
di Omar Franini
NC-330
09.09.2025
Quando ad Alexander Payne, presidente della giuria di questa edizione della Mostra del Cinema di Venezia, è stato chiesto ad inizio festival un commento sulla situazione a Gaza, la sua risposta ha lasciato un'impressione ambigua:
“A dire il vero, mi sento un po’ impreparato per questa domanda. Sono qui per giudicare e parlare di cinema. Le mie opinioni politiche, credo, siano in linea con molte delle vostre. Ma sul mio rapporto con il festival e su cosa dovrebbe fare l’industria… ci devo ancora pensare per poter dare un parere ponderato”.
Una risposta che ha fatto rumore, proprio per ciò che ha omesso. In quel momento era difficile non pensare a due dei suoi compagni di giuria: Mohammad Rasoulof, regista iraniano la cui filmografia rappresenta pienamente una forma di resistenza contro le ingiustizie di un regime, e Cristian Mungiu, autore di R.M.N. (2022), opera che denuncia l’indifferenza verso ciò che accade davanti ai nostri occhi. Entrambi registi che non si sono mai tirati indietro quando si è trattato di prendere posizione. In un contesto del genere, tacere o dichiararsi “impreparati” su una delle più gravi crisi umanitarie in corso appare, nel migliore dei casi, come un’occasione mancata. Il cinema, in questi casi, non è solo arte, è responsabilità, è una voce fondamentale.

Il poster di Venezia 2025

Kaouther Ben Hania, Leone d'Argento per The Voice of Hind Rajab
Non vogliamo deviare troppo dalla nostra consueta analisi sui vincitori del festival, e forse sarebbe necessario un articolo a parte per parlare dell’ipocrisia nell’industria cinematografica che circonda il genocidio in corso a Gaza, ma è impossibile ignorare le parole di Payne. Anche perché, tra i film in concorso, era presente The Voice of Hind Rajab di Kaouther Ben Hania, un’opera ibrida tra finzione e documentario che ha segnato in modo profondo questa edizione della Mostra.
Il film racconta uno degli episodi più scioccanti del genocidio in corso: l’uccisione della piccola Hind Rajab, bambina palestinese di cinque anni, assassinata nel gennaio 2024 insieme a sei membri della sua famiglia e due paramedici della Mezzaluna Rossa, durante l’invasione israeliana della Striscia di Gaza. La pellicola ha scosso il pubblico durante la première, attirando l’attenzione mediatica e dando vita a un acceso dibattito su come il cinema possa, e debba, intervenire nel racconto dell’attualità.
La decisione di includere The Voice of Hind Rajab in Concorso, e non relegarlo fuori gara, è sembrata inizialmente una presa di posizione forte da parte del festival. Ma pone anche una questione più complessa, che vale la pena indagare: un’opera così fortemente radicata nell’attualità, così urgente e politicamente carica, deve necessariamente essere messa in Concorso? Non si tratta di sollevare una polemica, ma di riflettere sulla responsabilità etica di un festival quando seleziona opere che trattano drammi in corso. In casi come questo, è possibile separare il valore cinematografico dalla forza del contenuto? L’urgenza della tematica offre al film un vantaggio, oppure lo espone a un giudizio più severo, proprio per il timore di premiarlo “solo” per il suo messaggio?
La sua presenza in Concorso si è rivelata ambigua, gesto politico o reale candidatura al Leone? La mancata vittoria ha lasciato una scia di interrogativi. Il film ha ricevuto il Gran Premio della Giuria, una sorta di secondo posto, che a molti è parso un compromesso diplomatico. Perché un’opera di tale potenza politica ed emotiva, capace di generare dibattito ben oltre l’ambito cinematografico, non è stata premiata con il massimo riconoscimento? Alexander Payne era davvero “impreparato” a comprenderne la portata? La giuria non era d’accordo? O forse forze esterne, diplomatiche, istituzionali, hanno influito sull’esito finale?
O, semplicemente, la giuria ha preferito Father Mother Sister Brother di Jim Jarmusch. Anche questa possibilità, la più semplice, lascia comunque spazio a qualche riflessione. Le indiscrezioni parlano di una giuria divisa, e l’atmosfera in sala durante la cerimonia non sembrava particolarmente gioiosa. I volti tesi di Cristian Mungiu e Fernanda Torres, poco entusiasti al loro arrivo sul palcoscenico, ricordavano le espressioni contrariate di Kleber Mendonça Filho e Mati Diop a Cannes 2021, dopo la vittoria di Titane su Memoria di Apichatpong Weerasethakul.

Jim Jarmusch vince il Leone d'Oro di quest'anno
Che la vittoria di Jarmusch sia stata un compromesso interno? Un premio alla carriera mascherato? O davvero la sua opera ha convinto la maggioranza più di qualsiasi altra? Sono tutte ipotesi. Si raccolgono voci, si leggono segnali, si cercano di interpretare sguardi e tensioni. Ma una cosa è certa: in un anno in cui il cinema ha dimostrato di poter ancora scuotere le coscienze, lasciare fuori dal massimo riconoscimento un film come quello di Ben Hania è una decisione che continuerà a far discutere.
Eppure, è stato Father Mother Sister Brother di Jim Jarmusch a conquistare il Leone d’Oro, un risultato che non è stato accolto da tutti con entusiasmo. L’opera, un raffinato trittico che esplora le dinamiche familiari tra adulti e genitori, ambientato tra New Jersey, Dublino e Parigi, con un cast che include Tom Waits, Cate Blanchett, Adam Driver, Vicky Krieps e altri, rappresenta il perfetto contrappunto al film di Ben Hania. Non è forse tra le migliori opere della carriera del regista, lo standard è alto, ovviamente, ma resta un’operazione riuscita, capace di conquistare pubblico e stampa. La sua delicatezza e humor lo rendono più che meritevole del premio. E al momento dell’annuncio, Jarmusch è salito sul palco visibilmente commosso:
“Oh, merda! Tutti noi che facciamo cinema non siamo motivati dalla competizione, ma questo è qualcosa che apprezzo davvero, un onore del tutto inaspettato”.
Concludendo ringraziando la giuria e il pubblico presente per aver apprezzato un film così “quiet”.

Toni Servillo, vincitore della Coppa Volpi
Nonostante questi due premi ci sembrino piuttosto meritevoli, il resto del palmarès ha rappresentato una sorta di “Caporetto” cinematografica.
Richiamando la controversa giuria di George Miller del 2016, che snobbò titoli come Elle di Paul Verhoeven, Toni Erdmann di Maren Ade, Aquarius di Kleber Mendonça Filho e The Handmaiden di Park Chan-wook, anche quest’anno il regista coreano torna a casa a mani vuote, nonostante No Other Choice fosse tra i film più acclamati del festival. Una commedia nera satirica in cui un manager licenziato dopo 25 anni arriva a ideare un piano estremo: eliminare i candidati alla sua stessa posizione pur di riconquistare il lavoro. Alla vigilia della cerimonia, la domanda non era se avrebbe vinto qualcosa, ma quale premio: se non il Leone d’Oro, quantomeno il premio alla regia, alla sceneggiatura o alle interpretazioni di Lee Byung-hun e Son Ye-jin.
Altro film clamorosamente assente dalla cerimonia finale è stato A House of Dynamite di Kathryn Bigelow, thriller politico che segue in tempo reale le 24 ore precedenti a un possibile attacco nucleare, intrecciando tensione militare e drammi familiari con uno stile secco e implacabile. Le reazioni iniziali facevano presagire un premio importante per la regista premio Oscar, ma anche in questo caso, nulla. Tra gli altri esclusi da questa edizione si devono citare anche L'Étranger di François Ozon e Bugonia di Yorgos Lanthimos, con Emma Stone e Jesse Plemons.
Un altro grande snobbato, anche se tecnicamente premiato, è stato Silent Friend di Ildikó Enyedi. Il film, un trittico poetico che intreccia storie di vita, perdita e rinascita attorno a un imponente albero simbolico, esplora con delicatezza le connessioni umane e la resilienza di fronte al tempo che passa. Presentato tra gli ultimi titoli del festival, si è guadagnato rapidamente l’apprezzamento della critica e del pubblico, tanto da far sperare in un premio importante. La presenza della cineasta ungherese sul red carpet prima della cerimonia alimentava queste aspettative, ma alla fine Silent Friend si è dovuto accontentare del solo Premio Mastroianni assegnato alla giovane attrice Luna Wedler, un riconoscimento significativo, ma lontano dalle ambizioni iniziali.
La riflessione sulle performance attoriali prosegue con la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile, assegnata a Toni Servillo per La Grazia di Paolo Sorrentino, premiato da Fernanda Torres. Una vittoria ampiamente prevista, nell’aria da giorni, e che rappresenta senza dubbio uno dei massimi riconoscimenti per uno degli attori italiani più importanti della sua generazione. Certo, non mancavano alternative altrettanto valide, a partire da Jesse Plemons, straordinario in Bugonia, o Lee Byung-hun per No Other Choice, ma il premio a Servillo non ha deluso. È un giusto tributo a una carriera di altissimo livello e a una performance solida, capace di tenere insieme con misura e profondità la visione di Sorrentino.

Zhang Ziyi consega la Coppa Volpi a Vincent Lindon
Più sorprendente, invece, la Coppa Volpi alla miglior interpretazione femminile, assegnata a Xin Zhilei per The Sun Rises on Us All di Cai Shangjun. Il suo nome potrebbe non essere ancora familiare a molti, ma presto lo diventerà; oltre a questo meritato riconoscimento, l’attrice sarà anche tra i protagonisti di Shanghai Blossoms, attesissima serie diretta da Wong Kar-wai. Come nel caso di Servillo, anche qui si poteva discutere su altri nomi. Su tutti Amanda Seyfried, la cui prova in The Testament of Ann Lee è stata tra le più intense viste al Lido, un’interpretazione folgorante che non si poteva ignorare. Inoltre, il film di Fastvold avrebbe meritato maggiore attenzione anche in termini di regia e sceneggiatura. Tornando a Xin Zhilei, visibilmente emozionata durante la cerimonia, ha tenuto un discorso sentito e lungo, ignorando con classe sia la musica che tentava di “accompagnarla fuori”. È stato un momento sincero e toccante, e proprio per questo strideva con l’atmosfera discontinua della serata.
Arriviamo infatti alla nota più dolente di questa edizione: l’organizzazione della cerimonia. A partire da una discutibile pausa di venticinque minuti nel mezzo dell’evento per attendere la diretta Rai, elemento che ha spezzato il ritmo e ha reso il tutto ancor più caotico. Ma ancora più discutibile è stato il tono generale della conduzione, affidata a Emanuela Fanelli. Nulla contro l’attrice, brillante e ironica in altri contesti, ma i continui siparietti comici, pensati forse per intrattenere il pubblico televisivo, si sono rivelati fuori luogo per una cerimonia internazionale che dovrebbe sapersi distinguere per sobrietà ed eleganza, come già accade a Berlino o Cannes, anch’esse trasmesse da reti nazionali senza per questo snaturarsi.
Il momento più infelice? Sicuramente il commento sarcastico di Fanelli dopo il discorso di Xin Zhilei, che ironizzava sulla sua lunghezza subito dopo un momento di autentica emozione. E se la performance musicale di Nino D’Angelo può essere accettata come omaggio popolare (pur con qualche perplessità, con tutto il rispetto per l’artista), resta il dubbio che Venezia non sappia più decidere se essere un festival del cinema o una varietà mondana televisiva. Poi ovviamente, durante una manifestazione cinematografica internazionale come Venezia, lo spazio a Nino D’Angelo non può mancare… giusto?

Gianfranco Rosi ritira il Premio della Giuria
Ma tornando ai premi, La Grazia di Paolo Sorrentino non è stato l’unico film italiano a essere premiato. A fargli compagnia c’è Sotto le nuvole di Gianfranco Rosi, vincitore del Premio della Giuria. Ambientato tra il Golfo di Napoli e Pompei, il documentario, girato in bianco e nero, offre un ritratto introspettivo e stratificato della città partenopea, una Napoli sospesa tra passato e presente, filtrata attraverso i volti degli abitanti, i lavori nei siti di Pompei ed Ercolano, e le tracce di memorie sepolte che emergono dalle rovine e dai tunnel della città antica.
La vittoria per la miglior sceneggiatura di Valérie Donzelli per À Pied d’œuvre ha rappresentato un’altra nota dolente del palmarès. La scrittura del film, mascherata da una finta ambizione, appare in realtà elementare nella costruzione e prevedibile nello sviluppo. Le tematiche vengono affrontate in modo superficiale, quasi didascalico, senza mai lasciare un forte impatto.
Un sentimento simile ha accompagnato anche la vittoria per la miglior regia assegnata a Benny Safdie per The Smashing Machine. Come già sottolineato, non si tratta di un film da bocciare: è un biopic solido, tecnicamente ben costruito e coerente nel tono. Ma ciò che colpisce negativamente è la totale assenza di rischio. Un’opera che non osa, in netto contrasto con il cinema più viscerale che ci si poteva aspettare da uno dei fratelli Safdie. A reggere il film è, più che altro, la prova sorprendente di Dwayne “The Rock” Johnson. Ma una performance, per quanto ben diretta, non basta per giustificare un premio così importante alla regia.

Benny Safdie vince il premio per la miglior regia
L’amarezza dei film scelti come vincitori si è estesa anche alla sezione Orizzonti, dove si attendevano scelte più “rischiose” da parte della giuria presieduta da Julia Ducournau, affiancata da registi come RaMell Ross e Yuri Ancarani. Questa sensazione si riversa sul film vincitore del premio principale, En el camino, diretto da David Pablos. L’opera convince, è un viaggio carico di tensione e solitudine, capace di restituire con intensità la vita on the road di due uomini in lotta con la propria identità e con un contesto ostile. Tuttavia, in alcune sezioni la narrazione diverge dal punto di vista del tono, minando leggermente la buona riuscita dell’opera. La regia di Anapurna Roy in Songs of Forgotten Trees, vincitrice del premio, non spicca per originalità stilistica, ma rivela una forte visione compositiva; la cineasta indiana, al suo esordio, costruisce un racconto delicato e intriso di memoria, mettendo al centro un'intimità femminile che resiste alle imposizioni patriarcali. Tuttavia, come nel caso di En el camino, anche qui si rimpiangono opere capaci di osare di più, con scelte narrative o estetiche più audaci.
Tra i grandi snobbati, non si può non citare il sensazionale Funeral Casino Blues di Roderick Warich, un’opera imponente che mescola melodramma, sogno e ghost stories tipicamente thailandesi. Un film visivamente audace e narrativamente stratificato, capace di colpire per la sua forza, eppure privo del sostegno della giuria, nonostante fosse una delle visioni più avvincenti del festival. Lo stesso discorso vale per Rose of Nevada di Mark Jenkin, Strange River di Jaume Claret Muxart, Barrio Triste di Stillz e Pin de Fartie di Alejo Moguillansky, pellicole che hanno lasciato un segno forte e che però sono tornate a casa a mani vuote, senza riconoscimenti ufficiali.
Il Premio Speciale della Giuria Orizzonti è stato assegnato al documentario Lost Land di Akio Fujimoto. Il film segue la storia di due bambini, Shafi (4 anni) e Somira (9 anni), del popolo Rohingya, che lasciano un campo profughi in Bangladesh per intraprendere un pericoloso viaggio verso la Malesia alla ricerca della loro famiglia. La scelta di premiare l’opera risulta coerente con una giuria che ha mostrato attenzione per la dimensione documentaristica e per narrazioni che scavano nel vissuto collettivo. Per la migliore sceneggiatura Orizzonti è stato premiato Hiedra di Ana Cristina Barragán, film che avrebbe meritato riconoscimenti per altri aspetti, come la regia o l’interpretazione centrale, data la forza emotiva e la costruzione atmosferica della coppia protagonista.
Concludiamo citando due film italiani che hanno raccolto importanti premi per l’interpretazione: Benedetta Porcaroli è stata premiata come miglior attrice per Il rapimento di Arabella di Carolina Cavalli, mentre Giacomo Covi, al suo esordio, ha ottenuto il premio come miglior attore per Un anno di scuola di Laura Samani. Un contrasto affascinante; da una parte, un’attrice già radicata nel panorama italiano; dall’altra, un giovane attore alla sua prima esperienza che ha colpito per la sua spontaneità e lascia intravedere un futuro promettente.

Julia Ducournau premia il regista David Pablos
La delusione generale che scaturisce da questa manifestazione cinematografica, in fondo, non sorprende affatto. È un festival che da anni sembra aver spostato il proprio focus. A Venezia, oggi, l’attenzione è sempre più rivolta al glamour, alla visibilità mediatica, al legame con Hollywood e ai meccanismi della promozione globale. Tutto questo, spesso, a discapito di ciò che dovrebbe davvero contare: il cinema.
E per cinema non si intende solo la confezione patinata, né la presenza di nomi di richiamo, ma qualcosa di vivo, capace di scuotere, appassionare, sorprendere. Un’arte che rischia sul piano del linguaggio, della forma, della visione. Tutto ciò, purtroppo, è mancato. E l’82ª edizione ha confermato un trend decadente che continua ad affossare la Mostra. Serve un cambio di rotta. Non si può più accettare una selezione tanto scarna e priva di coraggio.
Cosa resterà, allora, di questa edizione? Le emozioni forti e la rabbia generate da The Voice of Hind Rajab, la grazia malinconica di Father Mother Brother Sister, l’energia caotica di No Other Choice, la vertigine spirituale di The Testament of Ann Lee. Ma se si cercava una reale ambizione, un’idea di cinema che guarda oltre l’industria, la forma festival, il compromesso, si rimarrà delusi. Per questo, impossibile non voltarsi verso Cannes, dove opere come Resurrection di Bi Gan, Sound of Falling di Mascha Schilinski, O Agente Secreto di Kleber Mendonça Filho e Sirat di Oliver Laxe ci avevano fatto credere, e sperare, che una strada alternativa sia ancora possibile. Una strada in cui il cinema non segua il mercato, ma lo metta in discussione. Dove l’arte non cerchi semplici conferme, ma si apra a nuovi sguardi e prospettive. E dove un festival, pur riconoscendo e premiando le eccellenze, scelga di valorizzare soprattutto ciò che è necessario, anche quando è meno sicuro.
di Omar Franini
NC-330
09.09.2025

Il poster di Venezia 2025
Quando ad Alexander Payne, presidente della giuria di questa edizione della Mostra del Cinema di Venezia, è stato chiesto ad inizio festival un commento sulla situazione a Gaza, la sua risposta ha lasciato un'impressione ambigua:
“A dire il vero, mi sento un po’ impreparato per questa domanda. Sono qui per giudicare e parlare di cinema. Le mie opinioni politiche, credo, siano in linea con molte delle vostre. Ma sul mio rapporto con il festival e su cosa dovrebbe fare l’industria… ci devo ancora pensare per poter dare un parere ponderato”.
Una risposta che ha fatto rumore, proprio per ciò che ha omesso. In quel momento era difficile non pensare a due dei suoi compagni di giuria: Mohammad Rasoulof, regista iraniano la cui filmografia rappresenta pienamente una forma di resistenza contro le ingiustizie di un regime, e Cristian Mungiu, autore di R.M.N. (2022), opera che denuncia l’indifferenza verso ciò che accade davanti ai nostri occhi. Entrambi registi che non si sono mai tirati indietro quando si è trattato di prendere posizione. In un contesto del genere, tacere o dichiararsi “impreparati” su una delle più gravi crisi umanitarie in corso appare, nel migliore dei casi, come un’occasione mancata. Il cinema, in questi casi, non è solo arte, è responsabilità, è una voce fondamentale.

Kaouther Ben Hania, Leone d'Argento per The Voice of Hind Rajab
Non vogliamo deviare troppo dalla nostra consueta analisi sui vincitori del festival, e forse sarebbe necessario un articolo a parte per parlare dell’ipocrisia nell’industria cinematografica che circonda il genocidio in corso a Gaza, ma è impossibile ignorare le parole di Payne. Anche perché, tra i film in concorso, era presente The Voice of Hind Rajab di Kaouther Ben Hania, un’opera ibrida tra finzione e documentario che ha segnato in modo profondo questa edizione della Mostra.
Il film racconta uno degli episodi più scioccanti del genocidio in corso: l’uccisione della piccola Hind Rajab, bambina palestinese di cinque anni, assassinata nel gennaio 2024 insieme a sei membri della sua famiglia e due paramedici della Mezzaluna Rossa, durante l’invasione israeliana della Striscia di Gaza. La pellicola ha scosso il pubblico durante la première, attirando l’attenzione mediatica e dando vita a un acceso dibattito su come il cinema possa, e debba, intervenire nel racconto dell’attualità.
La decisione di includere The Voice of Hind Rajab in Concorso, e non relegarlo fuori gara, è sembrata inizialmente una presa di posizione forte da parte del festival. Ma pone anche una questione più complessa, che vale la pena indagare: un’opera così fortemente radicata nell’attualità, così urgente e politicamente carica, deve necessariamente essere messa in Concorso? Non si tratta di sollevare una polemica, ma di riflettere sulla responsabilità etica di un festival quando seleziona opere che trattano drammi in corso. In casi come questo, è possibile separare il valore cinematografico dalla forza del contenuto? L’urgenza della tematica offre al film un vantaggio, oppure lo espone a un giudizio più severo, proprio per il timore di premiarlo “solo” per il suo messaggio?
La sua presenza in Concorso si è rivelata ambigua, gesto politico o reale candidatura al Leone? La mancata vittoria ha lasciato una scia di interrogativi. Il film ha ricevuto il Gran Premio della Giuria, una sorta di secondo posto, che a molti è parso un compromesso diplomatico. Perché un’opera di tale potenza politica ed emotiva, capace di generare dibattito ben oltre l’ambito cinematografico, non è stata premiata con il massimo riconoscimento? Alexander Payne era davvero “impreparato” a comprenderne la portata? La giuria non era d’accordo? O forse forze esterne, diplomatiche, istituzionali, hanno influito sull’esito finale?
O, semplicemente, la giuria ha preferito Father Mother Sister Brother di Jim Jarmusch. Anche questa possibilità, la più semplice, lascia comunque spazio a qualche riflessione. Le indiscrezioni parlano di una giuria divisa, e l’atmosfera in sala durante la cerimonia non sembrava particolarmente gioiosa. I volti tesi di Cristian Mungiu e Fernanda Torres, poco entusiasti al loro arrivo sul palcoscenico, ricordavano le espressioni contrariate di Kleber Mendonça Filho e Mati Diop a Cannes 2021, dopo la vittoria di Titane su Memoria di Apichatpong Weerasethakul.

Jim Jarmusch vince il Leone d'Oro di quest'anno
Che la vittoria di Jarmusch sia stata un compromesso interno? Un premio alla carriera mascherato? O davvero la sua opera ha convinto la maggioranza più di qualsiasi altra? Sono tutte ipotesi. Si raccolgono voci, si leggono segnali, si cercano di interpretare sguardi e tensioni. Ma una cosa è certa: in un anno in cui il cinema ha dimostrato di poter ancora scuotere le coscienze, lasciare fuori dal massimo riconoscimento un film come quello di Ben Hania è una decisione che continuerà a far discutere.
Eppure, è stato Father Mother Sister Brother di Jim Jarmusch a conquistare il Leone d’Oro, un risultato che non è stato accolto da tutti con entusiasmo. L’opera, un raffinato trittico che esplora le dinamiche familiari tra adulti e genitori, ambientato tra New Jersey, Dublino e Parigi, con un cast che include Tom Waits, Cate Blanchett, Adam Driver, Vicky Krieps e altri, rappresenta il perfetto contrappunto al film di Ben Hania. Non è forse tra le migliori opere della carriera del regista, lo standard è alto, ovviamente, ma resta un’operazione riuscita, capace di conquistare pubblico e stampa. La sua delicatezza e humor lo rendono più che meritevole del premio. E al momento dell’annuncio, Jarmusch è salito sul palco visibilmente commosso:
“Oh, merda! Tutti noi che facciamo cinema non siamo motivati dalla competizione, ma questo è qualcosa che apprezzo davvero, un onore del tutto inaspettato”.
Concludendo ringraziando la giuria e il pubblico presente per aver apprezzato un film così “quiet”.

Toni Servillo, vincitore della Coppa Volpi
Nonostante questi due premi ci sembrino piuttosto meritevoli, il resto del palmarès ha rappresentato una sorta di “Caporetto” cinematografica.
Richiamando la controversa giuria di George Miller del 2016, che snobbò titoli come Elle di Paul Verhoeven, Toni Erdmann di Maren Ade, Aquarius di Kleber Mendonça Filho e The Handmaiden di Park Chan-wook, anche quest’anno il regista coreano torna a casa a mani vuote, nonostante No Other Choice fosse tra i film più acclamati del festival. Una commedia nera satirica in cui un manager licenziato dopo 25 anni arriva a ideare un piano estremo: eliminare i candidati alla sua stessa posizione pur di riconquistare il lavoro. Alla vigilia della cerimonia, la domanda non era se avrebbe vinto qualcosa, ma quale premio: se non il Leone d’Oro, quantomeno il premio alla regia, alla sceneggiatura o alle interpretazioni di Lee Byung-hun e Son Ye-jin.
Altro film clamorosamente assente dalla cerimonia finale è stato A House of Dynamite di Kathryn Bigelow, thriller politico che segue in tempo reale le 24 ore precedenti a un possibile attacco nucleare, intrecciando tensione militare e drammi familiari con uno stile secco e implacabile. Le reazioni iniziali facevano presagire un premio importante per la regista premio Oscar, ma anche in questo caso, nulla. Tra gli altri esclusi da questa edizione si devono citare anche L'Étranger di François Ozon e Bugonia di Yorgos Lanthimos, con Emma Stone e Jesse Plemons.
Un altro grande snobbato, anche se tecnicamente premiato, è stato Silent Friend di Ildikó Enyedi. Il film, un trittico poetico che intreccia storie di vita, perdita e rinascita attorno a un imponente albero simbolico, esplora con delicatezza le connessioni umane e la resilienza di fronte al tempo che passa. Presentato tra gli ultimi titoli del festival, si è guadagnato rapidamente l’apprezzamento della critica e del pubblico, tanto da far sperare in un premio importante. La presenza della cineasta ungherese sul red carpet prima della cerimonia alimentava queste aspettative, ma alla fine Silent Friend si è dovuto accontentare del solo Premio Mastroianni assegnato alla giovane attrice Luna Wedler, un riconoscimento significativo, ma lontano dalle ambizioni iniziali.
La riflessione sulle performance attoriali prosegue con la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile, assegnata a Toni Servillo per La Grazia di Paolo Sorrentino, premiato da Fernanda Torres. Una vittoria ampiamente prevista, nell’aria da giorni, e che rappresenta senza dubbio uno dei massimi riconoscimenti per uno degli attori italiani più importanti della sua generazione. Certo, non mancavano alternative altrettanto valide, a partire da Jesse Plemons, straordinario in Bugonia, o Lee Byung-hun per No Other Choice, ma il premio a Servillo non ha deluso. È un giusto tributo a una carriera di altissimo livello e a una performance solida, capace di tenere insieme con misura e profondità la visione di Sorrentino.

Zhang Ziyi consega la Coppa Volpi a Vincent Lindon
Più sorprendente, invece, la Coppa Volpi alla miglior interpretazione femminile, assegnata a Xin Zhilei per The Sun Rises on Us All di Cai Shangjun. Il suo nome potrebbe non essere ancora familiare a molti, ma presto lo diventerà; oltre a questo meritato riconoscimento, l’attrice sarà anche tra i protagonisti di Shanghai Blossoms, attesissima serie diretta da Wong Kar-wai. Come nel caso di Servillo, anche qui si poteva discutere su altri nomi. Su tutti Amanda Seyfried, la cui prova in The Testament of Ann Lee è stata tra le più intense viste al Lido, un’interpretazione folgorante che non si poteva ignorare. Inoltre, il film di Fastvold avrebbe meritato maggiore attenzione anche in termini di regia e sceneggiatura. Tornando a Xin Zhilei, visibilmente emozionata durante la cerimonia, ha tenuto un discorso sentito e lungo, ignorando con classe sia la musica che tentava di “accompagnarla fuori”. È stato un momento sincero e toccante, e proprio per questo strideva con l’atmosfera discontinua della serata.
Arriviamo infatti alla nota più dolente di questa edizione: l’organizzazione della cerimonia. A partire da una discutibile pausa di venticinque minuti nel mezzo dell’evento per attendere la diretta Rai, elemento che ha spezzato il ritmo e ha reso il tutto ancor più caotico. Ma ancora più discutibile è stato il tono generale della conduzione, affidata a Emanuela Fanelli. Nulla contro l’attrice, brillante e ironica in altri contesti, ma i continui siparietti comici, pensati forse per intrattenere il pubblico televisivo, si sono rivelati fuori luogo per una cerimonia internazionale che dovrebbe sapersi distinguere per sobrietà ed eleganza, come già accade a Berlino o Cannes, anch’esse trasmesse da reti nazionali senza per questo snaturarsi.
Il momento più infelice? Sicuramente il commento sarcastico di Fanelli dopo il discorso di Xin Zhilei, che ironizzava sulla sua lunghezza subito dopo un momento di autentica emozione. E se la performance musicale di Nino D’Angelo può essere accettata come omaggio popolare (pur con qualche perplessità, con tutto il rispetto per l’artista), resta il dubbio che Venezia non sappia più decidere se essere un festival del cinema o una varietà mondana televisiva. Poi ovviamente, durante una manifestazione cinematografica internazionale come Venezia, lo spazio a Nino D’Angelo non può mancare… giusto?

Gianfranco Rosi ritira il Premio della Giuria
Ma tornando ai premi, La Grazia di Paolo Sorrentino non è stato l’unico film italiano a essere premiato. A fargli compagnia c’è Sotto le nuvole di Gianfranco Rosi, vincitore del Premio della Giuria. Ambientato tra il Golfo di Napoli e Pompei, il documentario, girato in bianco e nero, offre un ritratto introspettivo e stratificato della città partenopea, una Napoli sospesa tra passato e presente, filtrata attraverso i volti degli abitanti, i lavori nei siti di Pompei ed Ercolano, e le tracce di memorie sepolte che emergono dalle rovine e dai tunnel della città antica.
La vittoria per la miglior sceneggiatura di Valérie Donzelli per À Pied d’œuvre ha rappresentato un’altra nota dolente del palmarès. La scrittura del film, mascherata da una finta ambizione, appare in realtà elementare nella costruzione e prevedibile nello sviluppo. Le tematiche vengono affrontate in modo superficiale, quasi didascalico, senza mai lasciare un forte impatto.
Un sentimento simile ha accompagnato anche la vittoria per la miglior regia assegnata a Benny Safdie per The Smashing Machine. Come già sottolineato, non si tratta di un film da bocciare: è un biopic solido, tecnicamente ben costruito e coerente nel tono. Ma ciò che colpisce negativamente è la totale assenza di rischio. Un’opera che non osa, in netto contrasto con il cinema più viscerale che ci si poteva aspettare da uno dei fratelli Safdie. A reggere il film è, più che altro, la prova sorprendente di Dwayne “The Rock” Johnson. Ma una performance, per quanto ben diretta, non basta per giustificare un premio così importante alla regia.

Benny Safdie vince il premio per la miglior regia
L’amarezza dei film scelti come vincitori si è estesa anche alla sezione Orizzonti, dove si attendevano scelte più “rischiose” da parte della giuria presieduta da Julia Ducournau, affiancata da registi come RaMell Ross e Yuri Ancarani. Questa sensazione si riversa sul film vincitore del premio principale, En el camino, diretto da David Pablos. L’opera convince, è un viaggio carico di tensione e solitudine, capace di restituire con intensità la vita on the road di due uomini in lotta con la propria identità e con un contesto ostile. Tuttavia, in alcune sezioni la narrazione diverge dal punto di vista del tono, minando leggermente la buona riuscita dell’opera. La regia di Anapurna Roy in Songs of Forgotten Trees, vincitrice del premio, non spicca per originalità stilistica, ma rivela una forte visione compositiva; la cineasta indiana, al suo esordio, costruisce un racconto delicato e intriso di memoria, mettendo al centro un'intimità femminile che resiste alle imposizioni patriarcali. Tuttavia, come nel caso di En el camino, anche qui si rimpiangono opere capaci di osare di più, con scelte narrative o estetiche più audaci.
Tra i grandi snobbati, non si può non citare il sensazionale Funeral Casino Blues di Roderick Warich, un’opera imponente che mescola melodramma, sogno e ghost stories tipicamente thailandesi. Un film visivamente audace e narrativamente stratificato, capace di colpire per la sua forza, eppure privo del sostegno della giuria, nonostante fosse una delle visioni più avvincenti del festival. Lo stesso discorso vale per Rose of Nevada di Mark Jenkin, Strange River di Jaume Claret Muxart, Barrio Triste di Stillz e Pin de Fartie di Alejo Moguillansky, pellicole che hanno lasciato un segno forte e che però sono tornate a casa a mani vuote, senza riconoscimenti ufficiali.
Il Premio Speciale della Giuria Orizzonti è stato assegnato al documentario Lost Land di Akio Fujimoto. Il film segue la storia di due bambini, Shafi (4 anni) e Somira (9 anni), del popolo Rohingya, che lasciano un campo profughi in Bangladesh per intraprendere un pericoloso viaggio verso la Malesia alla ricerca della loro famiglia. La scelta di premiare l’opera risulta coerente con una giuria che ha mostrato attenzione per la dimensione documentaristica e per narrazioni che scavano nel vissuto collettivo. Per la migliore sceneggiatura Orizzonti è stato premiato Hiedra di Ana Cristina Barragán, film che avrebbe meritato riconoscimenti per altri aspetti, come la regia o l’interpretazione centrale, data la forza emotiva e la costruzione atmosferica della coppia protagonista.
Concludiamo citando due film italiani che hanno raccolto importanti premi per l’interpretazione: Benedetta Porcaroli è stata premiata come miglior attrice per Il rapimento di Arabella di Carolina Cavalli, mentre Giacomo Covi, al suo esordio, ha ottenuto il premio come miglior attore per Un anno di scuola di Laura Samani. Un contrasto affascinante; da una parte, un’attrice già radicata nel panorama italiano; dall’altra, un giovane attore alla sua prima esperienza che ha colpito per la sua spontaneità e lascia intravedere un futuro promettente.

Julia Ducournau premia il regista David Pablos
La delusione generale che scaturisce da questa manifestazione cinematografica, in fondo, non sorprende affatto. È un festival che da anni sembra aver spostato il proprio focus. A Venezia, oggi, l’attenzione è sempre più rivolta al glamour, alla visibilità mediatica, al legame con Hollywood e ai meccanismi della promozione globale. Tutto questo, spesso, a discapito di ciò che dovrebbe davvero contare: il cinema.
E per cinema non si intende solo la confezione patinata, né la presenza di nomi di richiamo, ma qualcosa di vivo, capace di scuotere, appassionare, sorprendere. Un’arte che rischia sul piano del linguaggio, della forma, della visione. Tutto ciò, purtroppo, è mancato. E l’82ª edizione ha confermato un trend decadente che continua ad affossare la Mostra. Serve un cambio di rotta. Non si può più accettare una selezione tanto scarna e priva di coraggio.
Cosa resterà, allora, di questa edizione? Le emozioni forti e la rabbia generate da The Voice of Hind Rajab, la grazia malinconica di Father Mother Brother Sister, l’energia caotica di No Other Choice, la vertigine spirituale di The Testament of Ann Lee. Ma se si cercava una reale ambizione, un’idea di cinema che guarda oltre l’industria, la forma festival, il compromesso, si rimarrà delusi. Per questo, impossibile non voltarsi verso Cannes, dove opere come Resurrection di Bi Gan, Sound of Falling di Mascha Schilinski, O Agente Secreto di Kleber Mendonça Filho e Sirat di Oliver Laxe ci avevano fatto credere, e sperare, che una strada alternativa sia ancora possibile. Una strada in cui il cinema non segua il mercato, ma lo metta in discussione. Dove l’arte non cerchi semplici conferme, ma si apra a nuovi sguardi e prospettive. E dove un festival, pur riconoscendo e premiando le eccellenze, scelga di valorizzare soprattutto ciò che è necessario, anche quando è meno sicuro.