L'apocalisse queer di Greg Araki,
di Lorenzo Sartor
TR-129
07.06.2025
Intervistato da Slant Magazine durante la pre-produzione del suo nuovo film ancora inedito, I Want Your Sex, Gregg Araki ha risposto alla domanda del giornalista Marshall Shaffer sul perché i suoi film degli anni 90 fossero così nichilisti. Al quesito il regista ha obiettato dicendo che i suoi film “non sono mai stati nichilisti, ma romantici”.
Il cinema di Araki (recentemente omaggiato con una retrospettiva al 40° Lovers Film Festival) nasce in un’industria americana dove la rappresentazione dei giovani disfunzionali e dei loro problemi seguiva il modello imposto dai film di John Hughes (Breakfast Club, Ferris Bueller’s Day Off), in cui le disfunzionalità dei teenagers protagonisti erano sempre calate all’interno delle tendenze del momento e seguivano un’idea di coolness che nulla aveva a che fare con lo squallore delle periferie californiane dove il regista di origini nikkei era cresciuto. Mentre i personaggi dei film che avevano più successo in sala vivevano distaccati dai problemi economico-sociali e si rivolgevano esclusivamente a un pubblico borghese, avulso dalle difficoltà delle classi più svantaggiate, Araki dirigeva i suoi primi lavori in un ambiente artistico controcorrente, segnato dalle diversità etniche e di orientamento sessuale, vivendo a stretto contatto con le paure derivanti dalla diffusione dell’AIDS, dagli effetti delle politiche economiche del tempo e delle derive del capitalismo che il cinema americano non aveva intenzione di mettere in discussione.
Riguardare i suoi film con la percezione distorta del presente può portare erroneamente a vedere le opere del cineasta nippo-americano di terza generazione come profetiche rispetto allo stato attuale dell’America. Ma per ogni Trump di oggi è esistito un Reagan, per ogni crisi climatica del presente c’è stata una crisi pandemica che sembrava segnare il destino della comunità queer e per ogni timore di oggi ci sono stati quelli della gioventù di fine anni Ottanta e inizio anni Novanta.
Esaltare, nel 2025, Araki come regista-profeta della società odierna porta con sè il rischio di svalutare il suo vero merito, ossia quello di aver descritto le paure di un’epoca durante il suo stesso divenire e di aver creato un immaginario che però al tempo appariva come storia di cronaca, un’istantanea di quanto il cineasta stesso vedeva nelle strade in cui camminava e non nelle sale che avevano formato il suo gusto. Per cogliere quindi l’importanza dell’immaginario costruito dal cinema di Araki non si può isolarlo dal contesto che gli ha dato vita, ossia quello del New Queer Cinema.
Gregg Araki sul set di Kaboom (2010)
Introduzione irresponsabile e parziale al New Queer Cinema
Non si può definire questo movimento attraverso criteri esclusivamente contenutistici o avere la presunzione di affibbiare l’etichetta “queer” a qualunque regista che faccia parte di una minoranza della comunità LGBTQ+. Film dalla sensibilità kitsch, realizzati da cineasti omosessuali o con trame vicine alle vere vite dei membri della comunità sono sempre esistiti, ma tracciare una linea di questo specifico fenomeno cinematografico, emerso negli ultimi anni ’80 ed evolutosi lungo tutto il successivo decennio, non significa sminuire tutte le altre forme di cinema queer che potevano essersi sviluppate nello stesso periodo.
Parlare di New Queer Cinema equivale, purtroppo, a restringere il proprio campo a una manciata di registi LGBT con simili tratti stilistici, quasi tutti uomini (nonostante la presenza di registe donne, come Jennie Livingston e Lizzie Borden) e, esattamente come la materia trattata nei loro film, promulgatori di una visione troppo fluida per essere ricondotta a schematismi rigidi e dicotomici. B. Ruby Rich, la stessa studiosa di cinema indipendente che nel 1992 coniò il nome del movimento, ha sostenuto in un articolo del 2000 che “contenuti radicali hanno bisogno di una forma radicale”, pertanto le particolarità delle opere devono essere discusse secondo un obiettivo stilistico comune. La rappresentazione al cinema è prima di tutto stilistica, perché altrimenti si potrebbero erroneamente far coincidere i film dai toni cupi di Derek Jarman, Gus Van Sant e dello stesso Araki a un miserabilismo figlio dei peggiori stereotipi americani.
Ma i “belli e dannati” del New Queer Cinema non lo sono perché per i suoi registi essere gay è sinonimo di essere nichilisti, ma perché la società americana li ha resi reietti. In una conversazione con Richard Linklater, anche quest’ultimo calato nella realtà del cinema indipendente, Araki stesso definisce gli autori della propria generazione come freaks e di conseguenza anche i personaggi da loro rappresentati sono segnati dal leitmotiv della fuga perenne verso un non-luogo, verso la fine delle sovrastrutture che li opprimono.
River Phoenix e Keanu Reeves, protagonisti di My Own Private Idaho (Belli e dannati, 1991), film manifesto del New Queer Cinema
Questi poeti della trasgressione cominciano a lavorare in un contesto indipendente, che si prende gioco delle forme del classicismo americano, rielaborandole sotto un immaginario camp che, nella Doom Trilogy di Araki, troverà la sua più radicale estremizzazione. Questa rilettura dei simboli del consumismo occidentale, il rifiuto del realismo pietista e del commerciale agisce così come strumento di riappropriazione di un’importanza sottratta della comunità nella storia del cinema in senso lato, come una riconquista di quello che era stato "rubato" a celebri autori mainstream come John Schlesinger - Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy, 1969) - e come una dichiarata vicinanza al gusto delle avanguardie e del kitsch. È importante ricordare che l’evolversi di questo immaginario è discusso all’interno del contesto più ampio del cinema indipendente americano, perché registi come Todd Haynes (Velvet Goldmine, 1998), Tom Kalin (Swoon, 1992) o Bruce LaBruce (No Skin Off My Ass, 1991) nascono all’interno di un ambiente di dichiarata libertà dai diktat delle grandi major e dalle leggi del mercato.
Ma la nascita di un’etichetta è il primo passo verso la sua proliferazione su larga scala e gli anni Novanta diventano anche palco dell’inevitabile gentrificazione del New Queer Cinema, nonché di un passaggio dalle piccole sale d’autore, quasi sempre vuote, al grande successo del pubblico di massa. Per quanto fino al 2000 ci siano ancora esempi di film avvicinabili al romanticismo cupo o alle rivendicazioni camp di Haynes e Araki, il successo di The Talented Mr. Ripley (Il Talento di Mr. Ripley, 1999) di Anthony Minghella suggella uno stacco tra la materia queer che ha successo nelle sale e il modo in cui il pubblico fruisce il testo di queste opere, nonché un esempio di come i simboli creati dal mondo LGBT siano diventati materia di culto, fino a venire inglobati da una forma che ha limato tutti i suoi eccessi più anti-americani e di contro-cultura, risultando così digeribili anche allo spettatore medio.
In realtà il rapporto con la spettatorialità è sempre stato importante all’interno del panorama cinematografico LGBT, perché come ricorda Laura Mulvey, il cinema queer creava un filtro che fungeva da “travestitismo virtuale” anche per lo spettatore etero, che entrava in sala con l’aspettative di trovare uno spazio di trasgressione momentanea, prima di ritornare alla rigidità del binario tradizionale della sua vita. Invece di analizzare tutti i particolarismi e le singole idee autoriali presenti all’interno di una tendenza che rifiuta l’assimilazione a categorie unilaterali, la filmografia di Araki ci appare oggi come un’occasione per esplorare proprio le modalità attraverso cui un movimento spontaneo di autori individuali può diventare col tempo simbolo di una moda borghese.
Jonathan Rhys Meyers nel ruolo di Brian Slade in Velvet Goldmine (1998) di Todd Haynes
Da nessuna parte: Nouvelle Vague, consumismo e fine del mondo nel paese della libertà
“Speriamo di morire nello stesso istante, in un incidente d’auto o nello scoppio di una bomba nucleare”
Così dice il protagonista Jordan (James Duval) alla propria fidanzata Amy (Rose McGowan) durante una delle notti passate assieme in The Doom Generation. Ma i semi dello stile che porterà Gregg Araki a venire preso in considerazione dai più importanti festival cinematografici e dalla critica emergono già nei suoi primi due film: Three Bewildered People in the Night (1987) e The Long Weekend (O’ Despair, 1989). In queste due opere, realizzate in bianco e nero, con un budget risibile e attori sconosciuti, vengono dichiarate le principali ispirazioni del regista, che non riconoscendo la propria condizione esistenziale nel cinema americano dell’epoca, si rivede maggiormente nei “figli di Marx e della Coca-Cola” del Godard di Masculin-Féminin (Il maschio e la femmina,1966), con cui condivide l’interesse per una piccola troupe, per l’autonomia autoriale e per il gusto romantico verso lo smarrimento generazionale. Il protagonista stesso di Three Bewildered People in the Night è vestito come lo Jena Plissken di Escape from New York (1997: Fuga da New York, 1981), ma afferma di aver visto À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro,1960) a 10 anni. Come lui, anche gli altri personaggi camminano in mezzo ai simboli del capitalismo americano, fanno dichiarazione d'amore o di nichilismo davanti a locandine di Blockbuster estivi, vivono di lunghe conversazioni dirette con estesi campi larghi in cui essi diventano irrilevanti rispetto all’onnipresenza dei prodotti di consumo.
Già in principio Araki riempie le sequenze di riferimenti alle opere sperimentali di Andy Warhol e del cinema classico, esibendo la deriva di un’America dove tutto è riproducibile e nulla ha reale valore.“Vivi, scopa, dimentica” è il consiglio che in O’ Despair un’amica dà al protagonista Michael (Bretton Vail) in una delle loro tante camminate che segnano uno dei principali leitmotiv della filmografia del regista: il vagabondaggio, l’errare di personaggi smarriti verso il nulla, con l’obiettivo di dimenticare ed essere dimenticati. Quanto discusso nei primi film andrà così a culminare nello sviluppo di The Living End (1992), ideale ponte tra gli omaggi alla Nouvelle Vague dei primi lavori e la trilogia successiva, in cui il tema della fuga è rappresentato proprio dal viaggio senza meta di due ragazzi omosessuali, risultati positivi all’HIV, attraverso i luoghi delle province americane da cartolina. Attraverso un road-movie anti-narrativo e privo di qualunque forma di giudizio morale nei confronti dei personaggi, Araki trasforma gli Stati Uniti in un’ideale Far-West post-moderno, in cui i protagonisti scappano da un contesto di edonismo solo per arrivare alla fine del loro percorso ed avere conferma della propria bestialità come esseri umani.
Una sorta di Gangster Story (Arthur Penn, 1967) promiscuo, episodico e che, rispetto agli esordi, presenta una fotografia pop accesa e continuamente sovraesposta, in un viaggio in cui l’ultima destinazione è proprio quel nulla che sarà alla base della Teenage Apocalypse Trilogy. L’unica cosa rimasta in cui i protagonisti possono credere sono proprio i corpi e ciò che esperiscono attraverso essi, messi in scena con un registro iconografico e stilizzato, divenuto ormai emblema di una nuova carnalità che segnerà tutti gli anni Novanta. Una nuova corporeità che però sarà al centro delle critiche che la comunità LGBT muoverà verso Araki, accusandolo di mostrare solo il marcio e il primitivo di un mondo queer che in quel periodo non voleva associarsi a tale rappresentazione.
The Living End (1992)
Con un budget più alto rispetto ai primi film e un cast più ampio di attori presi dalla propria scuola di recitazione (in cui solo il nome feticcio di James Duvall farà da collante a tutti e tre i capitoli), Araki realizza, dal 1993 al 1997, la sua personale elegia in tre atti della gioventù americana, in cui l’apocalisse imminente rimasta sullo sfondo di The Living End diventa il soggetto principale. Il primo capitolo, Totally Fucked Up! (1993) doveva originariamente essere un’ideale seconda parte del suo film precedente, ma dopo vari sviluppi diventa una pagina di cronaca nera disorganica, in cui partendo da un dato reale (l’aumento dei suicidi dei giovani omosessuali americani) Araki sviluppa un racconto sempre più frammentato, in cui i giovani sono ormai inglobati all’interno degli schermi, galleggiano nelle onde radio delle loro TV, sperando di poter offrire testimonianza di un disagio nascosto dai media reali e da adulti praticamente assenti all’interno delle storie raccontante. Un primo capitolo dove sono ancor più palesate le influenze cinematografiche e letterarie, in particolare riguardo la vicinanza di questa gioventù alienata alla trasgressione raccontata nei romanzi dell’autore Dennis Cooper (The Sluths, Frisk), con cui condivide la descrizione cruda delle sequenze di promiscuità e trasgressione, ma anche l’onnipresenza del fantasma della morte che ha segnato un’intera generazione di giovani queer.
Il modello di Godard continua comunque a presentarsi nell’uso di scritte extradiegetiche volte a veicolare l’imminente caduta di una società americana politicamente arretrata, ma il post-modernismo dell’autore californiano prenderà subito altre forme, perché già con il film successivo si assisterà a un altro cambiamento formale. Con The Doom Generation, presentato come “il film eterosessuale di Gregg Araki”, la forma del cineasta muta con i suoi stessi personaggi. Il cinema LGBT omaggiato non è più quello nascosto tra le ombre del mainstream, ma quello anarchico, sopra le righe e roboante di John Waters, e i consueti momenti esistenzialisti sono alternati ad altri frammenti psichedelici o grotteschi. Il regista crea così un triangolo di personaggi che non aspirano all’individualismo post-anni Ottanta, ma direttamente a non essere nulla, come il personaggio X (Johnathon Schaech) che idealmente si riconosce in tutte le etichette di orientamento sessuale o di genere e contemporaneamente in nessuna di esse, mentre quello di Amy Blue (Rose McGowan) viene riconosciuta più volte nel corso del film con un altro nome che più non appartiene a lei, ma bensì a una vita che ha abbandonato e in cui non si riconosce.
Il sogno di un mondo dove ognuno può crearsi con autonomia la propria identità è ormai svanito in favore di un incubo a occhi aperti, in cui il puritanesimo reazionario assume le forme di un male etereo e indefinibile che celebra la tradizione e il binarismo rispetto alla fluidità e al pluralismo identitario. Solo due dei tre personaggi sopravviveranno all’apocalisse di ideali preannunciata dal film, ma la loro destinazione continuerà ad essere un’America che ancora oggi non esiste.
I tre protagonisti di The Doom Generation (1995)
Il nulla esplorato dai primi due capitoli della trilogia verrà raggiunto in Nowhere (1997), in cui i personaggi non tentano più di fuggire da una nazione che non li riconosce, ma si affidano totalmente ai suoi falsi idoli. Il momento profetico di The Doom Generation in cui Amy Rose diceva “L’hanno detto in TV, quindi è tutto vero” si concretizza nel protagonista Dark (James Duvall), che arriva a credere solo in ciò che vede attraverso la televisione, a provare attrazione solo per ciò che gli viene trasmesso da uno schermo, perché come ogni altro personaggio nel film non ha più fede in ciò che è tangibile e carnale, ma solo in ciò che il dispositivo mediale gli comunica. La stessa figura del proselitista televisivo Moses Helper (John Ritter) esiste come monito di una nuova fede che ormai è solo mediata e non può più essere esperita direttamente dall’individuo.
Anche lo stile registico abbandona qualsiasi pretesa di realismo, avvicinandosi alla messa in scena artificiosa e saturata del giallo all’italiana e calando i personaggi come manichini all’interno di scenografie espressioniste, segnate da continui mutamenti degli ambienti e da effetti di eco e riverbero. In questo giallo baviano, in cui le paranoie dei protagonisti prendono effettiva forma come creature aliene uscite dai romanzi di Burroughs, centrale sarà sul finale la negazione dell’esperienza omosessuale e la definitiva condanna della nuova gioventù queer alla solitudine.
Nowhere (1997)
Generazione MTV: gli eterosessuali repressi di Araki
Come scritto precedentemente, il New Queer Cinema negli ultimi anni Novanta è andato incontro a un processo di sottrazione dei suoi elementi più sovversivi, a favore del raggiungimento di una patina da spettacolo di massa. Diventa possibile per film queer come Boys Don’t Cry (1999) di Kimbery Peirce o As Good as It Gets (Qualcosa è cambiato, 1997) di James L. Brooks ricevere premi importanti, ottenere il favore della borghesia. Ciò diventa possibile anche per via di un cambiamento dei media di riferimento e delle mode: a dominare il mercato delle immagini è infatti il modello del videoclip di MTV, delle modelle da copertina di Vogue. In una società che abbraccia lo sfarzo ed esalta il lusso fine a se stesso, la natura camp nel cinema LGBT non può più essere vista come disubbidienza rispetto a una moda borghese, ma diventa anch’essa una piccola parte di un immaginario laccato e riproducibile.
Ciò che prima era straniante e rappresentava con film come Paris is Burning (1990) una riappropriazione del gusto per l’eccesso, che è sempre stato fondamento dell’identità queer, nella generazione degli show MTV e dell’ostentazione della trasgressione diventa solamente una nuova forma di prodotto di consumo e un’ulteriore modalità di riaffermazione di un modello neoliberista. Il cinema di corpi che mutano in continuazione di Araki non può quindi più essere di rottura, sopratutto in un momento storico in cui le modelle più affermate, come Linda Evangelista e Kate Moss, hanno reso il trasformismo e il continuo cambiamento dei loro modi di apparire in una moda a cui aspirare, emblema nell’epoca dell’heroin chic e della ribellione venduta su vasta scala. Per sopravvivere alla fine di un’epoca e a questa gentrificazione di un intero immaginario, lo stile del cineasta nippo-americano deve affrontate un ulteriore stravolgimento, per potersi calare all’interno di questo nuovo mondo e distruggerlo dall’interno.
Il suo successivo film Splendor (1999) nasce proprio dalla necessità di inserirsi in questo nuovo linguaggio di massa e altro non è che la risposta satirica al modello del videoclip: attori dai capelli laccati e usciti da un catalogo pubblicitario recitano dialoghi artificiosi all’interno di stanze stilizzate, circondati da orologi troppo grandi, mobili sproporzionati e luci da set fotografico, mentre la loro figura viene riprodotta in schermi, foto, pubblicità e altri emblemi della società delle immagini. La stessa protagonista inizialmente rinuncia a una relazione con altri due uomini che ama per stare assieme alla rappresentazione ideale dell’uomo tradizionale, possibile padre di famiglia e vicino a tutto ciò che rappresenta il sogno americano. Araki riempie così il film di simboli della cultura edonista, fino a far rigettare alla propria protagonista tale eccesso di icone, facendo apparire la poligamia come unica soluzione all’anemia causata da un modello di vita conservatore.
Splendor (1999)
Il discorso sulla decostruzione del modello MTV sarebbe dovuto continuare con la produzione di una serie televisiva prodotta dalla stessa emittente, ovvero This is how the world ends (2000), che non è mai andata in onda e di cui è rimasto solo l’episodio pilota. Un incrocio grottesco tra Dawson’s Creek e Twin Peaks, in cui ogni episodio si sarebbe dovuto concludere con la morte di tutti i personaggi, la cui cancellazione rimane invece simbolo di una contro-cultura che deve ancora capire come inserirsi all’interno del sistema di massa.
Tale conciliazione arriverà proprio con film più iconico di questa fase, Mysterious Skin (2004), in cui Araki adatta tutti gli elementi fondativi della sua carriera a un modello di teen-drama che palesa l’influenza dalle nuove serie CW e dai nuovi manifesti generazionali (a loro volta ispirati alla Teenage Apocalypse Trilogy) come ad esempio Donnie Darko (2001) di Richard Kelly.
Araki chiude così un cerchio, ritornando alla corporeità dei suoi personaggi smarriti e disillusi per raccontare la stessa gioventù degli anni Novanta, non più secondo una prospettiva attuale, ma ritornando a quel passato senza alcun filtro nostalgico. La mancanza con cui i due protagonisti devono fare i conti è in questo caso un processo di rimozione da parte di Brian (Brady Corbet) e alla paura di venire dimenticati delle prime opere si sostituisce una rivendicazione del diritto all’oblio, al lasciare andare il proprio trauma per vivere in funzione di una rinnovata carnalità. La volontà dell’autore di non indicare un’unica modalità di vivere il trauma e quella dei personaggi di sparire nel nulla altro non è che la rivendicazione di un’identità "aliena" rispetto al modello dominante, che ora può essere espressa anche all’interno di un cinema conforme al gusto della massa e che non si fa assuefare dalla tendenza, ma dialoga con quest’ultima.
Mysterious Skin (2004)
Verso un cinema queer per le masse (o verso un cinema di massa per queer)
Il primo decennio del XXI secolo è stato contraddistinto da un ritorno al pessimismo che il cinema queer sembrava aver abbandonato negli ultimi anni ’90. Sia nel mainstream che nei grandi festival sembra instillarsi un sentimento di disfattismo per le narrazioni con protagonisti LGBT, che da una parte ha il merito di affrontare il passato dell’America in chiave anti-nostalgica e di aumentare la consapevolezza della massa riguardo le sofferenze affrontate da queste minoranze, ma dall’altra porta al ritorno di stilemi datati e a una modalità di rappresentazione pietistica che il New Queer Cinema aveva abbandonato.La risposta del cinema di Araki a questa deriva mainstream è quindi di natura puramente stilistica, un ritorno al camp e all’esagerazione dei primi lavori, ma con una forma narrativa accessibile e meno radicale.
Gli ultimi tre film di questa fase sono quindi molto diversi tra loro: il primo, Smiley Face (2007), si inserisce all’interno del rinnovamento avvenuto nei primi anni 2000 della Stoner Comedy americana, una serie di commedie che vedevano come protagonisti comici usciti perlopiù dal Saturday Night Live, o comunque dalla scena stand-up commedy USA, e che ruotavano attorno alle vite trasgressive di giovani americani, tra marijuana, alcol e sesso disimpegnato. Per quanto inizialmente accolti con sufficienza da parte della critica, i film che facevano parte di questo sotto-genere, come Superbad (2007) di Greg Mottola, riescono a descrivere l’America del terzo millennio con una trasgressione anti-istituzionale romantica che ha molto in comune con il cinema di Araki, esattamente come Project X (2012) di Nima Nourizadeh è riuscito a riportare nel mainstream USA quel sentimento di smarrimento e di timore apocalittico della Teenage Apocalypse Trilogy.
Smiley Face rientra nei canoni di questa tendenza, estremizzando la sua natura kitsch e calando la protagonista (la comica Anna Faris) all’interno di una giornata nella vita disfunzionale di un personaggio senza prospettive future, perennemente allucinata dall’uso di sostanze stupefacenti. I ribaltamenti di prospettiva, il montaggio ipercinetico e la fotografia saturata aiutano a esprimere uno stato di costante alienazione dalla realtà tangibile, in una sorta di fuga dalle pressioni neoliberiste del mondo moderno, che nel finale sembra realizzarsi proprio attraverso l’arresto della protagonista “anormale” e nella sua esclusione dalla società civile.
Now Apocalypse (2019)
Lo stato di perenne alterazione di forma e contenuto ritornerà anche nel successivo Kaboom (2010), che rappresenta l’estremo più ludico e parodico di un’intera filmografia, in una sorta di satira di tutti i temi e dei cliché del New Queer Cinema. Le paranoie che hanno costellato la Teenage Apocalypse Trilogy vengono estremizzate, in un esercizio di stile che si prende gioco del nuovo status di cult di cui tali lavori hanno cominciato a godere solo negli ultimi anni. La fine del mondo non è più una paura irrazionale o inspiegabile, ma un espediente camp con cui prendersi gioco del cinema di oggi e per mostrare ciò che in potenza la sua serie televisiva mai realizzata sarebbe potuta diventare, ma che verrà realizzata concretamente solo con Now Apocalypse (2019), serie tv in dieci episodi in cui centrali saranno i deliri cospirazionisti dei personaggi e i presagi di sventura che li tormenteranno, che però non vedranno ulteriori sviluppi dopo la cancellazione avvenuta sul finale della prima stagione.
Ma Kaboom non sarà l’ultima volta in cui il cineasta si confronterà col passato del movimento, perché quattro anni dopo uscirà White Bird in a Blizzard (2014), in cui ritorna l’interesse di Araki per il giallo e per il tema della mancanza, in questo caso la sparizione della madre della protagonista Kat (Shailene Woodley). La madre Eve (Eva Green) sarà sempre presente solo come fantasma, come parte di flashback distorti o di visioni alterate della realtà, divenendo una mancanza sia fisica che figurativa per i personaggi. Alla base di questa rimozione rimangono ancora una volta la negazione dell’esperienza gay e l’imposizione della società anni Novanta di modelli di mascolinità e femminilità che l’autore non ha mai smesso di decostruire, nemmeno nel suo cinema più formalmente quadrato e narrativamente canonico.
Manifesto di una generazione che ha sempre vissuto nell’imminenza della propria fine, il cinema di Gregg Araki non ha mai smesso di trattare del disorientamento dei giovani nel contemporaneo e infatti, su sua stessa ammissione, il suo prossimo film I Want Your Sex tratterà delle differenze tra come la Gen Z e le generazioni precedenti vivono la sessualità, su come oggi più che mai esista la necessità di un ritorno al piacere dei corpi. Perché come detto dal cineasta nella conversazione con Richard Linklater, chi oggi è adulto conosce il sentimento di confusione che stanno vivendo ora le nuove generazioni e lui non vuole “essere quel vecchio tizio che si lamenta dei nuovi film e dei giovani”.
Eva Green in White Bird in a Blizzard (2014)
L'apocalisse queer di Greg Araki,
di Lorenzo Sartor
TR-129
07.06.2025
Intervistato da Slant Magazine durante la pre-produzione del suo nuovo film ancora inedito, I Want Your Sex, Gregg Araki ha risposto alla domanda del giornalista Marshall Shaffer sul perché i suoi film degli anni 90 fossero così nichilisti. Al quesito il regista ha obiettato dicendo che i suoi film “non sono mai stati nichilisti, ma romantici”.
Il cinema di Araki (recentemente omaggiato con una retrospettiva al 40° Lovers Film Festival) nasce in un’industria americana dove la rappresentazione dei giovani disfunzionali e dei loro problemi seguiva il modello imposto dai film di John Hughes (Breakfast Club, Ferris Bueller’s Day Off), in cui le disfunzionalità dei teenagers protagonisti erano sempre calate all’interno delle tendenze del momento e seguivano un’idea di coolness che nulla aveva a che fare con lo squallore delle periferie californiane dove il regista di origini nikkei era cresciuto. Mentre i personaggi dei film che avevano più successo in sala vivevano distaccati dai problemi economico-sociali e si rivolgevano esclusivamente a un pubblico borghese, avulso dalle difficoltà delle classi più svantaggiate, Araki dirigeva i suoi primi lavori in un ambiente artistico controcorrente, segnato dalle diversità etniche e di orientamento sessuale, vivendo a stretto contatto con le paure derivanti dalla diffusione dell’AIDS, dagli effetti delle politiche economiche del tempo e delle derive del capitalismo che il cinema americano non aveva intenzione di mettere in discussione.
Riguardare i suoi film con la percezione distorta del presente può portare erroneamente a vedere le opere del cineasta nippo-americano di terza generazione come profetiche rispetto allo stato attuale dell’America. Ma per ogni Trump di oggi è esistito un Reagan, per ogni crisi climatica del presente c’è stata una crisi pandemica che sembrava segnare il destino della comunità queer e per ogni timore di oggi ci sono stati quelli della gioventù di fine anni Ottanta e inizio anni Novanta.
Esaltare, nel 2025, Araki come regista-profeta della società odierna porta con sè il rischio di svalutare il suo vero merito, ossia quello di aver descritto le paure di un’epoca durante il suo stesso divenire e di aver creato un immaginario che però al tempo appariva come storia di cronaca, un’istantanea di quanto il cineasta stesso vedeva nelle strade in cui camminava e non nelle sale che avevano formato il suo gusto. Per cogliere quindi l’importanza dell’immaginario costruito dal cinema di Araki non si può isolarlo dal contesto che gli ha dato vita, ossia quello del New Queer Cinema.
Gregg Araki sul set di Kaboom (2010)
Introduzione irresponsabile e parziale al New Queer Cinema
Non si può definire questo movimento attraverso criteri esclusivamente contenutistici o avere la presunzione di affibbiare l’etichetta “queer” a qualunque regista che faccia parte di una minoranza della comunità LGBTQ+. Film dalla sensibilità kitsch, realizzati da cineasti omosessuali o con trame vicine alle vere vite dei membri della comunità sono sempre esistiti, ma tracciare una linea di questo specifico fenomeno cinematografico, emerso negli ultimi anni ’80 ed evolutosi lungo tutto il successivo decennio, non significa sminuire tutte le altre forme di cinema queer che potevano essersi sviluppate nello stesso periodo.
Parlare di New Queer Cinema equivale, purtroppo, a restringere il proprio campo a una manciata di registi LGBT con simili tratti stilistici, quasi tutti uomini (nonostante la presenza di registe donne, come Jennie Livingston e Lizzie Borden) e, esattamente come la materia trattata nei loro film, promulgatori di una visione troppo fluida per essere ricondotta a schematismi rigidi e dicotomici. B. Ruby Rich, la stessa studiosa di cinema indipendente che nel 1992 coniò il nome del movimento, ha sostenuto in un articolo del 2000 che “contenuti radicali hanno bisogno di una forma radicale”, pertanto le particolarità delle opere devono essere discusse secondo un obiettivo stilistico comune. La rappresentazione al cinema è prima di tutto stilistica, perché altrimenti si potrebbero erroneamente far coincidere i film dai toni cupi di Derek Jarman, Gus Van Sant e dello stesso Araki a un miserabilismo figlio dei peggiori stereotipi americani.
Ma i “belli e dannati” del New Queer Cinema non lo sono perché per i suoi registi essere gay è sinonimo di essere nichilisti, ma perché la società americana li ha resi reietti. In una conversazione con Richard Linklater, anche quest’ultimo calato nella realtà del cinema indipendente, Araki stesso definisce gli autori della propria generazione come freaks e di conseguenza anche i personaggi da loro rappresentati sono segnati dal leitmotiv della fuga perenne verso un non-luogo, verso la fine delle sovrastrutture che li opprimono.
River Phoenix e Keanu Reeves, protagonisti di My Own Private Idaho (Belli e dannati, 1991), film manifesto del New Queer Cinema
Questi poeti della trasgressione cominciano a lavorare in un contesto indipendente, che si prende gioco delle forme del classicismo americano, rielaborandole sotto un immaginario camp che, nella Doom Trilogy di Araki, troverà la sua più radicale estremizzazione. Questa rilettura dei simboli del consumismo occidentale, il rifiuto del realismo pietista e del commerciale agisce così come strumento di riappropriazione di un’importanza sottratta della comunità nella storia del cinema in senso lato, come una riconquista di quello che era stato "rubato" a celebri autori mainstream come John Schlesinger - Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy, 1969) - e come una dichiarata vicinanza al gusto delle avanguardie e del kitsch. È importante ricordare che l’evolversi di questo immaginario è discusso all’interno del contesto più ampio del cinema indipendente americano, perché registi come Todd Haynes (Velvet Goldmine, 1998), Tom Kalin (Swoon, 1992) o Bruce LaBruce (No Skin Off My Ass, 1991) nascono all’interno di un ambiente di dichiarata libertà dai diktat delle grandi major e dalle leggi del mercato.
Ma la nascita di un’etichetta è il primo passo verso la sua proliferazione su larga scala e gli anni Novanta diventano anche palco dell’inevitabile gentrificazione del New Queer Cinema, nonché di un passaggio dalle piccole sale d’autore, quasi sempre vuote, al grande successo del pubblico di massa. Per quanto fino al 2000 ci siano ancora esempi di film avvicinabili al romanticismo cupo o alle rivendicazioni camp di Haynes e Araki, il successo di The Talented Mr. Ripley (Il Talento di Mr. Ripley, 1999) di Anthony Minghella suggella uno stacco tra la materia queer che ha successo nelle sale e il modo in cui il pubblico fruisce il testo di queste opere, nonché un esempio di come i simboli creati dal mondo LGBT siano diventati materia di culto, fino a venire inglobati da una forma che ha limato tutti i suoi eccessi più anti-americani e di contro-cultura, risultando così digeribili anche allo spettatore medio.
In realtà il rapporto con la spettatorialità è sempre stato importante all’interno del panorama cinematografico LGBT, perché come ricorda Laura Mulvey, il cinema queer creava un filtro che fungeva da “travestitismo virtuale” anche per lo spettatore etero, che entrava in sala con l’aspettative di trovare uno spazio di trasgressione momentanea, prima di ritornare alla rigidità del binario tradizionale della sua vita. Invece di analizzare tutti i particolarismi e le singole idee autoriali presenti all’interno di una tendenza che rifiuta l’assimilazione a categorie unilaterali, la filmografia di Araki ci appare oggi come un’occasione per esplorare proprio le modalità attraverso cui un movimento spontaneo di autori individuali può diventare col tempo simbolo di una moda borghese.
Jonathan Rhys Meyers nel ruolo di Brian Slade in Velvet Goldmine (1998) di Todd Haynes
Da nessuna parte: Nouvelle Vague, consumismo e fine del mondo nel paese della libertà
“Speriamo di morire nello stesso istante, in un incidente d’auto o nello scoppio di una bomba nucleare”
Così dice il protagonista Jordan (James Duval) alla propria fidanzata Amy (Rose McGowan) durante una delle notti passate assieme in The Doom Generation. Ma i semi dello stile che porterà Gregg Araki a venire preso in considerazione dai più importanti festival cinematografici e dalla critica emergono già nei suoi primi due film: Three Bewildered People in the Night (1987) e The Long Weekend (O’ Despair, 1989). In queste due opere, realizzate in bianco e nero, con un budget risibile e attori sconosciuti, vengono dichiarate le principali ispirazioni del regista, che non riconoscendo la propria condizione esistenziale nel cinema americano dell’epoca, si rivede maggiormente nei “figli di Marx e della Coca-Cola” del Godard di Masculin-Féminin (Il maschio e la femmina,1966), con cui condivide l’interesse per una piccola troupe, per l’autonomia autoriale e per il gusto romantico verso lo smarrimento generazionale. Il protagonista stesso di Three Bewildered People in the Night è vestito come lo Jena Plissken di Escape from New York (1997: Fuga da New York, 1981), ma afferma di aver visto À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro,1960) a 10 anni. Come lui, anche gli altri personaggi camminano in mezzo ai simboli del capitalismo americano, fanno dichiarazione d'amore o di nichilismo davanti a locandine di Blockbuster estivi, vivono di lunghe conversazioni dirette con estesi campi larghi in cui essi diventano irrilevanti rispetto all’onnipresenza dei prodotti di consumo.
Già in principio Araki riempie le sequenze di riferimenti alle opere sperimentali di Andy Warhol e del cinema classico, esibendo la deriva di un’America dove tutto è riproducibile e nulla ha reale valore.“Vivi, scopa, dimentica” è il consiglio che in O’ Despair un’amica dà al protagonista Michael (Bretton Vail) in una delle loro tante camminate che segnano uno dei principali leitmotiv della filmografia del regista: il vagabondaggio, l’errare di personaggi smarriti verso il nulla, con l’obiettivo di dimenticare ed essere dimenticati. Quanto discusso nei primi film andrà così a culminare nello sviluppo di The Living End (1992), ideale ponte tra gli omaggi alla Nouvelle Vague dei primi lavori e la trilogia successiva, in cui il tema della fuga è rappresentato proprio dal viaggio senza meta di due ragazzi omosessuali, risultati positivi all’HIV, attraverso i luoghi delle province americane da cartolina. Attraverso un road-movie anti-narrativo e privo di qualunque forma di giudizio morale nei confronti dei personaggi, Araki trasforma gli Stati Uniti in un’ideale Far-West post-moderno, in cui i protagonisti scappano da un contesto di edonismo solo per arrivare alla fine del loro percorso ed avere conferma della propria bestialità come esseri umani.
Una sorta di Gangster Story (Arthur Penn, 1967) promiscuo, episodico e che, rispetto agli esordi, presenta una fotografia pop accesa e continuamente sovraesposta, in un viaggio in cui l’ultima destinazione è proprio quel nulla che sarà alla base della Teenage Apocalypse Trilogy. L’unica cosa rimasta in cui i protagonisti possono credere sono proprio i corpi e ciò che esperiscono attraverso essi, messi in scena con un registro iconografico e stilizzato, divenuto ormai emblema di una nuova carnalità che segnerà tutti gli anni Novanta. Una nuova corporeità che però sarà al centro delle critiche che la comunità LGBT muoverà verso Araki, accusandolo di mostrare solo il marcio e il primitivo di un mondo queer che in quel periodo non voleva associarsi a tale rappresentazione.
The Living End (1992)
Con un budget più alto rispetto ai primi film e un cast più ampio di attori presi dalla propria scuola di recitazione (in cui solo il nome feticcio di James Duvall farà da collante a tutti e tre i capitoli), Araki realizza, dal 1993 al 1997, la sua personale elegia in tre atti della gioventù americana, in cui l’apocalisse imminente rimasta sullo sfondo di The Living End diventa il soggetto principale. Il primo capitolo, Totally Fucked Up! (1993) doveva originariamente essere un’ideale seconda parte del suo film precedente, ma dopo vari sviluppi diventa una pagina di cronaca nera disorganica, in cui partendo da un dato reale (l’aumento dei suicidi dei giovani omosessuali americani) Araki sviluppa un racconto sempre più frammentato, in cui i giovani sono ormai inglobati all’interno degli schermi, galleggiano nelle onde radio delle loro TV, sperando di poter offrire testimonianza di un disagio nascosto dai media reali e da adulti praticamente assenti all’interno delle storie raccontante. Un primo capitolo dove sono ancor più palesate le influenze cinematografiche e letterarie, in particolare riguardo la vicinanza di questa gioventù alienata alla trasgressione raccontata nei romanzi dell’autore Dennis Cooper (The Sluths, Frisk), con cui condivide la descrizione cruda delle sequenze di promiscuità e trasgressione, ma anche l’onnipresenza del fantasma della morte che ha segnato un’intera generazione di giovani queer.
Il modello di Godard continua comunque a presentarsi nell’uso di scritte extradiegetiche volte a veicolare l’imminente caduta di una società americana politicamente arretrata, ma il post-modernismo dell’autore californiano prenderà subito altre forme, perché già con il film successivo si assisterà a un altro cambiamento formale. Con The Doom Generation, presentato come “il film eterosessuale di Gregg Araki”, la forma del cineasta muta con i suoi stessi personaggi. Il cinema LGBT omaggiato non è più quello nascosto tra le ombre del mainstream, ma quello anarchico, sopra le righe e roboante di John Waters, e i consueti momenti esistenzialisti sono alternati ad altri frammenti psichedelici o grotteschi. Il regista crea così un triangolo di personaggi che non aspirano all’individualismo post-anni Ottanta, ma direttamente a non essere nulla, come il personaggio X (Johnathon Schaech) che idealmente si riconosce in tutte le etichette di orientamento sessuale o di genere e contemporaneamente in nessuna di esse, mentre quello di Amy Blue (Rose McGowan) viene riconosciuta più volte nel corso del film con un altro nome che più non appartiene a lei, ma bensì a una vita che ha abbandonato e in cui non si riconosce.
Il sogno di un mondo dove ognuno può crearsi con autonomia la propria identità è ormai svanito in favore di un incubo a occhi aperti, in cui il puritanesimo reazionario assume le forme di un male etereo e indefinibile che celebra la tradizione e il binarismo rispetto alla fluidità e al pluralismo identitario. Solo due dei tre personaggi sopravviveranno all’apocalisse di ideali preannunciata dal film, ma la loro destinazione continuerà ad essere un’America che ancora oggi non esiste.
I tre protagonisti di The Doom Generation (1995)
Il nulla esplorato dai primi due capitoli della trilogia verrà raggiunto in Nowhere (1997), in cui i personaggi non tentano più di fuggire da una nazione che non li riconosce, ma si affidano totalmente ai suoi falsi idoli. Il momento profetico di The Doom Generation in cui Amy Rose diceva “L’hanno detto in TV, quindi è tutto vero” si concretizza nel protagonista Dark (James Duvall), che arriva a credere solo in ciò che vede attraverso la televisione, a provare attrazione solo per ciò che gli viene trasmesso da uno schermo, perché come ogni altro personaggio nel film non ha più fede in ciò che è tangibile e carnale, ma solo in ciò che il dispositivo mediale gli comunica. La stessa figura del proselitista televisivo Moses Helper (John Ritter) esiste come monito di una nuova fede che ormai è solo mediata e non può più essere esperita direttamente dall’individuo.
Anche lo stile registico abbandona qualsiasi pretesa di realismo, avvicinandosi alla messa in scena artificiosa e saturata del giallo all’italiana e calando i personaggi come manichini all’interno di scenografie espressioniste, segnate da continui mutamenti degli ambienti e da effetti di eco e riverbero. In questo giallo baviano, in cui le paranoie dei protagonisti prendono effettiva forma come creature aliene uscite dai romanzi di Burroughs, centrale sarà sul finale la negazione dell’esperienza omosessuale e la definitiva condanna della nuova gioventù queer alla solitudine.
Nowhere (1997)
Generazione MTV: gli eterosessuali repressi di Araki
Come scritto precedentemente, il New Queer Cinema negli ultimi anni Novanta è andato incontro a un processo di sottrazione dei suoi elementi più sovversivi, a favore del raggiungimento di una patina da spettacolo di massa. Diventa possibile per film queer come Boys Don’t Cry (1999) di Kimbery Peirce o As Good as It Gets (Qualcosa è cambiato, 1997) di James L. Brooks ricevere premi importanti, ottenere il favore della borghesia. Ciò diventa possibile anche per via di un cambiamento dei media di riferimento e delle mode: a dominare il mercato delle immagini è infatti il modello del videoclip di MTV, delle modelle da copertina di Vogue. In una società che abbraccia lo sfarzo ed esalta il lusso fine a se stesso, la natura camp nel cinema LGBT non può più essere vista come disubbidienza rispetto a una moda borghese, ma diventa anch’essa una piccola parte di un immaginario laccato e riproducibile.
Ciò che prima era straniante e rappresentava con film come Paris is Burning (1990) una riappropriazione del gusto per l’eccesso, che è sempre stato fondamento dell’identità queer, nella generazione degli show MTV e dell’ostentazione della trasgressione diventa solamente una nuova forma di prodotto di consumo e un’ulteriore modalità di riaffermazione di un modello neoliberista. Il cinema di corpi che mutano in continuazione di Araki non può quindi più essere di rottura, sopratutto in un momento storico in cui le modelle più affermate, come Linda Evangelista e Kate Moss, hanno reso il trasformismo e il continuo cambiamento dei loro modi di apparire in una moda a cui aspirare, emblema nell’epoca dell’heroin chic e della ribellione venduta su vasta scala. Per sopravvivere alla fine di un’epoca e a questa gentrificazione di un intero immaginario, lo stile del cineasta nippo-americano deve affrontate un ulteriore stravolgimento, per potersi calare all’interno di questo nuovo mondo e distruggerlo dall’interno.
Il suo successivo film Splendor (1999) nasce proprio dalla necessità di inserirsi in questo nuovo linguaggio di massa e altro non è che la risposta satirica al modello del videoclip: attori dai capelli laccati e usciti da un catalogo pubblicitario recitano dialoghi artificiosi all’interno di stanze stilizzate, circondati da orologi troppo grandi, mobili sproporzionati e luci da set fotografico, mentre la loro figura viene riprodotta in schermi, foto, pubblicità e altri emblemi della società delle immagini. La stessa protagonista inizialmente rinuncia a una relazione con altri due uomini che ama per stare assieme alla rappresentazione ideale dell’uomo tradizionale, possibile padre di famiglia e vicino a tutto ciò che rappresenta il sogno americano. Araki riempie così il film di simboli della cultura edonista, fino a far rigettare alla propria protagonista tale eccesso di icone, facendo apparire la poligamia come unica soluzione all’anemia causata da un modello di vita conservatore.
Splendor (1999)
Il discorso sulla decostruzione del modello MTV sarebbe dovuto continuare con la produzione di una serie televisiva prodotta dalla stessa emittente, ovvero This is how the world ends (2000), che non è mai andata in onda e di cui è rimasto solo l’episodio pilota. Un incrocio grottesco tra Dawson’s Creek e Twin Peaks, in cui ogni episodio si sarebbe dovuto concludere con la morte di tutti i personaggi, la cui cancellazione rimane invece simbolo di una contro-cultura che deve ancora capire come inserirsi all’interno del sistema di massa.
Tale conciliazione arriverà proprio con film più iconico di questa fase, Mysterious Skin (2004), in cui Araki adatta tutti gli elementi fondativi della sua carriera a un modello di teen-drama che palesa l’influenza dalle nuove serie CW e dai nuovi manifesti generazionali (a loro volta ispirati alla Teenage Apocalypse Trilogy) come ad esempio Donnie Darko (2001) di Richard Kelly.
Araki chiude così un cerchio, ritornando alla corporeità dei suoi personaggi smarriti e disillusi per raccontare la stessa gioventù degli anni Novanta, non più secondo una prospettiva attuale, ma ritornando a quel passato senza alcun filtro nostalgico. La mancanza con cui i due protagonisti devono fare i conti è in questo caso un processo di rimozione da parte di Brian (Brady Corbet) e alla paura di venire dimenticati delle prime opere si sostituisce una rivendicazione del diritto all’oblio, al lasciare andare il proprio trauma per vivere in funzione di una rinnovata carnalità. La volontà dell’autore di non indicare un’unica modalità di vivere il trauma e quella dei personaggi di sparire nel nulla altro non è che la rivendicazione di un’identità "aliena" rispetto al modello dominante, che ora può essere espressa anche all’interno di un cinema conforme al gusto della massa e che non si fa assuefare dalla tendenza, ma dialoga con quest’ultima.
Mysterious Skin (2004)
Verso un cinema queer per le masse (o verso un cinema di massa per queer)
Il primo decennio del XXI secolo è stato contraddistinto da un ritorno al pessimismo che il cinema queer sembrava aver abbandonato negli ultimi anni ’90. Sia nel mainstream che nei grandi festival sembra instillarsi un sentimento di disfattismo per le narrazioni con protagonisti LGBT, che da una parte ha il merito di affrontare il passato dell’America in chiave anti-nostalgica e di aumentare la consapevolezza della massa riguardo le sofferenze affrontate da queste minoranze, ma dall’altra porta al ritorno di stilemi datati e a una modalità di rappresentazione pietistica che il New Queer Cinema aveva abbandonato.La risposta del cinema di Araki a questa deriva mainstream è quindi di natura puramente stilistica, un ritorno al camp e all’esagerazione dei primi lavori, ma con una forma narrativa accessibile e meno radicale.
Gli ultimi tre film di questa fase sono quindi molto diversi tra loro: il primo, Smiley Face (2007), si inserisce all’interno del rinnovamento avvenuto nei primi anni 2000 della Stoner Comedy americana, una serie di commedie che vedevano come protagonisti comici usciti perlopiù dal Saturday Night Live, o comunque dalla scena stand-up commedy USA, e che ruotavano attorno alle vite trasgressive di giovani americani, tra marijuana, alcol e sesso disimpegnato. Per quanto inizialmente accolti con sufficienza da parte della critica, i film che facevano parte di questo sotto-genere, come Superbad (2007) di Greg Mottola, riescono a descrivere l’America del terzo millennio con una trasgressione anti-istituzionale romantica che ha molto in comune con il cinema di Araki, esattamente come Project X (2012) di Nima Nourizadeh è riuscito a riportare nel mainstream USA quel sentimento di smarrimento e di timore apocalittico della Teenage Apocalypse Trilogy.
Smiley Face rientra nei canoni di questa tendenza, estremizzando la sua natura kitsch e calando la protagonista (la comica Anna Faris) all’interno di una giornata nella vita disfunzionale di un personaggio senza prospettive future, perennemente allucinata dall’uso di sostanze stupefacenti. I ribaltamenti di prospettiva, il montaggio ipercinetico e la fotografia saturata aiutano a esprimere uno stato di costante alienazione dalla realtà tangibile, in una sorta di fuga dalle pressioni neoliberiste del mondo moderno, che nel finale sembra realizzarsi proprio attraverso l’arresto della protagonista “anormale” e nella sua esclusione dalla società civile.
Now Apocalypse (2019)
Lo stato di perenne alterazione di forma e contenuto ritornerà anche nel successivo Kaboom (2010), che rappresenta l’estremo più ludico e parodico di un’intera filmografia, in una sorta di satira di tutti i temi e dei cliché del New Queer Cinema. Le paranoie che hanno costellato la Teenage Apocalypse Trilogy vengono estremizzate, in un esercizio di stile che si prende gioco del nuovo status di cult di cui tali lavori hanno cominciato a godere solo negli ultimi anni. La fine del mondo non è più una paura irrazionale o inspiegabile, ma un espediente camp con cui prendersi gioco del cinema di oggi e per mostrare ciò che in potenza la sua serie televisiva mai realizzata sarebbe potuta diventare, ma che verrà realizzata concretamente solo con Now Apocalypse (2019), serie tv in dieci episodi in cui centrali saranno i deliri cospirazionisti dei personaggi e i presagi di sventura che li tormenteranno, che però non vedranno ulteriori sviluppi dopo la cancellazione avvenuta sul finale della prima stagione.
Ma Kaboom non sarà l’ultima volta in cui il cineasta si confronterà col passato del movimento, perché quattro anni dopo uscirà White Bird in a Blizzard (2014), in cui ritorna l’interesse di Araki per il giallo e per il tema della mancanza, in questo caso la sparizione della madre della protagonista Kat (Shailene Woodley). La madre Eve (Eva Green) sarà sempre presente solo come fantasma, come parte di flashback distorti o di visioni alterate della realtà, divenendo una mancanza sia fisica che figurativa per i personaggi. Alla base di questa rimozione rimangono ancora una volta la negazione dell’esperienza gay e l’imposizione della società anni Novanta di modelli di mascolinità e femminilità che l’autore non ha mai smesso di decostruire, nemmeno nel suo cinema più formalmente quadrato e narrativamente canonico.
Manifesto di una generazione che ha sempre vissuto nell’imminenza della propria fine, il cinema di Gregg Araki non ha mai smesso di trattare del disorientamento dei giovani nel contemporaneo e infatti, su sua stessa ammissione, il suo prossimo film I Want Your Sex tratterà delle differenze tra come la Gen Z e le generazioni precedenti vivono la sessualità, su come oggi più che mai esista la necessità di un ritorno al piacere dei corpi. Perché come detto dal cineasta nella conversazione con Richard Linklater, chi oggi è adulto conosce il sentimento di confusione che stanno vivendo ora le nuove generazioni e lui non vuole “essere quel vecchio tizio che si lamenta dei nuovi film e dei giovani”.
Eva Green in White Bird in a Blizzard (2014)