Gabbie emotive,
recensione di Antonio Orrico
RV-103
29.04.2025
Nella sequenza iniziale di Black Bag, il nostro sguardo, che coincide con quello della macchina da presa, è indirizzato sulla nuca di George Woodhouse (Michael Fassbender). Il regista, Steven Soderbergh, lo segue tramite un piano sequenza lungo alcuni minuti, prima di svelare definitivamente il volto del nostro protagonista. La nuova opera del cineasta americano, dunque, stabilisce da subito un rapporto decisamente ludico con lo spettatore, che si tradurrà, nel corso del film, in un raffinato intrigo capace di partire dalla spy story per approdare, progressivamente, a qualcosa di diverso. Dopo gli esperimenti compiuti in Kimi (2022) e Presence (2024), Black Bag rappresenta un ritorno a codici che Soderbergh aveva già esplorato in passato, in particolare nel suo Out Of Sight (1998), interpretato da Jennifer Lopez e George Clooney.
Anche lì, la relazione era il cuore pulsante della narrazione. Il melò diventava uno strumento per indagare i confini del desiderio e soprattutto il suo intrecciarsi, inestricabilmente, all’inganno. Ma rispetto al 1998, in Black Bag Soderbergh sposta il punto d’interesse e gioca più esplicitamente con chi osserva, rielaborando in particolare gli stereotipi delle spy story anni ’60 di John Le Carrè. Le atmosfere sono incredibilmente vintage, testimoniate anche dal notevole azzeramento dell’impianto action e, soprattutto, dall’uso di ambienti eleganti e scenari illuminati da luci soffuse, capaci di restituire perfettamente il clima da “guerra fredda” che separa Michael Fassbender e Cate Blanchett, veri e propri mattatori del film, che sfruttano il loro ruolo sfaccettato per garantire allo spettatore una narrazione ricca di colpi di scena e incerta fino all’ultimo secondo.
Proprio le espressioni facciali di Fassbender e Blanchett svolgono un ruolo cruciale. Lo sguardo diventa atto emotivo e narrativo, il quale alimenta la paranoia che cresce lentamente all’interno della loro relazione. Rispetto a Out of Sight, Black Bag è molto più cinico. Se nel primo titolo una fuga romantica era ancora possibile, anche grazie all’umanità di Clooney, qui l’amore viene soppiantato dal sospetto, tematica che si rivolge all’attualità. La distinzione tra giusto e sbagliato implode: nessuno è pienamente innocente o colpevole. Tutti i personaggi sono, piuttosto, intrappolati nella sorveglianza reciproca.
Il sospetto, la cultura dello sguardo, ha dunque sostituito radicalmente il desiderio come forza motrice di un rapporto. La fiducia che si è creata tra i due protagonisti in Black Bag non è qualcosa di costruito passo passo, non è una relazione ambivalente quanto piuttosto un rapporto basato solo ed esclusivamente sul potere che ogni individuo ha su un altro. L’intimità della coppia Fassbender/Blanchett è un'arma silenziosa, fatta di informazioni sottratte e ambiguità relazionale, una zona d’instabilità dove ogni gesto affettuoso può essere falso, ogni carezza può nascondere un interrogatorio.
L’amore è dunque ridotto a vulnerabilità da sfruttare. Se nel Soderbergh degli anni ’90-2000 la relazione di potere era ancora intrecciata ad una dimensione prettamente sociale - come nel caso di Traffic (2000) - dove le reti che si creavano erano in realtà complesse e non vi era la certezza del controllo, da The Girlfriend Experience (2009) in poi l’autore abbraccia una visione diversa, nettamente più tecnologica, astratta e anche sistemica, in certi casi. Black Bag, in questo senso, rappresenta l’estremo del percorso: il potere diventa intangibile, iper-personalizzato, insinuandosi direttamente nel legame intimo. All’interno della dinamica di rapporto tra i due protagonisti principali, non si spia più solamente per prevedere le mosse del “nemico”, quanto per controllare ogni aspetto della sfera privata.
In questo modo, Black Bag radicalizza la poetica di Soderbergh, immettendola nei legami più intimi. L’amore è declinato come una vera e propria forma di controllo, e anche la fiducia è vista come una trappola. L’unico vero potere è quello di vedere senza essere visti, e di fidarsi senza mai abbassare totalmente la guardia. L’amore è inquinato dal sospetto, l’intimità è uno spazio di sorveglianza, ed è dunque una forma di schiavitù emotiva. In questo senso, il regista americano riprende e rielabora in modo estremamente intelligente l’eredità di Rainer Werner Fassbinder, uno dei più grandi registi del Novecento, troppo spesso dimenticato.
Come nel cinema di quest’ultimo, Soderbergh adopera gli interni e minimizza il movimento della macchina da presa. I suoi personaggi sono bloccati nell’inquadratura, in spazi chiusi, claustrofobici, ricchi di tensione statica (quali la casa, la sala da pranzo e l’ufficio, i tre luoghi principali dove si svolge la vicenda), gabbie psichiche dove i corpi sono intrappolati e il movimento è ridotto al minimo, con una regia che comprime le possibilità di fuga e dove le fissità della macchina da presa intensificano, piuttosto, la tensione emotiva. Lo sguardo rappresenta così, allo stesso tempo, forza e debolezza.
Black Bag traduce il melò ambiguo del Nuovo Cinema Tedesco, declinandolo nel linguaggio della paranoia contemporanea, con i luoghi e i set pieces a rappresentare lo stato di sorveglianza emotiva, dove l’amore rappresenta l’ultima forma di controllo. Un Fassbinder aggiornato attraverso un contesto panottico. Operazione non solo riuscitissima, ma davvero sorprendente, che ci conferma quanto Steven Soderbergh sia una figura cardine del cinema contemporaneo, preziosissimo nella sua capacità di contaminare e far dialogare il mainstream con l’autorialità più lucida e consapevole.
Gabbie emotive,
recensione di Antonio Orrico
RV-103
29.04.2025
Nella sequenza iniziale di Black Bag, il nostro sguardo, che coincide con quello della macchina da presa, è indirizzato sulla nuca di George Woodhouse (Michael Fassbender). Il regista, Steven Soderbergh, lo segue tramite un piano sequenza lungo alcuni minuti, prima di svelare definitivamente il volto del nostro protagonista. La nuova opera del cineasta americano, dunque, stabilisce da subito un rapporto decisamente ludico con lo spettatore, che si tradurrà, nel corso del film, in un raffinato intrigo capace di partire dalla spy story per approdare, progressivamente, a qualcosa di diverso. Dopo gli esperimenti compiuti in Kimi (2022) e Presence (2024), Black Bag rappresenta un ritorno a codici che Soderbergh aveva già esplorato in passato, in particolare nel suo Out Of Sight (1998), interpretato da Jennifer Lopez e George Clooney.
Anche lì, la relazione era il cuore pulsante della narrazione. Il melò diventava uno strumento per indagare i confini del desiderio e soprattutto il suo intrecciarsi, inestricabilmente, all’inganno. Ma rispetto al 1998, in Black Bag Soderbergh sposta il punto d’interesse e gioca più esplicitamente con chi osserva, rielaborando in particolare gli stereotipi delle spy story anni ’60 di John Le Carrè. Le atmosfere sono incredibilmente vintage, testimoniate anche dal notevole azzeramento dell’impianto action e, soprattutto, dall’uso di ambienti eleganti e scenari illuminati da luci soffuse, capaci di restituire perfettamente il clima da “guerra fredda” che separa Michael Fassbender e Cate Blanchett, veri e propri mattatori del film, che sfruttano il loro ruolo sfaccettato per garantire allo spettatore una narrazione ricca di colpi di scena e incerta fino all’ultimo secondo.
Proprio le espressioni facciali di Fassbender e Blanchett svolgono un ruolo cruciale. Lo sguardo diventa atto emotivo e narrativo, il quale alimenta la paranoia che cresce lentamente all’interno della loro relazione. Rispetto a Out of Sight, Black Bag è molto più cinico. Se nel primo titolo una fuga romantica era ancora possibile, anche grazie all’umanità di Clooney, qui l’amore viene soppiantato dal sospetto, tematica che si rivolge all’attualità. La distinzione tra giusto e sbagliato implode: nessuno è pienamente innocente o colpevole. Tutti i personaggi sono, piuttosto, intrappolati nella sorveglianza reciproca.
Il sospetto, la cultura dello sguardo, ha dunque sostituito radicalmente il desiderio come forza motrice di un rapporto. La fiducia che si è creata tra i due protagonisti in Black Bag non è qualcosa di costruito passo passo, non è una relazione ambivalente quanto piuttosto un rapporto basato solo ed esclusivamente sul potere che ogni individuo ha su un altro. L’intimità della coppia Fassbender/Blanchett è un'arma silenziosa, fatta di informazioni sottratte e ambiguità relazionale, una zona d’instabilità dove ogni gesto affettuoso può essere falso, ogni carezza può nascondere un interrogatorio.
L’amore è dunque ridotto a vulnerabilità da sfruttare. Se nel Soderbergh degli anni ’90-2000 la relazione di potere era ancora intrecciata ad una dimensione prettamente sociale - come nel caso di Traffic (2000) - dove le reti che si creavano erano in realtà complesse e non vi era la certezza del controllo, da The Girlfriend Experience (2009) in poi l’autore abbraccia una visione diversa, nettamente più tecnologica, astratta e anche sistemica, in certi casi. Black Bag, in questo senso, rappresenta l’estremo del percorso: il potere diventa intangibile, iper-personalizzato, insinuandosi direttamente nel legame intimo. All’interno della dinamica di rapporto tra i due protagonisti principali, non si spia più solamente per prevedere le mosse del “nemico”, quanto per controllare ogni aspetto della sfera privata.
In questo modo, Black Bag radicalizza la poetica di Soderbergh, immettendola nei legami più intimi. L’amore è declinato come una vera e propria forma di controllo, e anche la fiducia è vista come una trappola. L’unico vero potere è quello di vedere senza essere visti, e di fidarsi senza mai abbassare totalmente la guardia. L’amore è inquinato dal sospetto, l’intimità è uno spazio di sorveglianza, ed è dunque una forma di schiavitù emotiva. In questo senso, il regista americano riprende e rielabora in modo estremamente intelligente l’eredità di Rainer Werner Fassbinder, uno dei più grandi registi del Novecento, troppo spesso dimenticato.
Come nel cinema di quest’ultimo, Soderbergh adopera gli interni e minimizza il movimento della macchina da presa. I suoi personaggi sono bloccati nell’inquadratura, in spazi chiusi, claustrofobici, ricchi di tensione statica (quali la casa, la sala da pranzo e l’ufficio, i tre luoghi principali dove si svolge la vicenda), gabbie psichiche dove i corpi sono intrappolati e il movimento è ridotto al minimo, con una regia che comprime le possibilità di fuga e dove le fissità della macchina da presa intensificano, piuttosto, la tensione emotiva. Lo sguardo rappresenta così, allo stesso tempo, forza e debolezza.
Black Bag traduce il melò ambiguo del Nuovo Cinema Tedesco, declinandolo nel linguaggio della paranoia contemporanea, con i luoghi e i set pieces a rappresentare lo stato di sorveglianza emotiva, dove l’amore rappresenta l’ultima forma di controllo. Un Fassbinder aggiornato attraverso un contesto panottico. Operazione non solo riuscitissima, ma davvero sorprendente, che ci conferma quanto Steven Soderbergh sia una figura cardine del cinema contemporaneo, preziosissimo nella sua capacità di contaminare e far dialogare il mainstream con l’autorialità più lucida e consapevole.