A cura di Pavel Belli Micati
INT-95
11.05.2025
Durante la scorsa edizione della Berlinale, nella sezione Perspectives, Liryc Dela Cruz ha concorso con il suo primo lungometraggio, Come la Notte (o Where the Night Stands Still per i distributori internazionali). Il film racconta la visita che due fratelli, Manny e Rosa, fanno alla sorella maggiore Lilia. Tutti e tre filippini, vivono e lavorano in Italia; la più grande, che ha prestato servizio per oltre trent’anni nella casa di una signora benestante morta durante il covid, ha ereditato la grande villa della donna scomparsa senza lasciare superstiti.
Nel presente di uno spazio bianco e nero attraversato da luci e ombre, la grande magione si offre a luogo dove i tre fratelli, ritrovandosi, si confrontano col loro passato condiviso, mettendo a punto quello che sarà del loro futuro prossimo. Rosa e Manny, più giovani di Lilia, sono preoccupati della promessa che la sorella ha fatto alla Signora, ossia prendersi cura della casa finché è in vita. Lilia, dal proprio canto, rimane ferma sulla sua decisione e, nonostante l’isolamento in cui vive e l’età che avanza, non ha intenzione di sciogliere il patto stretto con la donna. Con il calare del sole però arriva la notte che illumina traumi, gelosie ed emozioni mai confessate…
In occasione della doppia premiere italiana al Bolzano Film Festival, dove ha da poco ricevuto il premio per la Miglior Prestazione Artistica, e al Bellaria Film Festival, abbiamo avuto il piacere di intervistare Liryc Dela Cruz.
Liryc Dela Cruz e il cast di Come la notte alla Berlinale 2025
Liryc, innanzitutto grazie del tuo tempo e spazio. Tu hai diretto e scritto Come la Notte. Ci racconteresti un po’ da dov’è nata questa tua idea e quale è stato il suo sviluppo?
Ciao Pavel! Grazie per l’opportunità! Allora, Come la Notte non doveva inizialmente essere come si presenta oggi. La sera prima dell’inizio delle riprese, il figlio di quella che avrebbe dovuto essere l’attrice protagonista è risultato positivo al covid. E così, la storia che fino a quel momento avevamo costruito è crollata. Nel viaggio in pullman dalla Stazione Tiburtina verso Trento, con le borse sotto gli occhi e una calma insolita in mezzo al caos, i colleghi de Il Mio Filippino Collective mi hanno aiutato a riscriverla descrivendola, più che dalla sceneggiatura, dalle storie che ci siamo sempre portati dietro: frammenti di ricordi, le dicerie, i silenzi condivisi della diaspora filippina in Italia. Alcuni riferimenti letterari sono rimasti con me, e hanno contribuito ad ancorarmi mentre intrecciavamo insieme finzione, memoria, e improvvisazione durante i cambi repentini avvenuti mentre scrivevamo. Sul set non c’era nulla di prestabilito. Gli attori erano anche la crew, mi hanno aiutato a gestire la logistica, a sistemare la scena, a cucinare tra una ripresa e l’altra. Ognuno di loro cambiava forma. Questa è stata la parte meravigliosa, indispensabile. Non abbiamo semplicemente fatto un film; abbiamo imparato, disimparato, costruendo uno spazio dove l’autorialità era collettiva, e il cinema è diventato una pratica di sopravvivenza, adattamento e cura. Il film è diventato ciò che doveva essere: fluido, privato, fatale.
Tu sei filippino, ma hai anche vissuto molti anni in Italia. Trovo delle somiglianze tra la tua esperienza personale di straniero che vive e lavora all’estero e i tuoi personaggi, che sono tutti nati nelle Filippine ma hanno vissuto la maggior parte della loro vita in Italia, lavorando come assistenti domestici. Cosa cambia e cosa non cambia, nella condizione di straniero, tra il lavoro nell’ambito domestico e quello in uno artistico?
Cosa cambia? La divisa forse. Cosa non cambia? Quasi tutto il resto. Sia come collaboratore domestico sia come artista, impari ad esibirti, a adattare il tuo corpo, il tuo tono, persino il tuo silenzio, per sopravvivere in spazi che non sono mai stati pensati per te. A uno viene chiesto di pulire senza lasciare tracce; all’altro di parlare, ma solo in modi ritagliati al contesto. Il lavoro è diverso, ma l’asimmetria è la stessa. In entrambi sono presenti l’aspettativa, la fatica, l’invisibilità e la richiesta, costante, di dimostrare gratitudine. Sono terribilmente consapevole del privilegio di classe che ora mi porto dietro. Essere un’artista mi dà accesso a piattaforme, visibilità, mobilità, cose che alla maggior parte dei lavoratori migranti, soprattutto ai filippini che lavorano nell’assistenza, vengono sistematicamente negate. Ecco il violento paradosso. Ti è permesso di raccontare le loro storie, ma il sistema di rado permette loro di raccontare la propria. È per questo che esiste Il Mio Filippino Collective. Non è un progetto di rappresentanza, ma uno di autodeterminazione. Lavoriamo direttamente con i lavoratori filippini, non per parlare a loro nome, ma per costruire insieme strumenti: artistici, politici, radicati. Strumenti che permettano la riappropriazione della nostra immagine, del nostro tempo, del nostro lavoro, del nostro respiro. Strumenti che non soltanto resistano allo sfruttamento, ma che immaginino al di là di esso. Perché per decolonizzare il corpo filippino, dobbiamo prima rivendicare il diritto di raccontarlo e poi di sognarlo diversamente.
In un momento del film, Lilia confessa ai fratelli un cupo senso di colpa che non riesce a scrollarsi di dosso: non riesce ad apprezzare sinceramente il dono ereditato dalla Signora perché non lo sente come fosse la propria casa. Rosa la rassicura che il senso di colpa che prova è parte di una tradizione filippina del "portarsi con sé il ricordo stesso di vivere in una terra straniera". Ci puoi raccontare di più a proposito di questo senso nomadico complesso?
Quel momento tra Lilia e Rosa racchiude in sé molto di ciò che il film affronta in silenzio: l’eredità, il dislocamento e il peso della gratitudine che rasenta il dolore. La casa che Lilia eredita non è solo una casa, ma un monumento alla violenza particolare della prossimità. Ci ha vissuto per anni, se ne è presa cura più delle stesse persone che l’hanno posseduta, eppure non le è mai appartenuta veramente. È una sensazione familiare per molti filippini all’estero: ci vengono affidati dagli altri i loro spazi privati, i loro bambini, i loro anziani, i loro moribondi, ma raramente ci è permesso di appartenere pienamente al mondo che aiutiamo a mantenere. Le parole di Rosa sono allo stesso tempo tenere e accusatorie: indicano qualcosa di più profondo del senso di colpa, si riferiscono all’eredità coloniale, che ci ha insegnato a essere grati degli avanzi, a trovare dignità nella servitù e a portarci nel silenzio i nostri traumi per non dare fastidio. Il filippino all’estero vive spesso in questa esibizione di umiltà, di resilienza. Scherziamo, cuciniamo per tutti, andiamo avanti. Ma sotto c’è una stanchezza profonda, secolare. Una memoria che non è nostra del tutto, ma che si tramanda attraverso il sangue, il canto e l’epidermide. Alcuni luoghi offrono sicurezza, ma al prezzo di dimenticare chi si era prima di arrivare. Ti viene dato conforto, ma raramente radici. Le pareti sono calde, ma la porta non la puoi mai chiudere o aprire completamente. Quindi forse la domanda non è se possiamo mai appartenere davvero; forse la domanda è: chi si sente a casa e chi impara invece a portarsela dietro come un fardello, indossato con delicatezza sulle spalle?
I personaggi di Come la Notte (2025)
Adoro la tua scelta di usare il bianco e nero per esaltare l’opposizione tra luce e ombra. Tu usi la tecnica del chiaroscuro in modo non convenzionale e anche se molti elementi narrativi, come il volto di Lilia o la sua tazza, sembrano beneficiarne, penso anche che le cose più importanti che avvengono nella tua storia accadano al di fuori della luce, proprio nella penombra.
Per me, la luce non riguarda mai solo il visibile. Si tratta di ciò che sceglie di rimanere nascosto, ciò che resiste alla cattura. Il chiaroscuro, in questo senso, non è solo una tecnica, ma una filosofia. Mi interessa quello che balugina appena prima di scomparire, la tensione tra ciò che viene esposto e ciò che insiste a rimanere nell’oscurità. Molte delle storie che cerco di raccontare, in particolare quelle che hanno a che fare con la migrazione, il lavoro e il silenzio, non vivono comode alla luce. Rimangono nell’ombra: all’angolo di una cucina, nel tremolio di una mano, nella pausa prima che qualcuno parli. Il volto, la tazza, i gesti sono solo punti d’ingresso. Ciò che conta di più, credo, è l’atmosfera che li circonda. È lì che la storia si nasconde. È lì che il desiderio vive. In Come la Notte, il buio non è vuoto. È pieno. Pieno di ciò che è stato represso, dimenticato o a cui è stata tolta visibilità.
Un’altra cosa che trovo anticonvenzionale è l’uso dell’inquadratura fissa per incorniciare spazi nei quali i tuoi personaggi si muovono costantemente dentro e fuori, a volte come se li sistemassero, preparassero, altre come se stessero semplicemente cercando di evaderli. Ci racconteresti qualcosa in più a tal proposito?
Ho sempre creduto che l’immobilità non sia assenza di movimento, ma un modo di ascoltare. In Come la Notte la macchina da presa non segue, attende. L’inquadratura diventa lo spazio attraverso cui i personaggi si muovono, si organizzano, patiscono o cercano sommessi di fuggire. Specialmente per i migranti, gli spazi non sono mai solo fisici, sono carichi di memoria, potere, ripetizione. Un corridoio può sembrare un confine, una cucina un palcoscenico. L’inquadratura fissa permette a quegli strati di emergere, senza però insistere su di essi. C’è anche qualcosa di dolcemente sovversivo nel mio rifiuto di tagliare, nel lasciare che un momento indugi oltre la sua utilità. Non si tratta di austerità estetica, si tratta di attenzione. Il modo in cui qualcuno piega un asciugamano, chiude una porta, esita prima di parlare, queste non sono solo azioni, sono rivelazioni. L’immobilità, per me, è un modo di onorare ciò che spesso non vediamo. A volte il gesto più radicale è semplicemente rimanere.
Nel drammatizzare una popolazione dalle tradizioni variegate, non solo perché le Filippine sono un Paese con una lunga storia coloniale, ma anche perché i tuoi personaggi avendo vissuto gran parte della loro vita in Italia sembrano vivere nella nostalgia di una patria perduta per sempre, pensi che proprio questo senso di malinconia possa legarsi, in qualche modo, al cattolicesimo? Sembra che leghi Lilia alla sua routine di cura e manutenzione della grande villa che la Signora le ha lasciato, ma penso anche che serva come potente parabola del servizio come una buona azione per l’aldilà.
La malinconia, in questo contesto, non è solo uno stato d’animo personale, ma una condizione storica. È ciò che permane dopo secoli di colonizzazione, dislocazione ed esercizio spirituale. Per molti filippini, il cattolicesimo non è stato solo una religione ma un sistema di governo, uno che ha santificato la sofferenza, romanticizzato l’obbedienza e ci ha insegnato il patimento come forma di santità. Così quando Lilia pulisce la villa, quando se ne occupa con una così sommessa devozione, non sta solo facendo manutenzione di uno spazio, ma sta adempiendo a un rituale che ci è stato insegnato per generazioni: che la cura è una forma di redenzione e che il servizio può guadagnarci un posto in paradiso che non siamo destinati a raggiungere. C’è qualcosa di profondamente tragico, e anche di pacatamente assurdo, in questo. Una donna che eredita una casa che non può chiamare propria, che reitera atti di cura non per gioia, ma per dovere, come se ogni lenzuolo piegato, ogni pavimento lavato, potessero purificare non solo la stanza ma l’anima. La nostalgia non è solo per la patria, ma per un io che un tempo è appartenuto a qualche luogo, a qualcuno, forse anche a Dio. Il cattolicesimo, dopotutto, ci ha inondati di senso di colpa, è sia un’ancora sia una gabbia. Sappiamo metterci in ginocchio, sappiamo chiedere perdono. Ma stiamo ancora tentando di ricordare come si parla nella nostra voce. Quindi sì, c’è una parabola qui, ma non riguarda solo buone azioni e l’aldilà. Riguarda ciò che succede quando la cura diventa una forma di inquietudine. Quando la devozione maschera l’espropriazione. E forse la domanda più urgente non è se Lilia sarà ricompensata nella prossima vita, ma perché, in questa, sente ancora il bisogno di guadagnarsi ciò che già è suo.
Una sequenza del film
Il ritrovo offre i suoi esiti amari ma anche delle riflessioni divertenti. Ho scoperto il nesso tra consumo di caffè e pressione alta proprio mentre guardavo il tuo film: ne avevo bevuto troppo e, soffrendo del disturbo opposto a quello di Lilia, ho avuto qualche vertigine e la tempistica mi ha fatto ridere. A tal proposito, c’è un momento dove i fratelli parlano della sanità pubblica come fosse qualcosa di incredibile, quasi fuori dalla loro comprensione. Tu credi che un sistema di assistenza sanitaria pubblica, come quello che c’è in Italia, in qualche modo possa minare quell’atteggiamento penitenziale, così comunemente (ed erroneamente) apprezzato dai facoltosi proprietari di casa nei confronti dei loro collaboratori domestici filippini?
Questo è un tempismo incredibile! Il cinema che incontra la pressione sanguigna, letteralmente! Sì, penso che l’assistenza sanitaria pubblica, nella sua forma ideale, possa mettere tranquillamente fine a questa vecchia fantasia penitenziale. Ti dice che meriti assistenza non perché hai sofferto abbastanza, ma perché esisti. Questa è già una cosa rivoluzionaria in un mondo dove molti filippini sono elogiati per l’entità del dolore che sopportano senza lamentarsi. Improvvisamente, il riposo e la guarigione non sono ricompense morali: sono diritti. E forse è per questo che ai personaggi appare così incomprensibile… Va contro tutte le credenze che sono state loro insegnate. Controlli gratuiti? Non serve fare la novena? Miracoloso.
Durante il ritrovo, i fratelli continuano a rievocare vecchi ricordi di quando erano piccoli: Rosa e Manny sembrano ricordare molte cose del loro passato in madrepatria mentre Lilia, nonostante sia la più grande, non le ricorda. In seguito, la donna ammette di aver dimenticato molte delle sofferenze e dei ricordi dolorosi dei tempi nelle Filippine. Tu pensi che per sopravvivere si debba conoscere l’arte dell’oblio e usarla, di tanto in tanto? I parametri cambiano in base all’estrazione sociale o allo status?
L’oblio, per una come Lilia non è un fallimento, è sopravvivenza. È un modo per fare spazio quando la memoria diventa troppo pesante da trasportare. Ma siamo chiari: per molti migranti non sempre dimenticare è una scelta. È una condizione imposta dallo spostamento, dalla stanchezza e dalla violenza della ripetizione. Quando passi le giornate a pulire le case degli altri, a prenderti cura della famiglia degli altri, il tuo stesso passato comincia a dissolversi, lentamente, delicatamente. Ciò che ricordi inizia a contare meno di ciò che devi sopportare. Ai migranti viene rubata la memoria di continuo. Attraverso la distanza, attraverso il tempo, attraverso i sistemi che valorizzano il loro lavoro ma cancellano i loro nomi. E poi arriva la nostalgia - come un veleno condito con il conforto. La nostalgia romanticizza quello che una volta era doloroso, appiattisce la complessità in qualcosa di esportabile. Ma la nostalgia è pericolosa perché è spesso l’unica forma di memoria consentita: sentimentale, assimilabile, innocua. E così la vera domanda diventa: chi racconterà le loro storie in futuro? Quale versione della loro storia sopravviverà? Sarà filtrata attraverso la lente caritatevole, o della resilienza o dell’orgoglio patriottico? Oppure sarà finalmente raccontata nella propria forma frammentata, complessa, ordinaria e profondamente umana? Perché la memoria, come la storia, è sempre un terreno controverso. E se non la proteggiamo, qualcun altro la riscriverà per noi e la chiamerà gratitudine.
Un vecchio detto recita: “Puoi perdonare, ma non dimenticare” … Non so ancora quale sia la mia posizione in merito. Io poi tendo molto spesso a dimenticare le cose. Qual è la tua opinione in merito? Si può dimenticare e sopravvivere in un modo crudele e ingiusto come questo, soprattutto nella tua storia? Il finale inatteso di Come la Notte sembra negare questa possibilità.
Ho sempre trovato che “perdonare ma non dimenticare” fosse un rimedio troppo semplice per la complessità delle ferite reali. Per la gente plasmata dalla migrazione, dai residui coloniali e dalle forme silenziose di espropriazione, la memoria non è solo ricordo, è sedimento. Si accumula nel corpo, si trasmette attraverso la gestualità, il silenzio, la sopravvivenza. In Come la Notte la memoria non è nostalgica, è inquieta. Riemerge attraverso gli sguardi, attraverso i pasti, attraverso l’incapacità di parlare chiaramente. E quando la memoria si infiamma in questo modo, può tramutarsi in qualcosa di irriconoscibile, una sorta di impalcatura emotiva fabbricata dalla storia, dal dolore e dalla sopravvivenza. Un mostro, certo, ma uno che non abbiamo creato da soli. Il dimenticare è spesso ciò che il potere chiede di fare agli emarginati. E il perdono, quando è affrettato o atteso, diventa solo un’ulteriore forma di controllo, un silenziamento mascherato da virtù. Ma io credo in qualcosa di più inquietante, e forse più luminoso: il perdono radicale. Non quello che nega l’accaduto, ma quello che insiste sul fatto che il dolore non definirà il futuro. È un perdono che non cancella la storia, si rifiuta semplicemente di riportarne la crudeltà. A volte, dare a qualcuno o a noi stessi un’opportunità è l’atto più radicale. Specialmente quando la storia ci chiede di rimanere fragili. In questo senso, perdonare non significa lasciare andare il passato. Si tratta di insistere sul fatto che esiste ancora qualcosa di più di ciò che il passato ha fatto di noi.
In questa accurata, meravigliosa storia di perdita e identità, ci vedo, più che un avvertimento dell’avidità morale e dei traumi sociali, una parabola aperta sui bei ricordi e sulla speranza religiosa. Sento che, in Come la Notte, tu hai voluto unire i sensi stessi della perdita, della colpa e del rancore sul medesimo piano, come a formare una sorta di (azzardo) santissima trinità, così da giustificare l’insensatezza stessa della tradizione e l’imprevedibilità della vita. Ci ho preso oppure no?
Forse ci hai preso. O forse è al contempo sia avvertimento travestito da parabola, o parabola che si apre dispiegando un avvertimento. Non credo nelle categorie nette, soprattutto quando si parla di dolore. Come la Notte è pieno di contraddizioni perché è quello che la storia ci lascia: frammenti, fantasmi, gesti d’affetto ereditati che trasportano con sé i residui del male. Se c’è qui una santissima trinità, perdita, colpa, rancore, non è perché si vuole santificare la sofferenza, ma per mostrare quanto essa sia stata profondamente ritualizzata. Il colonialismo non si è limitato a dividere nazioni, ma ha costruito altari dentro di noi. I fratelli non rappresentano semplicemente i personaggi, fanno da eco a ciò che accade quando la violenza viene assorbita così personalmente da cominciare a percepirsi come cura. Perciò sì, può essere sentita come una speranza religiosa. Ma è anche un esorcismo silente. Alla fine, non mi interessa se qualcuno vedrà il film come una preghiera o una maledizione, purché ne avverta il peso. Dopotutto, non siamo qui per offrire chiarimenti, ma giusto per assicurarci che il silenzio non vinca.
Come la Notte (2025)
A cura di Pavel Belli Micati
INT-95
11.05.2025
Durante la scorsa edizione della Berlinale, nella sezione Perspectives, Liryc Dela Cruz ha concorso con il suo primo lungometraggio, Come la Notte (o Where the Night Stands Still per i distributori internazionali). Il film racconta la visita che due fratelli, Manny e Rosa, fanno alla sorella maggiore Lilia. Tutti e tre filippini, vivono e lavorano in Italia; la più grande, che ha prestato servizio per oltre trent’anni nella casa di una signora benestante morta durante il covid, ha ereditato la grande villa della donna scomparsa senza lasciare superstiti.
Nel presente di uno spazio bianco e nero attraversato da luci e ombre, la grande magione si offre a luogo dove i tre fratelli, ritrovandosi, si confrontano col loro passato condiviso, mettendo a punto quello che sarà del loro futuro prossimo. Rosa e Manny, più giovani di Lilia, sono preoccupati della promessa che la sorella ha fatto alla Signora, ossia prendersi cura della casa finché è in vita. Lilia, dal proprio canto, rimane ferma sulla sua decisione e, nonostante l’isolamento in cui vive e l’età che avanza, non ha intenzione di sciogliere il patto stretto con la donna. Con il calare del sole però arriva la notte che illumina traumi, gelosie ed emozioni mai confessate…
In occasione della doppia premiere italiana al Bolzano Film Festival, dove ha da poco ricevuto il premio per la Miglior Prestazione Artistica, e al Bellaria Film Festival, abbiamo avuto il piacere di intervistare Liryc Dela Cruz.
Liryc Dela Cruz e il cast di Come la notte alla Berlinale 2025
Liryc, innanzitutto grazie del tuo tempo e spazio. Tu hai diretto e scritto Come la Notte. Ci racconteresti un po’ da dov’è nata questa tua idea e quale è stato il suo sviluppo?
Ciao Pavel! Grazie per l’opportunità! Allora, Come la Notte non doveva inizialmente essere come si presenta oggi. La sera prima dell’inizio delle riprese, il figlio di quella che avrebbe dovuto essere l’attrice protagonista è risultato positivo al covid. E così, la storia che fino a quel momento avevamo costruito è crollata. Nel viaggio in pullman dalla Stazione Tiburtina verso Trento, con le borse sotto gli occhi e una calma insolita in mezzo al caos, i colleghi de Il Mio Filippino Collective mi hanno aiutato a riscriverla descrivendola, più che dalla sceneggiatura, dalle storie che ci siamo sempre portati dietro: frammenti di ricordi, le dicerie, i silenzi condivisi della diaspora filippina in Italia. Alcuni riferimenti letterari sono rimasti con me, e hanno contribuito ad ancorarmi mentre intrecciavamo insieme finzione, memoria, e improvvisazione durante i cambi repentini avvenuti mentre scrivevamo. Sul set non c’era nulla di prestabilito. Gli attori erano anche la crew, mi hanno aiutato a gestire la logistica, a sistemare la scena, a cucinare tra una ripresa e l’altra. Ognuno di loro cambiava forma. Questa è stata la parte meravigliosa, indispensabile. Non abbiamo semplicemente fatto un film; abbiamo imparato, disimparato, costruendo uno spazio dove l’autorialità era collettiva, e il cinema è diventato una pratica di sopravvivenza, adattamento e cura. Il film è diventato ciò che doveva essere: fluido, privato, fatale.
Tu sei filippino, ma hai anche vissuto molti anni in Italia. Trovo delle somiglianze tra la tua esperienza personale di straniero che vive e lavora all’estero e i tuoi personaggi, che sono tutti nati nelle Filippine ma hanno vissuto la maggior parte della loro vita in Italia, lavorando come assistenti domestici. Cosa cambia e cosa non cambia, nella condizione di straniero, tra il lavoro nell’ambito domestico e quello in uno artistico?
Cosa cambia? La divisa forse. Cosa non cambia? Quasi tutto il resto. Sia come collaboratore domestico sia come artista, impari ad esibirti, a adattare il tuo corpo, il tuo tono, persino il tuo silenzio, per sopravvivere in spazi che non sono mai stati pensati per te. A uno viene chiesto di pulire senza lasciare tracce; all’altro di parlare, ma solo in modi ritagliati al contesto. Il lavoro è diverso, ma l’asimmetria è la stessa. In entrambi sono presenti l’aspettativa, la fatica, l’invisibilità e la richiesta, costante, di dimostrare gratitudine. Sono terribilmente consapevole del privilegio di classe che ora mi porto dietro. Essere un’artista mi dà accesso a piattaforme, visibilità, mobilità, cose che alla maggior parte dei lavoratori migranti, soprattutto ai filippini che lavorano nell’assistenza, vengono sistematicamente negate. Ecco il violento paradosso. Ti è permesso di raccontare le loro storie, ma il sistema di rado permette loro di raccontare la propria. È per questo che esiste Il Mio Filippino Collective. Non è un progetto di rappresentanza, ma uno di autodeterminazione. Lavoriamo direttamente con i lavoratori filippini, non per parlare a loro nome, ma per costruire insieme strumenti: artistici, politici, radicati. Strumenti che permettano la riappropriazione della nostra immagine, del nostro tempo, del nostro lavoro, del nostro respiro. Strumenti che non soltanto resistano allo sfruttamento, ma che immaginino al di là di esso. Perché per decolonizzare il corpo filippino, dobbiamo prima rivendicare il diritto di raccontarlo e poi di sognarlo diversamente.
In un momento del film, Lilia confessa ai fratelli un cupo senso di colpa che non riesce a scrollarsi di dosso: non riesce ad apprezzare sinceramente il dono ereditato dalla Signora perché non lo sente come fosse la propria casa. Rosa la rassicura che il senso di colpa che prova è parte di una tradizione filippina del "portarsi con sé il ricordo stesso di vivere in una terra straniera". Ci puoi raccontare di più a proposito di questo senso nomadico complesso?
Quel momento tra Lilia e Rosa racchiude in sé molto di ciò che il film affronta in silenzio: l’eredità, il dislocamento e il peso della gratitudine che rasenta il dolore. La casa che Lilia eredita non è solo una casa, ma un monumento alla violenza particolare della prossimità. Ci ha vissuto per anni, se ne è presa cura più delle stesse persone che l’hanno posseduta, eppure non le è mai appartenuta veramente. È una sensazione familiare per molti filippini all’estero: ci vengono affidati dagli altri i loro spazi privati, i loro bambini, i loro anziani, i loro moribondi, ma raramente ci è permesso di appartenere pienamente al mondo che aiutiamo a mantenere. Le parole di Rosa sono allo stesso tempo tenere e accusatorie: indicano qualcosa di più profondo del senso di colpa, si riferiscono all’eredità coloniale, che ci ha insegnato a essere grati degli avanzi, a trovare dignità nella servitù e a portarci nel silenzio i nostri traumi per non dare fastidio. Il filippino all’estero vive spesso in questa esibizione di umiltà, di resilienza. Scherziamo, cuciniamo per tutti, andiamo avanti. Ma sotto c’è una stanchezza profonda, secolare. Una memoria che non è nostra del tutto, ma che si tramanda attraverso il sangue, il canto e l’epidermide. Alcuni luoghi offrono sicurezza, ma al prezzo di dimenticare chi si era prima di arrivare. Ti viene dato conforto, ma raramente radici. Le pareti sono calde, ma la porta non la puoi mai chiudere o aprire completamente. Quindi forse la domanda non è se possiamo mai appartenere davvero; forse la domanda è: chi si sente a casa e chi impara invece a portarsela dietro come un fardello, indossato con delicatezza sulle spalle?
I personaggi di Come la Notte (2025)
Adoro la tua scelta di usare il bianco e nero per esaltare l’opposizione tra luce e ombra. Tu usi la tecnica del chiaroscuro in modo non convenzionale e anche se molti elementi narrativi, come il volto di Lilia o la sua tazza, sembrano beneficiarne, penso anche che le cose più importanti che avvengono nella tua storia accadano al di fuori della luce, proprio nella penombra.
Per me, la luce non riguarda mai solo il visibile. Si tratta di ciò che sceglie di rimanere nascosto, ciò che resiste alla cattura. Il chiaroscuro, in questo senso, non è solo una tecnica, ma una filosofia. Mi interessa quello che balugina appena prima di scomparire, la tensione tra ciò che viene esposto e ciò che insiste a rimanere nell’oscurità. Molte delle storie che cerco di raccontare, in particolare quelle che hanno a che fare con la migrazione, il lavoro e il silenzio, non vivono comode alla luce. Rimangono nell’ombra: all’angolo di una cucina, nel tremolio di una mano, nella pausa prima che qualcuno parli. Il volto, la tazza, i gesti sono solo punti d’ingresso. Ciò che conta di più, credo, è l’atmosfera che li circonda. È lì che la storia si nasconde. È lì che il desiderio vive. In Come la Notte, il buio non è vuoto. È pieno. Pieno di ciò che è stato represso, dimenticato o a cui è stata tolta visibilità.
Un’altra cosa che trovo anticonvenzionale è l’uso dell’inquadratura fissa per incorniciare spazi nei quali i tuoi personaggi si muovono costantemente dentro e fuori, a volte come se li sistemassero, preparassero, altre come se stessero semplicemente cercando di evaderli. Ci racconteresti qualcosa in più a tal proposito?
Ho sempre creduto che l’immobilità non sia assenza di movimento, ma un modo di ascoltare. In Come la Notte la macchina da presa non segue, attende. L’inquadratura diventa lo spazio attraverso cui i personaggi si muovono, si organizzano, patiscono o cercano sommessi di fuggire. Specialmente per i migranti, gli spazi non sono mai solo fisici, sono carichi di memoria, potere, ripetizione. Un corridoio può sembrare un confine, una cucina un palcoscenico. L’inquadratura fissa permette a quegli strati di emergere, senza però insistere su di essi. C’è anche qualcosa di dolcemente sovversivo nel mio rifiuto di tagliare, nel lasciare che un momento indugi oltre la sua utilità. Non si tratta di austerità estetica, si tratta di attenzione. Il modo in cui qualcuno piega un asciugamano, chiude una porta, esita prima di parlare, queste non sono solo azioni, sono rivelazioni. L’immobilità, per me, è un modo di onorare ciò che spesso non vediamo. A volte il gesto più radicale è semplicemente rimanere.
Nel drammatizzare una popolazione dalle tradizioni variegate, non solo perché le Filippine sono un Paese con una lunga storia coloniale, ma anche perché i tuoi personaggi avendo vissuto gran parte della loro vita in Italia sembrano vivere nella nostalgia di una patria perduta per sempre, pensi che proprio questo senso di malinconia possa legarsi, in qualche modo, al cattolicesimo? Sembra che leghi Lilia alla sua routine di cura e manutenzione della grande villa che la Signora le ha lasciato, ma penso anche che serva come potente parabola del servizio come una buona azione per l’aldilà.
La malinconia, in questo contesto, non è solo uno stato d’animo personale, ma una condizione storica. È ciò che permane dopo secoli di colonizzazione, dislocazione ed esercizio spirituale. Per molti filippini, il cattolicesimo non è stato solo una religione ma un sistema di governo, uno che ha santificato la sofferenza, romanticizzato l’obbedienza e ci ha insegnato il patimento come forma di santità. Così quando Lilia pulisce la villa, quando se ne occupa con una così sommessa devozione, non sta solo facendo manutenzione di uno spazio, ma sta adempiendo a un rituale che ci è stato insegnato per generazioni: che la cura è una forma di redenzione e che il servizio può guadagnarci un posto in paradiso che non siamo destinati a raggiungere. C’è qualcosa di profondamente tragico, e anche di pacatamente assurdo, in questo. Una donna che eredita una casa che non può chiamare propria, che reitera atti di cura non per gioia, ma per dovere, come se ogni lenzuolo piegato, ogni pavimento lavato, potessero purificare non solo la stanza ma l’anima. La nostalgia non è solo per la patria, ma per un io che un tempo è appartenuto a qualche luogo, a qualcuno, forse anche a Dio. Il cattolicesimo, dopotutto, ci ha inondati di senso di colpa, è sia un’ancora sia una gabbia. Sappiamo metterci in ginocchio, sappiamo chiedere perdono. Ma stiamo ancora tentando di ricordare come si parla nella nostra voce. Quindi sì, c’è una parabola qui, ma non riguarda solo buone azioni e l’aldilà. Riguarda ciò che succede quando la cura diventa una forma di inquietudine. Quando la devozione maschera l’espropriazione. E forse la domanda più urgente non è se Lilia sarà ricompensata nella prossima vita, ma perché, in questa, sente ancora il bisogno di guadagnarsi ciò che già è suo.
Una sequenza del film
Il ritrovo offre i suoi esiti amari ma anche delle riflessioni divertenti. Ho scoperto il nesso tra consumo di caffè e pressione alta proprio mentre guardavo il tuo film: ne avevo bevuto troppo e, soffrendo del disturbo opposto a quello di Lilia, ho avuto qualche vertigine e la tempistica mi ha fatto ridere. A tal proposito, c’è un momento dove i fratelli parlano della sanità pubblica come fosse qualcosa di incredibile, quasi fuori dalla loro comprensione. Tu credi che un sistema di assistenza sanitaria pubblica, come quello che c’è in Italia, in qualche modo possa minare quell’atteggiamento penitenziale, così comunemente (ed erroneamente) apprezzato dai facoltosi proprietari di casa nei confronti dei loro collaboratori domestici filippini?
Questo è un tempismo incredibile! Il cinema che incontra la pressione sanguigna, letteralmente! Sì, penso che l’assistenza sanitaria pubblica, nella sua forma ideale, possa mettere tranquillamente fine a questa vecchia fantasia penitenziale. Ti dice che meriti assistenza non perché hai sofferto abbastanza, ma perché esisti. Questa è già una cosa rivoluzionaria in un mondo dove molti filippini sono elogiati per l’entità del dolore che sopportano senza lamentarsi. Improvvisamente, il riposo e la guarigione non sono ricompense morali: sono diritti. E forse è per questo che ai personaggi appare così incomprensibile… Va contro tutte le credenze che sono state loro insegnate. Controlli gratuiti? Non serve fare la novena? Miracoloso.
Durante il ritrovo, i fratelli continuano a rievocare vecchi ricordi di quando erano piccoli: Rosa e Manny sembrano ricordare molte cose del loro passato in madrepatria mentre Lilia, nonostante sia la più grande, non le ricorda. In seguito, la donna ammette di aver dimenticato molte delle sofferenze e dei ricordi dolorosi dei tempi nelle Filippine. Tu pensi che per sopravvivere si debba conoscere l’arte dell’oblio e usarla, di tanto in tanto? I parametri cambiano in base all’estrazione sociale o allo status?
L’oblio, per una come Lilia non è un fallimento, è sopravvivenza. È un modo per fare spazio quando la memoria diventa troppo pesante da trasportare. Ma siamo chiari: per molti migranti non sempre dimenticare è una scelta. È una condizione imposta dallo spostamento, dalla stanchezza e dalla violenza della ripetizione. Quando passi le giornate a pulire le case degli altri, a prenderti cura della famiglia degli altri, il tuo stesso passato comincia a dissolversi, lentamente, delicatamente. Ciò che ricordi inizia a contare meno di ciò che devi sopportare. Ai migranti viene rubata la memoria di continuo. Attraverso la distanza, attraverso il tempo, attraverso i sistemi che valorizzano il loro lavoro ma cancellano i loro nomi. E poi arriva la nostalgia - come un veleno condito con il conforto. La nostalgia romanticizza quello che una volta era doloroso, appiattisce la complessità in qualcosa di esportabile. Ma la nostalgia è pericolosa perché è spesso l’unica forma di memoria consentita: sentimentale, assimilabile, innocua. E così la vera domanda diventa: chi racconterà le loro storie in futuro? Quale versione della loro storia sopravviverà? Sarà filtrata attraverso la lente caritatevole, o della resilienza o dell’orgoglio patriottico? Oppure sarà finalmente raccontata nella propria forma frammentata, complessa, ordinaria e profondamente umana? Perché la memoria, come la storia, è sempre un terreno controverso. E se non la proteggiamo, qualcun altro la riscriverà per noi e la chiamerà gratitudine.
Un vecchio detto recita: “Puoi perdonare, ma non dimenticare” … Non so ancora quale sia la mia posizione in merito. Io poi tendo molto spesso a dimenticare le cose. Qual è la tua opinione in merito? Si può dimenticare e sopravvivere in un modo crudele e ingiusto come questo, soprattutto nella tua storia? Il finale inatteso di Come la Notte sembra negare questa possibilità.
Ho sempre trovato che “perdonare ma non dimenticare” fosse un rimedio troppo semplice per la complessità delle ferite reali. Per la gente plasmata dalla migrazione, dai residui coloniali e dalle forme silenziose di espropriazione, la memoria non è solo ricordo, è sedimento. Si accumula nel corpo, si trasmette attraverso la gestualità, il silenzio, la sopravvivenza. In Come la Notte la memoria non è nostalgica, è inquieta. Riemerge attraverso gli sguardi, attraverso i pasti, attraverso l’incapacità di parlare chiaramente. E quando la memoria si infiamma in questo modo, può tramutarsi in qualcosa di irriconoscibile, una sorta di impalcatura emotiva fabbricata dalla storia, dal dolore e dalla sopravvivenza. Un mostro, certo, ma uno che non abbiamo creato da soli. Il dimenticare è spesso ciò che il potere chiede di fare agli emarginati. E il perdono, quando è affrettato o atteso, diventa solo un’ulteriore forma di controllo, un silenziamento mascherato da virtù. Ma io credo in qualcosa di più inquietante, e forse più luminoso: il perdono radicale. Non quello che nega l’accaduto, ma quello che insiste sul fatto che il dolore non definirà il futuro. È un perdono che non cancella la storia, si rifiuta semplicemente di riportarne la crudeltà. A volte, dare a qualcuno o a noi stessi un’opportunità è l’atto più radicale. Specialmente quando la storia ci chiede di rimanere fragili. In questo senso, perdonare non significa lasciare andare il passato. Si tratta di insistere sul fatto che esiste ancora qualcosa di più di ciò che il passato ha fatto di noi.
In questa accurata, meravigliosa storia di perdita e identità, ci vedo, più che un avvertimento dell’avidità morale e dei traumi sociali, una parabola aperta sui bei ricordi e sulla speranza religiosa. Sento che, in Come la Notte, tu hai voluto unire i sensi stessi della perdita, della colpa e del rancore sul medesimo piano, come a formare una sorta di (azzardo) santissima trinità, così da giustificare l’insensatezza stessa della tradizione e l’imprevedibilità della vita. Ci ho preso oppure no?
Forse ci hai preso. O forse è al contempo sia avvertimento travestito da parabola, o parabola che si apre dispiegando un avvertimento. Non credo nelle categorie nette, soprattutto quando si parla di dolore. Come la Notte è pieno di contraddizioni perché è quello che la storia ci lascia: frammenti, fantasmi, gesti d’affetto ereditati che trasportano con sé i residui del male. Se c’è qui una santissima trinità, perdita, colpa, rancore, non è perché si vuole santificare la sofferenza, ma per mostrare quanto essa sia stata profondamente ritualizzata. Il colonialismo non si è limitato a dividere nazioni, ma ha costruito altari dentro di noi. I fratelli non rappresentano semplicemente i personaggi, fanno da eco a ciò che accade quando la violenza viene assorbita così personalmente da cominciare a percepirsi come cura. Perciò sì, può essere sentita come una speranza religiosa. Ma è anche un esorcismo silente. Alla fine, non mi interessa se qualcuno vedrà il film come una preghiera o una maledizione, purché ne avverta il peso. Dopotutto, non siamo qui per offrire chiarimenti, ma giusto per assicurarci che il silenzio non vinca.
Come la Notte (2025)