

Dal petrolio al filo di seta: un viaggio nel cinema
di Paul Thomas Anderson tra rivoluzioni e silenzi,
di Mario Vannoni
TR-135
04.10.2025
La recente uscita in sala del nuovo film di Paul Thomas Anderson fornisce l’occasione perfetta per (ri)esplorare il cinema dell’autore, in quanto One Battle After Another (Una battaglia dopo l’altra, 2025) rappresenta un po’ - come vedremo - la summa dell’opera andersoniana, una sorta di collante che ridiscute e riarticola i confini della sua filmografia. Una filmografia, quella di Anderson, che è utile suddividere in due parti: da Hard Eight (Sydney, 1996) fino a Magnolia (1999) e da There Will Be Blood (Il petroliere, 2007) fino a Phantom Thread (Il filo nascosto, 2017). In mezzo e in coda ci sono due film, rispettivamente Punch-Drunk Love (Ubriaco d’amore, 2002) e Licorice Pizza (2021), il primo a far da cesura tra le due fasi della carriera del regista e il secondo che si configura come un alleggerimento sperimentale, un film intimo che trasuda passione.
Sin dall’esordio con Hard Eight - prima c’erano stati due cortometraggi, The Dirk Diggler Story del 1988, che sarà la base su cui poi si svilupperà il successivo Boogie Nights (1997), e Cigarettes & Coffee del 1993, con un titolo rovesciato rispetto al film di Jim Jarmusch del 2003 - PTA si è imposto come uno dei grandi registi del cinema americano contemporaneo, narratore di storie dall’afflato epico che vanno a scandagliare i miti fondativi della società statunitense. Non per altro la prima fase della sua filmografia è composta da film (Hard Eight, Boogie Nights e Magnolia) accumunati fondamentalmente da una derivazione di stampo scorsesiano-altmaniano, fatti di grandi affreschi corali che altro non sono se non le molteplici facce del tema che sarà centrale lungo tutta l’opera del regista, ovvero l’ossessione: quella per il gioco e la vincita in Hard Eight, quella per le sostanze, per il sesso e per il successo in Boogie Nights e quella socio-esistenziale in Magnolia.
Proprio quest’ultimo rappresenta il punto d’arrivo di questo primo sviluppo poetico, un caleidoscopio di protagonisti affranti e delusi che cercano di ridare senso alle proprie vite realizzato con un impianto, appunto, altmaniano - in questo senso Magnolia è una versione di Short Cuts (America oggi, 1993) by Paul Thomas Anderson - costituito da pezzi di America disseminati nei caratteri dei personaggi, i quali, messi insieme e ricomposti, danno vita a un quadro più ampio.

Joulianne Moore, una degli interpreti che formano il "quadro umano" di Magnolia (1999)
Questo primo trittico di opere rivela l’indubbio - e, anzi, sorprendente - talento del cineasta, che non ancora trentenne è perfettamente in grado di gestire set giganteschi e lavorare in sinergia con tutti i reparti, spesso collaborandovi attivamente; ma al contempo lo afferma anche come un grandioso sceneggiatore, grazie a uno stile che lo ascrive in tutto e per tutto al novero della grande letteratura americana. Da questo punto di vista le sue storie godono di un respiro novecentesco che rivela una grande fiducia nella narrazione, elemento che gli permette di affrontare i grandi miti del passato con uno sguardo rinnovato, quanto mai critico e ambizioso.
Quest’ultimo aspetto diviene evidente non tanto con l’opera successiva di Anderson (Punch-Drunk Love, su cui torneremo dopo), che rappresenta un vero e proprio spartiacque nella sua filmografia, ma con There Will Be Blood. Con questo film il regista alza l’asticella del suo cinema ed approda a una maturità stilistica che, paradossalmente, lo allontana dall’eleganza quasi classica che aveva contraddistinto i suoi primi lavori in direzione di una forma meno lineare e costruita piuttosto sui vuoti, sulle ellissi, su improvvise eruzioni che contengono il senso profondo della sua poetica. Se (come abbiamo detto) in una prima fase PTA traeva ispirazione dalla coralità scorsesiana e, soprattutto, altmaniana, ora guarda al titanismo di matrice wellesiana-kubrickiana, allontanandosi, seppur solo in parte, dagli affreschi collettivi per concentrarsi su ritratti individuali di uomini - che sono i protagonisti del suo cinema non tanto per una malcelata misoginia ma perché simbolizzano il volto della brutalità a stelle e strisce - messi a confronto con le proprie crisi e idiosincrasie.
Il caso di There Will Be Blood è esemplare in tal senso, a partire da un prologo che rimanda in tutto e per tutto, dalla musica (prima collaborazione con Jonny Greenwood, il quale, da qui in poi, curerà la colonna sonora di tutti i film del regista) alla “nascita” del protagonista Daniel Plainview dalla terra-vagina, a 2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio, Stanley Kubrick, 1968) e che contiene tutti gli elementi che contraddistingueranno il cinema di Anderson a venire: la maestosità scenografica, la rappresentazione icastica di personaggi che incarnano le varie epoche della società americana, l’imbruttimento ai limiti della patologia di questi ultimi e uno stile che si muove agilmente e senza sbavature tra toni e generi molto diversi tra loro. Daniel Plainview (interpretato da uno straordinario Daniel Day-Lewis) è la manifestazione fatta uomo del capitalismo, un essere spietato sul cui modello, nella visione dell’autore, si erige la fondazione della moderna società statunitense.

Paul Dano e Daniel Day Lewis, i "vettori" drammatici di There Will Be Blood (Il petroliere, 2007)
Da qui in poi Anderson inanella una serie di grandi lungometraggi, per non dire capolavori, che confermano la traiettoria intrapresa con There Will Be Blood, che da questo punto di vista rappresenta una sorta di film-radice di tutto le opere successive del regista. The Master (2012) sceglie come protagonista (Joaquin Phoenix) una revisione in chiave contemporanea del Travis Bickle di Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976), a sua volta reduce di guerra affetto da PTSD, ma assegna al co-protagonista (Philip Seymour Hoffman, altro sodale di Anderson presente sin dal suo esordio ma qui al primo ruolo da personaggio principale) la furia rivoluzionaria e anti-sistema che caratterizzava la parabola discendente di De Niro. Lancaster Dodd è un abilissimo manipolatore delle masse ricalcato sulla figura del fondatore di Scientology (nel film la setta è significativamente chiamata “La Causa”) L. Ron Hubbard, uomo senza scrupoli che attira a sé uomini disillusi e in balia di loro stessi - come è d’altronde il protagonista - con la promessa di una lotta per un mondo migliore: una grande menzogna utile solamente all’acquisizione indiscriminata di denaro e all’accrescimento del potere personale del leader, il quale, con il procedere della narrazione, si fa via via più dispotico, sino al limite della riduzione alla sudditanza psicologica dei suoi adepti. Ancora una volta l’interesse di Anderson è mostrarci come il tessuto sociale americano sia facilmente influenzabile da persone di potere che perseguono unicamente fini personali, inducendo i più deboli a sostenere cause di cui non conoscono nemmeno l’obiettivo e, in definitiva, adoperandoli come pedine da muovere a proprio piacimento.
Sarà la complessiva disillusione nei confronti del sogno americano che porta PTA, con il successivo Inherent Vice (Vizio di forma, 2014), a rifugiarsi nella letteratura e in quella dimensione nostalgica propria dell’omonimo romanzo di Thomas Pynchon da cui il film è tratto. Anderson torna agli anni ’70, in quella che rappresenta una delle vette sperimentali della sua filmografia e che al contempo persegue un’idea di cinema “più leggero”, più spensierato, in cui emerge con decisione anche una componente ironica. La pellicola è un progressivo naufragare nella psiche del protagonista Doc Sportello (nuovamente interpretato da Phoenix), il quale, annebbiato dal consumo di varie sostanze psichedeliche, si trova immischiato in una trama noir dai risvolti surreali. Quest’ultima coppia di opere introduce anche il tema della figura femminile, con la quale i protagonisti maschili instaurano sempre un rapporto turbolento e turbato, uno specchio che li costringe a confrontarsi con il proprio io interiore emergendone costantemente sconfitti e frustrati.
E proprio con Phantom Thread il rapporto tra maschile e femminile trova la sua espressione più compiuta. Siamo di fronte a un unicum nella filmografia del regista, in quanto questo è il suo unico film non ambientato negli Stati Uniti; ci troviamo infatti nella Londra degli anni ’50, dove Reynolds Woodcock (ancora Daniel Day-Lewis) è lo stilista più rinomato dell’alta moda inglese. Il segreto del suo successo è una patologica maniacalità che lo porta a tenere sotto stretto controllo ogni aspetto del proprio lavoro ma anche della sua vita privata. A sconvolgere il suo microcosmo arriva Alma Elson (Vicky Krieps), la quale diventa prima sua modella, poi musa ispiratrice e infine compagna e moglie. Tra i due si instaura un rapporto che pone costantemente in discussione le manie di controllo di Woodcock e che si esprime attraverso manifestazioni estreme di pratiche ossessive organizzate secondo un’alternanza tra controllore e oppressore: lui, di indole a dir poco impositiva, sottomette lei, e lei allora lo avvelena (metaforicamente prima, e letteralmente poi), indebolendo le sue difese e assumendo il controllo della sua psiche. Si viene a creare, perciò, una dialettica tossica servo-padrone, in cui tuttavia si trova l’equilibrio tra due personalità complesse che vanno a regolarsi reciprocamente.

La dialettica tossica servo-padrone in Phantom Thread (Il filo nascosto, 2017)
Da questa ricognizione della filmografia di PTA sono rimaste escluse due opere che assumono un ruolo di particolare rilievo all’interno della poetica andersoniana. Il primo è Punch-Drunk Love, che viene dopo Magnolia e prima di There Will Be Blood, fungendo, come sottolineavamo in precedenza, da spartiacque tra le due fasi del cinema dell’autore. Quando fu annunciato, il film venne presentato come una commedia romantica con protagonista Adam Sandler, il che lasciò la stampa perplessa e quasi incredula, perché a nessuno sembrava possibile che Anderson, reduce appunto da Magnolia, opera ambiziosissima e profondamente drammatica, potesse realizzare un lungometraggio di questo tipo.
E invece Punch-Drunk Love è proprio questo: una commedia romantica con Adam Sandler. Ma non solo. È anche il film, assieme a Inherent Vice e a Licorice Pizza, più sperimentale di Paul Thomas Anderson, in cui la tipica ossessività dei suoi protagonisti è declinata su un uomo insicuro - anche in virtù del fatto di essere l’unico maschio in una famiglia di sette sorelle - e perciò paranoico, che veste completi blu elettrico sgargianti con cravatta bordeaux e camicia bianca, pieno di tic a tempo di musica e costitutivamente inadatto alla quotidianità borghese - lo potremmo definire il classico disagiato ma con caratteristiche del tutto peculiari - che si ritrova, suo malgrado e ingenuamente, immischiato in un affare tra gangster in maniera non del tutto dissimile dal Doc Sportello di Inherent Vice (ma senza sostanze psicotrope).
Ciò conferisce alla pellicola un’aura di genuinità passionale, un’atmosfera di divertito benessere mista a una convinta piacevolezza nel fare cinema che la rendono fresca e libera, quasi un divertissement ma girata con la serietà dell’opera matura. E insistiamo sul fatto che sia un film-spartiacque perché segna una cesura netta rispetto al precedente modo di "fare cinema" del regista, ma che è completamente differente rispetto a tutto ciò che viene dopo: una sorta di oggetto non-identificato, e forse proprio per questo così dolce e spontaneo.

PTA e Joaquin Phoenix sul set di Inherent Vice (Vizio di forma, 2014)
Anche Licorice Pizza, l’altro escluso della lista, almeno finora, è un UFO che sfugge alle definizioni. In primo luogo perché unisce l’ambizione “classicista” del primo Anderson allo stile spezzato della seconda fase; poi, perché mette in scena un grande affresco americano ma senza che il commento sociale vada ad oscurare l’integrità della storia, che in buona sostanza è un romance in cui i personaggi si cercano, si trovano per poi perdersi, si rincorrono e, infine, trovano insieme la felicità. Ed è oltremodo interessante la scelta dei protagonisti - lui figlio dell’amico Philip Seymour Hoffman, lei cantante che aveva precedentemente collaborato con Anderson per dei videoclip -, al loro esordio sul grande schermo. Punch-Drunk Love e Licorice Pizza sono accumunati dal fatto che entrambi paiono mettere in pausa lo sviluppo canonico della poetica andersoniana, anche se, in realtà, non fanno che rafforzarla: sperimentali nella forma e girati con un piglio quasi infantile, nel senso nobile del termine, sono dei veri e propri atti d’amore nei confronti della Settima Arte e dell’enorme fiducia che il regista ripone in essa.
Una volta fornito il quadro completo della filmografia di Paul Thomas Anderson - ad eccezione dell’ultimo One Battle After Another, su cui ci soffermeremo in chiusura - si possono svolgere delle osservazioni di ordine più generale, ma una cosa prima di tutte salta subito all’occhio: i suoi film sono una ricognizione della storia americana, dalla sua ideale fondazione sino alla contemporaneità. Tutto inizia nel 1898 di There Will Be Blood, che segna l’alba degli Stati Uniti come patria del capitalismo e del potere conquistato attraverso il sangue - quello degli altri. Daniel Plainview è l’incarnazione del self-made man statunitense, che partito dal niente si è arricchito (grazie a un colpo di fortuna, a ben vedere) e al cui arricchimento si è, quasi fosse un qualcosa di costitutivo, susseguito parallelamente un imbruttimento morale che trasforma in mostro e che schiaccia i più deboli attraverso il potere. Si prosegue poi con The Master, ambientato negli anni ’50 post-Seconda guerra mondiale (periodo in cui gli Stati Uniti hanno ormai affermato il loro potere economico mondiale) e che diventa il territorio ideale per esplorare le conseguenze della guerra sugli uomini e sulla società.
Il protagonista Freddie Quell porta un fardello psicologico che lo rende facilmente irascibile e violento ed è proprio su questa rabbia che attecchisce l’indottrinamento operato su di lui da Lancaster Dodd: anche in questo caso la vera faccia dell’America è quella violenta, abusante e che lascia i propri cittadini in balia delle nevrosi accumulate, nei confronti delle quali l’unica risposta possibile pare essere l’adesione alle ideologie estreme, fino all’autodistruzione. Si prosegue con gli anni ’70 di Inherent Vice, durante la piena affermazione del movimento hippie di cui il protagonista fa parte. A seguito della disillusione nei confronti delle istituzioni, che mandano a morire migliaia e migliaia di uomini nella guerra del Vietnam, la reazione su cui il film si focalizza è la formazione di una società parallela, che, disinteressandosi progressivamente alla politica, si estrania dalla violenza dilagante attraverso l’assunzione di sostanze. Il controcampo di quel periodo lo troviamo nella San Fernando Valley californiana di Licorice Pizza, in cui il commento socio-politico di Anderson sembra messo in pausa per dedicarsi a una storia d’amore tra due ragazzi che, con il loro vagare e inseguirsi, esplorano quel frangente storico, seppur con un piglio decisamente più leggero e disimpegnato.

The Master (2012)
La rappresentazione di un mondo “underground” in seno alla società statunitense, assieme agli eccessi delle droghe, torna centrale anche negli anni a cavallo tra fine ’70 e inizio ’80, periodo di massimo splendore della cosiddetta altra Hollywood (come recita il sottotitolo italiano) protagonista di Boogie Nights. Qui Anderson, per indagare la società dello spettacolo americana, sceglie di concentrarsi su questa sorta di industria sommersa - quella della produzione di film porno - che però riproduce, in tutto e per tutto, le dinamiche della Hollywood istituzionale: eccessi, abusi, speculazioni monetarie, ma anche un’idea produttiva che era ancora capace di inquadrare un genere da sempre considerato minore, il porno appunto, con sguardo artistico e fonte di enormi profitti. Infine si giunge agli anni ’90, ai quali Anderson dedica due film (Punch-Drunk Love, ambientato tra anni ’90 e 2000, fa un po’ da ponte), ovvero Hard Eight e Magnolia, che segnano la sconfitta di un certo tipo di ideale americano e che vedono protagonisti dei personaggi che si lasciano vivere e cercano modi inventivi per farcela, ma ormai completamente estranei al consesso sociale (soprattutto in Hard Eight).
Per la prima volta nella sua carriera PTA, con l’ultimo One Battle After Another, affronta direttamente l’epoca contemporanea - si potrebbe obiettare che lo aveva già fatto con gli ultimi due film di cui abbiamo discusso, ma in quei casi l’ambientazione era più che altro incidentale; mentre in One Battle After Another la scelta di settare la storia ai nostri giorni è deliberata, e ciò è confermato anche dal fatto che il romanzo da cui il film è tratto, Vineland (1990) di Thomas Pynchon, era ambientato - ovviamente, vista la data di uscita - in un altro periodo. Per questo, dopo Licorice Pizza - come dicevamo opera dalle ambizioni decisamente meno politiche rispetto a ciò a cui Anderson ci ha abituati - il ritorno al commento diretto sulla società contemporanea rappresenta una decisa presa di posizione.
Il film narra del gruppo rivoluzionario dei French 75 e si presta bene per una ricapitolazione dei temi centrali del cinema del regista, perché, come dicevamo in apertura, One Battle After Another è quasi una summa della sua poetica. Innanzitutto l’opera recupera la dimensione corale dei primi lavori di Anderson pur concentrandosi, allo stesso tempo, su protagonisti singoli che si alternano occupando il centro dell’azione: Perfidia Beverly Hills, interpretata da Teyana Taylor; Pat Calhoun/Bob Ferguson, interpretato da Leonardo DiCaprio; e Charlene Calhoun/Willa Ferguson, interpretata dall’esordiente Chase Infiniti. Attorno a loro ruota un florilegio di personaggi, ognuno dei quali è perfettamente a fuoco e gode di uno sviluppo chiaro e preciso.
Il film è girato in VistaVision 35mm, un formato recentemente utilizzato da Brady Corbet per il suo monumentale The Brutalist (2024), ma che non veniva impiegato dagli anni ’60, il che costituisce un’altra caratteristica nodale del cinema del regista, ovvero il ricorso praticamente costante alla pellicola, con la quale ha girato tutti i suoi film ad eccezione del primo, per il quale non aveva a disposizione i fondi necessari. Quest’elemento tecnico, unitamente all’utilizzo che ne fa Anderson, dà la misura della fiducia - o forse dovremmo chiamarla fede - che l'autore nutre nei confronti del cinema: una forma artistica per scandagliare il tempo, la storia e le nevrosi della società americana nelle sue varie epoche.

Perfidia Beverly Hills ( Teyana Taylor) il già iconico personaggio di One Battle After Another (Una battaglia dopo l'altra, 2025)
One Battle After Another può essere considerato, da un certo punto di vista, il primo film d’azione di PTA, ma ciò, a ben vedere, rappresenta la naturale evoluzione di una componente fondamentale del suo cinema: il movimento. Ogni sua opera è caratterizzata da personaggi che si spostano senza sosta - la fuga tra un casinò e l’altro in Hard Eight, il vagare degli individui in Magnolia, l’andirivieni nervosamente continuo di Adam Sandler in Punch-Drunk Love, i viaggi psichedelici di Inherent Vice, il continuo inseguirsi dei protagonisti di Licorice Pizza -, quasi a indicare che il movimento sia l’atto costitutivo dell’essere umano. Non è strano, allora, che One Battle After Another spinga con più decisione che mai sull’azione, trasformandosi in un road movie dall’andamento nevrotico.
Tuttavia il film, come sempre in Anderson, non è riducibile a un solo genere ma va piuttosto a mescolarsi ad altri, in un mélange in cui rientrano il melodramma, il comico, il thriller e il surreale, componenti, come abbiamo visto, assolutamente ricorrenti nel suo cinema. Tra tutti, è proprio "l'ingrediente" surreale a dominare il cinema di PTA: in maniera più evidente in pellicole come Inherent Vice o Punch-Drunk Love, ma sotterraneamente presente in tutta la sua filmografia. La cosa sorprendente, in One Battle After Another, è che Anderson affronta la commistione tra generi con un approccio decisamente “pop”: in questo senso è la sua opera più accessibile, un elemento decisivo in un film con una densità di tematiche così sovrabbondante.
Infine, One Battler After Another riporta al centro dell’attenzione quello che è da sempre il tema per eccellenza della poetica andersoniana, ovvero la figura del padre: acquisito, come in Hard Eight, violento e dispotico, come in There Will Be Blood, e nella maggior parte dei casi assente o comunque presente come figura problematica. Anche in quest’ultimo film il rapporto padre-figlia, oltre ad essere la principale fonte del melodramma, è a dir poco travagliato, ma Anderson lo affronta con un approccio inedito, lasciando lo spazio a un lieto fine redentivo che sancisce l’unità familiare come il vero nucleo su cui costruire il futuro.

In conclusione, è opportuno ricordare, tangenzialmente, che Paul Thomas Anderson, oltre ad essere regista di lungometraggi, vanta anche una lunga carriera come autore di videoclip - solo per citare un esempio: Anima (2019), girato assieme al frontman dei Radiohead Thom Yorke.
Come fosse un collage di cortometraggi consequenziali, Anima rappresenta uno degli esiti più alti della sua produzione video - grazie alla quale ha anche saldato rapporti professionali e umani che poi si sono rivelati decisivi per il suo cinema: due su tutti quello con Jonny Greenwood, chitarrista a sua volta dei Radiohead e compositore fisso delle colonne sonore dei film del regista, e quello con Alana Haim, una delle tre sorelle fondatrici della band delle Haim, di cui Anderson ha curato la regia di svariati videoclip.
Insomma, PTA incarna una figura con cui è assolutamente impossibile non confrontarsi quando si parla di cinema moderno/contemporaneo e quando si affronta la questione dell’immaginario odierno: un autore completo, erede della grande letteratura americana e del cinema statunitense della seconda metà del ‘900. Un regista imprescindibile, tra i più grandi del suo tempo e di tutta la Storia del cinema.

Boogie Nights (1997)

Dal petrolio al filo di seta: un viaggio nel cinema
di Paul Thomas Anderson tra rivoluzioni e silenzi,
di Mario Vannoni
TR-135
04.10.2025
La recente uscita in sala del nuovo film di Paul Thomas Anderson fornisce l’occasione perfetta per (ri)esplorare il cinema dell’autore, in quanto One Battle After Another (Una battaglia dopo l’altra, 2025) rappresenta un po’ - come vedremo - la summa dell’opera andersoniana, una sorta di collante che ridiscute e riarticola i confini della sua filmografia. Una filmografia, quella di Anderson, che è utile suddividere in due parti: da Hard Eight (Sydney, 1996) fino a Magnolia (1999) e da There Will Be Blood (Il petroliere, 2007) fino a Phantom Thread (Il filo nascosto, 2017). In mezzo e in coda ci sono due film, rispettivamente Punch-Drunk Love (Ubriaco d’amore, 2002) e Licorice Pizza (2021), il primo a far da cesura tra le due fasi della carriera del regista e il secondo che si configura come un alleggerimento sperimentale, un film intimo che trasuda passione.
Sin dall’esordio con Hard Eight - prima c’erano stati due cortometraggi, The Dirk Diggler Story del 1988, che sarà la base su cui poi si svilupperà il successivo Boogie Nights (1997), e Cigarettes & Coffee del 1993, con un titolo rovesciato rispetto al film di Jim Jarmusch del 2003 - PTA si è imposto come uno dei grandi registi del cinema americano contemporaneo, narratore di storie dall’afflato epico che vanno a scandagliare i miti fondativi della società statunitense. Non per altro la prima fase della sua filmografia è composta da film (Hard Eight, Boogie Nights e Magnolia) accumunati fondamentalmente da una derivazione di stampo scorsesiano-altmaniano, fatti di grandi affreschi corali che altro non sono se non le molteplici facce del tema che sarà centrale lungo tutta l’opera del regista, ovvero l’ossessione: quella per il gioco e la vincita in Hard Eight, quella per le sostanze, per il sesso e per il successo in Boogie Nights e quella socio-esistenziale in Magnolia.
Proprio quest’ultimo rappresenta il punto d’arrivo di questo primo sviluppo poetico, un caleidoscopio di protagonisti affranti e delusi che cercano di ridare senso alle proprie vite realizzato con un impianto, appunto, altmaniano - in questo senso Magnolia è una versione di Short Cuts (America oggi, 1993) by Paul Thomas Anderson - costituito da pezzi di America disseminati nei caratteri dei personaggi, i quali, messi insieme e ricomposti, danno vita a un quadro più ampio.

Joulianne Moore, una degli interpreti che formano il "quadro umano" di Magnolia (1999)
Questo primo trittico di opere rivela l’indubbio - e, anzi, sorprendente - talento del cineasta, che non ancora trentenne è perfettamente in grado di gestire set giganteschi e lavorare in sinergia con tutti i reparti, spesso collaborandovi attivamente; ma al contempo lo afferma anche come un grandioso sceneggiatore, grazie a uno stile che lo ascrive in tutto e per tutto al novero della grande letteratura americana. Da questo punto di vista le sue storie godono di un respiro novecentesco che rivela una grande fiducia nella narrazione, elemento che gli permette di affrontare i grandi miti del passato con uno sguardo rinnovato, quanto mai critico e ambizioso.
Quest’ultimo aspetto diviene evidente non tanto con l’opera successiva di Anderson (Punch-Drunk Love, su cui torneremo dopo), che rappresenta un vero e proprio spartiacque nella sua filmografia, ma con There Will Be Blood. Con questo film il regista alza l’asticella del suo cinema ed approda a una maturità stilistica che, paradossalmente, lo allontana dall’eleganza quasi classica che aveva contraddistinto i suoi primi lavori in direzione di una forma meno lineare e costruita piuttosto sui vuoti, sulle ellissi, su improvvise eruzioni che contengono il senso profondo della sua poetica. Se (come abbiamo detto) in una prima fase PTA traeva ispirazione dalla coralità scorsesiana e, soprattutto, altmaniana, ora guarda al titanismo di matrice wellesiana-kubrickiana, allontanandosi, seppur solo in parte, dagli affreschi collettivi per concentrarsi su ritratti individuali di uomini - che sono i protagonisti del suo cinema non tanto per una malcelata misoginia ma perché simbolizzano il volto della brutalità a stelle e strisce - messi a confronto con le proprie crisi e idiosincrasie.
Il caso di There Will Be Blood è esemplare in tal senso, a partire da un prologo che rimanda in tutto e per tutto, dalla musica (prima collaborazione con Jonny Greenwood, il quale, da qui in poi, curerà la colonna sonora di tutti i film del regista) alla “nascita” del protagonista Daniel Plainview dalla terra-vagina, a 2001: A Space Odyssey (2001: Odissea nello spazio, Stanley Kubrick, 1968) e che contiene tutti gli elementi che contraddistingueranno il cinema di Anderson a venire: la maestosità scenografica, la rappresentazione icastica di personaggi che incarnano le varie epoche della società americana, l’imbruttimento ai limiti della patologia di questi ultimi e uno stile che si muove agilmente e senza sbavature tra toni e generi molto diversi tra loro. Daniel Plainview (interpretato da uno straordinario Daniel Day-Lewis) è la manifestazione fatta uomo del capitalismo, un essere spietato sul cui modello, nella visione dell’autore, si erige la fondazione della moderna società statunitense.

Paul Dano e Daniel Day Lewis, i "vettori" drammatici di There Will Be Blood (Il petroliere, 2007)
Da qui in poi Anderson inanella una serie di grandi lungometraggi, per non dire capolavori, che confermano la traiettoria intrapresa con There Will Be Blood, che da questo punto di vista rappresenta una sorta di film-radice di tutto le opere successive del regista. The Master (2012) sceglie come protagonista (Joaquin Phoenix) una revisione in chiave contemporanea del Travis Bickle di Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976), a sua volta reduce di guerra affetto da PTSD, ma assegna al co-protagonista (Philip Seymour Hoffman, altro sodale di Anderson presente sin dal suo esordio ma qui al primo ruolo da personaggio principale) la furia rivoluzionaria e anti-sistema che caratterizzava la parabola discendente di De Niro. Lancaster Dodd è un abilissimo manipolatore delle masse ricalcato sulla figura del fondatore di Scientology (nel film la setta è significativamente chiamata “La Causa”) L. Ron Hubbard, uomo senza scrupoli che attira a sé uomini disillusi e in balia di loro stessi - come è d’altronde il protagonista - con la promessa di una lotta per un mondo migliore: una grande menzogna utile solamente all’acquisizione indiscriminata di denaro e all’accrescimento del potere personale del leader, il quale, con il procedere della narrazione, si fa via via più dispotico, sino al limite della riduzione alla sudditanza psicologica dei suoi adepti. Ancora una volta l’interesse di Anderson è mostrarci come il tessuto sociale americano sia facilmente influenzabile da persone di potere che perseguono unicamente fini personali, inducendo i più deboli a sostenere cause di cui non conoscono nemmeno l’obiettivo e, in definitiva, adoperandoli come pedine da muovere a proprio piacimento.
Sarà la complessiva disillusione nei confronti del sogno americano che porta PTA, con il successivo Inherent Vice (Vizio di forma, 2014), a rifugiarsi nella letteratura e in quella dimensione nostalgica propria dell’omonimo romanzo di Thomas Pynchon da cui il film è tratto. Anderson torna agli anni ’70, in quella che rappresenta una delle vette sperimentali della sua filmografia e che al contempo persegue un’idea di cinema “più leggero”, più spensierato, in cui emerge con decisione anche una componente ironica. La pellicola è un progressivo naufragare nella psiche del protagonista Doc Sportello (nuovamente interpretato da Phoenix), il quale, annebbiato dal consumo di varie sostanze psichedeliche, si trova immischiato in una trama noir dai risvolti surreali. Quest’ultima coppia di opere introduce anche il tema della figura femminile, con la quale i protagonisti maschili instaurano sempre un rapporto turbolento e turbato, uno specchio che li costringe a confrontarsi con il proprio io interiore emergendone costantemente sconfitti e frustrati.
E proprio con Phantom Thread il rapporto tra maschile e femminile trova la sua espressione più compiuta. Siamo di fronte a un unicum nella filmografia del regista, in quanto questo è il suo unico film non ambientato negli Stati Uniti; ci troviamo infatti nella Londra degli anni ’50, dove Reynolds Woodcock (ancora Daniel Day-Lewis) è lo stilista più rinomato dell’alta moda inglese. Il segreto del suo successo è una patologica maniacalità che lo porta a tenere sotto stretto controllo ogni aspetto del proprio lavoro ma anche della sua vita privata. A sconvolgere il suo microcosmo arriva Alma Elson (Vicky Krieps), la quale diventa prima sua modella, poi musa ispiratrice e infine compagna e moglie. Tra i due si instaura un rapporto che pone costantemente in discussione le manie di controllo di Woodcock e che si esprime attraverso manifestazioni estreme di pratiche ossessive organizzate secondo un’alternanza tra controllore e oppressore: lui, di indole a dir poco impositiva, sottomette lei, e lei allora lo avvelena (metaforicamente prima, e letteralmente poi), indebolendo le sue difese e assumendo il controllo della sua psiche. Si viene a creare, perciò, una dialettica tossica servo-padrone, in cui tuttavia si trova l’equilibrio tra due personalità complesse che vanno a regolarsi reciprocamente.

La dialettica tossica servo-padrone in Phantom Thread (Il filo nascosto, 2017)
Da questa ricognizione della filmografia di PTA sono rimaste escluse due opere che assumono un ruolo di particolare rilievo all’interno della poetica andersoniana. Il primo è Punch-Drunk Love, che viene dopo Magnolia e prima di There Will Be Blood, fungendo, come sottolineavamo in precedenza, da spartiacque tra le due fasi del cinema dell’autore. Quando fu annunciato, il film venne presentato come una commedia romantica con protagonista Adam Sandler, il che lasciò la stampa perplessa e quasi incredula, perché a nessuno sembrava possibile che Anderson, reduce appunto da Magnolia, opera ambiziosissima e profondamente drammatica, potesse realizzare un lungometraggio di questo tipo.
E invece Punch-Drunk Love è proprio questo: una commedia romantica con Adam Sandler. Ma non solo. È anche il film, assieme a Inherent Vice e a Licorice Pizza, più sperimentale di Paul Thomas Anderson, in cui la tipica ossessività dei suoi protagonisti è declinata su un uomo insicuro - anche in virtù del fatto di essere l’unico maschio in una famiglia di sette sorelle - e perciò paranoico, che veste completi blu elettrico sgargianti con cravatta bordeaux e camicia bianca, pieno di tic a tempo di musica e costitutivamente inadatto alla quotidianità borghese - lo potremmo definire il classico disagiato ma con caratteristiche del tutto peculiari - che si ritrova, suo malgrado e ingenuamente, immischiato in un affare tra gangster in maniera non del tutto dissimile dal Doc Sportello di Inherent Vice (ma senza sostanze psicotrope).
Ciò conferisce alla pellicola un’aura di genuinità passionale, un’atmosfera di divertito benessere mista a una convinta piacevolezza nel fare cinema che la rendono fresca e libera, quasi un divertissement ma girata con la serietà dell’opera matura. E insistiamo sul fatto che sia un film-spartiacque perché segna una cesura netta rispetto al precedente modo di "fare cinema" del regista, ma che è completamente differente rispetto a tutto ciò che viene dopo: una sorta di oggetto non-identificato, e forse proprio per questo così dolce e spontaneo.

PTA e Joaquin Phoenix sul set di Inherent Vice (Vizio di forma, 2014)
Anche Licorice Pizza, l’altro escluso della lista, almeno finora, è un UFO che sfugge alle definizioni. In primo luogo perché unisce l’ambizione “classicista” del primo Anderson allo stile spezzato della seconda fase; poi, perché mette in scena un grande affresco americano ma senza che il commento sociale vada ad oscurare l’integrità della storia, che in buona sostanza è un romance in cui i personaggi si cercano, si trovano per poi perdersi, si rincorrono e, infine, trovano insieme la felicità. Ed è oltremodo interessante la scelta dei protagonisti - lui figlio dell’amico Philip Seymour Hoffman, lei cantante che aveva precedentemente collaborato con Anderson per dei videoclip -, al loro esordio sul grande schermo. Punch-Drunk Love e Licorice Pizza sono accumunati dal fatto che entrambi paiono mettere in pausa lo sviluppo canonico della poetica andersoniana, anche se, in realtà, non fanno che rafforzarla: sperimentali nella forma e girati con un piglio quasi infantile, nel senso nobile del termine, sono dei veri e propri atti d’amore nei confronti della Settima Arte e dell’enorme fiducia che il regista ripone in essa.
Una volta fornito il quadro completo della filmografia di Paul Thomas Anderson - ad eccezione dell’ultimo One Battle After Another, su cui ci soffermeremo in chiusura - si possono svolgere delle osservazioni di ordine più generale, ma una cosa prima di tutte salta subito all’occhio: i suoi film sono una ricognizione della storia americana, dalla sua ideale fondazione sino alla contemporaneità. Tutto inizia nel 1898 di There Will Be Blood, che segna l’alba degli Stati Uniti come patria del capitalismo e del potere conquistato attraverso il sangue - quello degli altri. Daniel Plainview è l’incarnazione del self-made man statunitense, che partito dal niente si è arricchito (grazie a un colpo di fortuna, a ben vedere) e al cui arricchimento si è, quasi fosse un qualcosa di costitutivo, susseguito parallelamente un imbruttimento morale che trasforma in mostro e che schiaccia i più deboli attraverso il potere. Si prosegue poi con The Master, ambientato negli anni ’50 post-Seconda guerra mondiale (periodo in cui gli Stati Uniti hanno ormai affermato il loro potere economico mondiale) e che diventa il territorio ideale per esplorare le conseguenze della guerra sugli uomini e sulla società.
Il protagonista Freddie Quell porta un fardello psicologico che lo rende facilmente irascibile e violento ed è proprio su questa rabbia che attecchisce l’indottrinamento operato su di lui da Lancaster Dodd: anche in questo caso la vera faccia dell’America è quella violenta, abusante e che lascia i propri cittadini in balia delle nevrosi accumulate, nei confronti delle quali l’unica risposta possibile pare essere l’adesione alle ideologie estreme, fino all’autodistruzione. Si prosegue con gli anni ’70 di Inherent Vice, durante la piena affermazione del movimento hippie di cui il protagonista fa parte. A seguito della disillusione nei confronti delle istituzioni, che mandano a morire migliaia e migliaia di uomini nella guerra del Vietnam, la reazione su cui il film si focalizza è la formazione di una società parallela, che, disinteressandosi progressivamente alla politica, si estrania dalla violenza dilagante attraverso l’assunzione di sostanze. Il controcampo di quel periodo lo troviamo nella San Fernando Valley californiana di Licorice Pizza, in cui il commento socio-politico di Anderson sembra messo in pausa per dedicarsi a una storia d’amore tra due ragazzi che, con il loro vagare e inseguirsi, esplorano quel frangente storico, seppur con un piglio decisamente più leggero e disimpegnato.

The Master (2012)
La rappresentazione di un mondo “underground” in seno alla società statunitense, assieme agli eccessi delle droghe, torna centrale anche negli anni a cavallo tra fine ’70 e inizio ’80, periodo di massimo splendore della cosiddetta altra Hollywood (come recita il sottotitolo italiano) protagonista di Boogie Nights. Qui Anderson, per indagare la società dello spettacolo americana, sceglie di concentrarsi su questa sorta di industria sommersa - quella della produzione di film porno - che però riproduce, in tutto e per tutto, le dinamiche della Hollywood istituzionale: eccessi, abusi, speculazioni monetarie, ma anche un’idea produttiva che era ancora capace di inquadrare un genere da sempre considerato minore, il porno appunto, con sguardo artistico e fonte di enormi profitti. Infine si giunge agli anni ’90, ai quali Anderson dedica due film (Punch-Drunk Love, ambientato tra anni ’90 e 2000, fa un po’ da ponte), ovvero Hard Eight e Magnolia, che segnano la sconfitta di un certo tipo di ideale americano e che vedono protagonisti dei personaggi che si lasciano vivere e cercano modi inventivi per farcela, ma ormai completamente estranei al consesso sociale (soprattutto in Hard Eight).
Per la prima volta nella sua carriera PTA, con l’ultimo One Battle After Another, affronta direttamente l’epoca contemporanea - si potrebbe obiettare che lo aveva già fatto con gli ultimi due film di cui abbiamo discusso, ma in quei casi l’ambientazione era più che altro incidentale; mentre in One Battle After Another la scelta di settare la storia ai nostri giorni è deliberata, e ciò è confermato anche dal fatto che il romanzo da cui il film è tratto, Vineland (1990) di Thomas Pynchon, era ambientato - ovviamente, vista la data di uscita - in un altro periodo. Per questo, dopo Licorice Pizza - come dicevamo opera dalle ambizioni decisamente meno politiche rispetto a ciò a cui Anderson ci ha abituati - il ritorno al commento diretto sulla società contemporanea rappresenta una decisa presa di posizione.
Il film narra del gruppo rivoluzionario dei French 75 e si presta bene per una ricapitolazione dei temi centrali del cinema del regista, perché, come dicevamo in apertura, One Battle After Another è quasi una summa della sua poetica. Innanzitutto l’opera recupera la dimensione corale dei primi lavori di Anderson pur concentrandosi, allo stesso tempo, su protagonisti singoli che si alternano occupando il centro dell’azione: Perfidia Beverly Hills, interpretata da Teyana Taylor; Pat Calhoun/Bob Ferguson, interpretato da Leonardo DiCaprio; e Charlene Calhoun/Willa Ferguson, interpretata dall’esordiente Chase Infiniti. Attorno a loro ruota un florilegio di personaggi, ognuno dei quali è perfettamente a fuoco e gode di uno sviluppo chiaro e preciso.
Il film è girato in VistaVision 35mm, un formato recentemente utilizzato da Brady Corbet per il suo monumentale The Brutalist (2024), ma che non veniva impiegato dagli anni ’60, il che costituisce un’altra caratteristica nodale del cinema del regista, ovvero il ricorso praticamente costante alla pellicola, con la quale ha girato tutti i suoi film ad eccezione del primo, per il quale non aveva a disposizione i fondi necessari. Quest’elemento tecnico, unitamente all’utilizzo che ne fa Anderson, dà la misura della fiducia - o forse dovremmo chiamarla fede - che l'autore nutre nei confronti del cinema: una forma artistica per scandagliare il tempo, la storia e le nevrosi della società americana nelle sue varie epoche.

Perfidia Beverly Hills ( Teyana Taylor) il già iconico personaggio di One Battle After Another (Una battaglia dopo l'altra, 2025)
One Battle After Another può essere considerato, da un certo punto di vista, il primo film d’azione di PTA, ma ciò, a ben vedere, rappresenta la naturale evoluzione di una componente fondamentale del suo cinema: il movimento. Ogni sua opera è caratterizzata da personaggi che si spostano senza sosta - la fuga tra un casinò e l’altro in Hard Eight, il vagare degli individui in Magnolia, l’andirivieni nervosamente continuo di Adam Sandler in Punch-Drunk Love, i viaggi psichedelici di Inherent Vice, il continuo inseguirsi dei protagonisti di Licorice Pizza -, quasi a indicare che il movimento sia l’atto costitutivo dell’essere umano. Non è strano, allora, che One Battle After Another spinga con più decisione che mai sull’azione, trasformandosi in un road movie dall’andamento nevrotico.
Tuttavia il film, come sempre in Anderson, non è riducibile a un solo genere ma va piuttosto a mescolarsi ad altri, in un mélange in cui rientrano il melodramma, il comico, il thriller e il surreale, componenti, come abbiamo visto, assolutamente ricorrenti nel suo cinema. Tra tutti, è proprio "l'ingrediente" surreale a dominare il cinema di PTA: in maniera più evidente in pellicole come Inherent Vice o Punch-Drunk Love, ma sotterraneamente presente in tutta la sua filmografia. La cosa sorprendente, in One Battle After Another, è che Anderson affronta la commistione tra generi con un approccio decisamente “pop”: in questo senso è la sua opera più accessibile, un elemento decisivo in un film con una densità di tematiche così sovrabbondante.
Infine, One Battler After Another riporta al centro dell’attenzione quello che è da sempre il tema per eccellenza della poetica andersoniana, ovvero la figura del padre: acquisito, come in Hard Eight, violento e dispotico, come in There Will Be Blood, e nella maggior parte dei casi assente o comunque presente come figura problematica. Anche in quest’ultimo film il rapporto padre-figlia, oltre ad essere la principale fonte del melodramma, è a dir poco travagliato, ma Anderson lo affronta con un approccio inedito, lasciando lo spazio a un lieto fine redentivo che sancisce l’unità familiare come il vero nucleo su cui costruire il futuro.

In conclusione, è opportuno ricordare, tangenzialmente, che Paul Thomas Anderson, oltre ad essere regista di lungometraggi, vanta anche una lunga carriera come autore di videoclip - solo per citare un esempio: Anima (2019), girato assieme al frontman dei Radiohead Thom Yorke.
Come fosse un collage di cortometraggi consequenziali, Anima rappresenta uno degli esiti più alti della sua produzione video - grazie alla quale ha anche saldato rapporti professionali e umani che poi si sono rivelati decisivi per il suo cinema: due su tutti quello con Jonny Greenwood, chitarrista a sua volta dei Radiohead e compositore fisso delle colonne sonore dei film del regista, e quello con Alana Haim, una delle tre sorelle fondatrici della band delle Haim, di cui Anderson ha curato la regia di svariati videoclip.
Insomma, PTA incarna una figura con cui è assolutamente impossibile non confrontarsi quando si parla di cinema moderno/contemporaneo e quando si affronta la questione dell’immaginario odierno: un autore completo, erede della grande letteratura americana e del cinema statunitense della seconda metà del ‘900. Un regista imprescindibile, tra i più grandi del suo tempo e di tutta la Storia del cinema.

Boogie Nights (1997)