Amo il cinema e mi sono chiesto come potessi interagire con questo mondo. Come posso rappresentare una situazione così precaria da un punto di vista cinematografico quando il linguaggio appartiene per lo più alle grandi produzioni pronte a spendere un milione di dollari per una sola sequenza? E questa durerà solamente dieci secondi massimo (il regista sogghigna, n.d.r.).
Però avrai dato qualche direzione agli attori immagino.
Oh si certamente, anzi rimarrai sorpreso da quello che ti dirò: nonostante la natura sperimentale di Pepe, e anche quella di Cocote, i film sono stati pianificati nei minimi dettagli. Se ti dessi in mano la sceneggiatura di Pepe rimarresti davvero sorpreso.
Quindi hai già in mente cosa girare sul set, non modifichi mai la sceneggiatura?
No, non lo faccio mai. Forse inserisco delle scene che improvviso, ma la sceneggiatura iniziale non subisce mai modifiche, soprattutto i dialoghi perché lavoro con non professionisti e li devo “proteggere”. Sono persone vulnerabili e, se ad un primo istante sembrano entusiasti di lavorare con me, quando arrivava la crew cinematografica diventano timidi e a tratti impauriti da tutto ciò che li circonda. Di solito, se c’è qualche aggiustamento da fare, lo si effettua durante la fase di rehearsal, ma provo a non farlo perché una volta che gli attori prendono confidenza con i dialoghi, cerco di non metterli in una difficoltà ulteriore. L’importante è raggiungere quel momento dove i non attori riescono a comprendere che devono recitare e, al tempo stesso, interpretare se stessi. Quando si raggiunge quel punto posso ragionare se fare qualche modifica, ma per la maggior parte dei casi la sceneggiatura rimane invariata. Inoltre, la fase di montaggio non dura molto, ho già in mente il tipo di film che voglio fare.
Sempre su questo argomento e sulla tua volontà di non seguire una narrativa tradizionale, immagino che i cambi tra colore/bianco e nero e di formato non abbiano uno scopo metaforico all’interno dell’opera. Sto sbagliando?
No affatto. Di solito, se c’è un cambio di formato, colore, o anche di stile recitativo, questo è dettato da una certa “scelta estetica” legata alla narrativa del film, ma il mio modo di lavorare è più filosofico. Siccome volevo rappresentare questo métissage, questa idea barocca, dovevo operare su un altro livello e prendere certe decisioni. E, visto che il film ti è piaciuto, posso dire che questa eterogeneità in qualche modo ha funzionato. Quando stavo lavorando alla storia, inconsciamente avevo in mente l’estetica, la texture e l’uso delle luci di alcune sequenze. Il pubblico può interpretare queste scelte come vuole, e questo è piuttosto interessante, sono focalizzato nell’esplorare, e comprendere, i diversi punti di vista che una persona può avere su questo film.
A questo punto, mi sembra doveroso chiederti come mai hai i scelto un ippopotamo come protagonista della tua storia.
Quello che mi ha colpito era il fatto che era una delle prime volte che questa specie veniva trasportata fuori dall’Africa. Se fosse successo con un elefante, avrei scelto quello. Ero attratto dal fatto che Pablo Escobar avesse portato tre ippopotami, giaguari, giraffe… tutti questi animali esotici. Molti di questi morirono perché non furono in grado di adattarsi ad un nuovo habitat, ma gli ippopotami resistettero e diventarono la prima razza selvatica di origine africana a sopravvivere all’infuori del continente. È questo fatto che ha giustificato la mia scelta di raccontare questa “favola” sulla storica migrazione di questo animale.
All’inizio del film c’è una sequenza ambientata in un safari negli anni ‘80/‘90 e vediamo due guide turistiche, una tedesca e una locale, parlare degli animali presenti. Come mai hai deciso di inserire questa scena?
Vengo dalla Repubblica Domenicana, una nazione dove c’è molto turismo e credo che questo sia in qualche modo un’estensione di quella struttura coloniale che citavo all’inizio. L’idea delle due guide e il fatto di dover tradurre una cultura e dei racconti mi ha affascinato molto, perché come puoi vedere questi aspetti vengono semplificati per far sì che gli altri capiscano. Questo film è incentrato sul problema dell’ “altro”. Pepe è qualcun’altro per diverse persone, Betania è qualcun altro per Candelario e così via. La timeline del film inizia nel 1991, l’anno in cui gli ippopotami arrivano in Colombia. Non rispetto una narrativa tradizionale, quindi quello che vedi potrebbe essere vero o no, ma ho deciso di cominciare il film con questo “rapimento” dalla Namibia. Non conosco molto questo paese è non avevo nemmeno il tempo per approfondire meglio la sua storia e le sue tradizioni. Ho optato di ambientare la scena in Namibia durante l’apartheid, che ha rappresentato uno dei modi più crudeli per separare le persone a seconda della razza e della gerarchia sociale. Anche se questi paesi del terzo mondo non sono più colonizzati, il ruolo dei colonizzatori è stato preso dai turisti. “Oh, guarda l’Africa”, oppure “Che bello, andiamo nella giungla” sono frasi che ho già sentito più volte. Ho voluto utilizzare la mia esperienza sull’argomento, ho vissuto in Santo Domingo e nella Ciudad Colonial, e in ogni distretto o quartiere c’era una guida turistica che spiegava i diversi fatti storici legati ai monumenti. Ho preso un elemento di una nazione che non conosco e l’ho analizzato attraverso le lenti di qualcosa che conosco.
Pepe mostra l’intervento dell’uomo su un habitat naturale e l’influenza, per lo più negativa, che ha sulla fauna, e tu hai voluto raccontare questa storia dando voce ad un animale. Come mai questa decisione?
Per rispondere a questa domanda bisogna parlare dell'utilizzo della “favola” e del fantastico. Quando si inseriscono tali elementi, si entra in un nuovo genere cinematografico, un genere che riguarda soprattutto il mondo dei bambini e quello della creazione dell’immaginazione. E questo universo, almeno per i bambini di origini latinoamericane, è conquistato dagli Stati Uniti, e più nello specifico dalla Disney, Cartoon Network, Hanna Barbera ed altri. Vorrei ricordare che questo film si intitola per intero “Pepe - Estudio de la imaginación (parte I)”. La storia di Pepe finisce con questo primo capitolo, ma spero di poter realizzare altri film in futuro dove posso riflettere sulla natura dell’immaginazione e come questa sia legata alla produzione cinematografica. E voglio farlo perché credo che l’immaginazione abbia una grande importanza all’interno della mia visione politica del mondo. Al giorno d’oggi c’è una crisi sia filosofica che politica e credo sia dovuta alla mancanza di immaginazione. E con questo intendo la capacità di pensare a nuove forme politiche, che vadano oltre all’eurocentrismo, al capitalismo, al comunismo o al socialismo. Comunque, sin da bambino ho sempre amato la “favola” e il fantastico. Ero così entusiasta di utilizzare un ippopotamo per raccontare una storia e ciò mi ha permesso di mescolare l’aspettò più giocoso della mia immaginazione con quello più serio e politico del film.
Com'è stato lavorare con gli ippopotami? Volevo chiederti quanto essi siano integrati nella vita dell’uomo.
È interessante osservare come la natura riesca sempre a trovare un modo per adattarsi, e questo è incredibile. Quando sono stato in Africa, ho notato che l’uomo non vive vicino agli ippopotami perché sono molto più aggressivi e pericolosi rispetto a quelli del Sud America. È stato piuttosto rischioso girare certe scene e inoltre ho un problema che caratterizza la mia persona sin da quando ero un bambino: non riesco a comprendere quando una situazione è, o sta diventando, pericolosa. Mi spingo sempre al limite e non me ne rendo conto. Poi la notte mi sveglio d’improvviso e penso “Oddio, ma che cosa ho combinato?” ed ho un crollo. È successo tre volte mentre stavo girando Pepe, ho fatto qualcosa di irresponsabile e poi mi svegliavo e pensavo a quanto fossero state pericolose le mie azioni. Poi sai, in Colombia, come in tutto il Sud America, le persone sono riconosciute per il loro essere latini, e quindi “rumorosi”. In questo ambiente gli ippopotami si sono ambientati bene e sono diventati come delle mucche (il regista ride, n.d.r.), sono meno pericolosi e più addomesticabili. Per esempio, uno degli ippopotami che ha “interpretato” Pepe, quello che stava sempre da solo per farti capire, era una creatura fantastica e divertente, apriva e chiudeva la bocca (il regista mima il gesto con le braccia, n.d.r.) per avvertire della sua presenza o per “dire” di non avvicinarsi troppo a lui. Mentre stavo facendo le mie indagini mi trovavo in questo piccolo lago, così ho scattato una fotografia a questo ragazzo che stava nuotando, e vicino a lui c'erano un pesacatore, e sulla riva un gatto e delle galline e infine… un ippopotamo (il regista ride, n.d.r.) ormai sono completamente integrati nell'ambiente naturale e tra la popolazione del luogo. Bisogna solo ricordare che l’habitat degli ippopotami è l’acqua e, infatti, quando si trovano sulla terraferma, diventano più nervosi e pericolosi.