di Omar Franini, Antonio Orrico, Lorenzo Sartor, Arturo Garavaglia e Cecilia Parini
NC-303
19.05.2025
Come ad ogni manifestazione cinematografica a cui ODG partecipa, nei prossimi giorni pubblicheremo diversi reportage in cui vi racconteremo dei film che stiamo visionando alla 78ª edizione del Festival di Cannes. Per questo secondo appuntamento ci concentreremo su altri due film presentati in Competizione, il tanto atteso Eddington di Ari Aster e Le petite dernière, il terzo lungometraggio di Hafsia Herzi. Inoltre vi racconteremo anche dei primi film presentati nella famigerata Cannes Premiere, ovvero La Ola di Sebastian Lelio e Amrum di Fatih Akin, ed infine approfondiremo diversi titoli delle sezioni secondarie, come The Plague di Charlie Polinger e Le grand arche di Stéphane Demoustier, da Un Certain Regard, Que ma volonté soit faite di Julia Kowalski e Des preuves d’amour di Alice Douard, dalla Quinzaine des cineastes, e Entrocamento di Pedro Cabeleira e A Light That Never Goes Out di Lauri-Matti Parppei, dalla sezione ACID.
Eddington, di Ari Aster
Maggio 2020. Il mondo è ancora afflitto dalla pandemia, soprattutto la cittadina rurale di Eddington nel New Mexico. Da una parte ci sono i tipici negazionisti che faticano a credere alla gravità della situazione, dall’altra invece ci sono coloro che stanno facendo il possibile per rispettare le norme di sicurezza e ritornare alla “normalità”. Questo conflitto nella cittadina è rappresentato da due personalità opposte, lo sceriffo bambinesco conservatore Joe Cross (Joaquin Phoenix) e il sindaco liberale Ted Garcia (Pedro Pascal). Ari Aster, cineasta statunitense che per anni è stato paragonato ad un Messia, come se il suo cinema grottesco rappresentasse una voce originale pronta a salvare un panorama cinematografico arthouse americano sempre più in declino. Aveva certamente mostrato delle potenzialità con Hereditary (2019), ma più si vedono i suoi film più ci si rende conto di quanto Aster sia un regista piuttosto limitato. Nei suoi ultimi lavori il cineasta trova delle grandi difficoltà nello sviluppare una narrativa originale e provocatoria, il continuo uso di un tono poco coeso e di immagini che vogliono "imporre" una sensazione di shock nello spettatore risultano elementi stucchevoli, se non insopportabili. Eddington rappresenta l’apoteosi di tutto ciò che c’è di problematico nella poetica di Aster; il regista continua ad ostinarsi nel dirigere film inutilmente lunghi e la sua vena comica risulta, ancora una volta, più una pecca che una qualità aggiunta. Visto il periodo storico affrontato, Aster non è riuscito a trattenersi dal non produrre una satira banale sul tumultuoso clima politico, ricca di (intuibili) riferimenti al movimento Black Lives Matter. Non c’è nulla di male nell'impostare una satira su questo soggetto, ma Aster si limita a scrivere solo delle battutine che faranno sghignazzare esclusivamente l’audience anglosassone, senza che queste riescano a trasmettere l’assurdità della politica statunitense. Inoltre la maggior parte del cast risulta purtroppo sprecata, tra cui una pessima Emma Stone e un fiacco Austin Butler. È difficile trovare qualcosa di positivo in Eddington, un’opera insulsa che pretende di essere il film più “significativo” finora prodotto sulla Pandemia, forse si potrebbe aggiungere che Joaquin Phoenix da una grande interpretazione, ma siamo davvero sorpresi da questo? No.
Le petite dernière, di Hafsia Herzi
Fatima è una diciannovenne egiziana che sta frequentando l’ultimo anno di scuola superiore e, come la maggior parte dei ragazzi di quell’età, sta ancora cercando di capire la propria sessualità. Il terzo lungometraggio di Hafsia Herzi non vuole reinventare il coming of age queer, ma più che altro porre enfasi su un aspetto raramente affrontato al giorno d’oggi, l’omosessualità nella cultura musulmana e quel senso di colpa che affligge la giovane Fatima, che crede che le sue difficoltà siano una punizione divina per la propria sessualità. Ambientato nel corso di dodici mesi, La Petite Derniere esplora sapientemente le cosiddette "prime esperienze" della protagonista, dai primi incontri fugaci con persone conosciute tramite app, alla prima delusione d’amore con Ji-Na (Park Ji-min), un’infermiera di origini coreane, ed infine il suo avvicinamento alla comunità lesbica. La messa in scena di Herzi risulta piuttosto piatta dal punto di vista tecnico, basta pensare all’uso prevalente della camera a mano "alla Andrea Arnold". Malgrado ciò, questi piccoli difetti si possono trascurare grazie all’interpretazione centrale di Nadia Melliti, in grado di mostrare le diverse sfaccettature di questo conflitto interiore tra identità religiosa e sessuale, facendo empatizzare lo spettatore con ogni singolo momento del suo percorso.
La Ola, di Sebastian Lelio
Il 2018 è stato un anno rivoluzionario per il movimento femminista in Cile. Diverse proteste sono sorte e università occupate per rivendicare anni, se non decenni, di abusi e molestie sessuali subite dalle giovani studentesse, che non sono mai riuscite a far valere la propria voce in una società patriarcale. Presentato in Cannes Premiere, La Ola di Sebastian Lelio narra la storia di una di queste occupazioni, ponendo al centro Julia (Daniela Lopez), la portavoce di queste proteste e vittima di abusi sessuali da parte di una persona a lei vicina, il cui aspetto da “bravo ragazzo” inganna facilmente. Per raccontare questo importante momento nella storia cilena, il regista non adopera il melodramma o la forma documentaristica, ma coglie l’occasione per sperimentare con il genere ed il medium cinematografico, il musical soprattutto. Quello che segue è un’opera imperfetta, confusionaria e a tratti estenuante, ma che possiede comunque un’energia ed un ritmo palpitante con un continuo crescendo fino a raggiungere un climax che non riesce a trovare una giusta conclusione per Julia, scelta che riflette anche la situazione reale a cui il film si ispira. A differenza di Jacques Audiard, Sebastian Lelio riconosce la propria posizione privilegiata nel trasporre sul grande schermo questo tipo di storia ed esplicita apertamente la sua ipocrisia per aver diretto un film così fondamentale per il movimento femminista. La Ola non funziona appieno, ma rimane comunque un nuovo interessante capitolo della filmografia di un regista che ha costruito la propria carriera cercando di porre le problematiche del proprio Paese al centro della sua arte.
Amrum, di Fatih Akin
Primavera 1945, ormai la sconfitta tedesca nella Seconda Guerra Mondiale è vicina, ma gli ultimi sostenitori del Führer continuano inutilmente a sperare in un possibile capovolgimento. Tra queste persone c’è anche la famiglia del dodicenne Nanning, la cui devozione e ostentazione verso l’ideologia nazista ha portato la matriarca alla follia. In seguito alla morte di Hitler, la situazione peggiora drasticamente, facendo cadere la donna in una profonda depressione. L’unico cosa che sembra possa farle tornare il sorriso è una fetta di pane bianco con burro e miele, beni che erano diventati rari per la popolazione tedesca. Ambientato nell’isola di Amrum, il nuovo film di Fatih Akin segue le vicende del giovane Nanning che, per tirar su di morale la madre, decide di imbarcarsi in questa “avventura” per trovare gli ingredienti necessari. Per fare ciò inizierà a stringere vari accordi con la popolazione locale, che dal loro canto non vedono di buon occhio Nanning per via della sua famiglia. La premessa di Amrum sulla carta risulta affascinante, Akin vuole mostrare il buon animo e l’innocenza del giovane protagonista e come le difficoltà che deve affrontare lo aiutino in questo viaggio di scoperta. Ma è la messa in scena che risulta problematica; il cinema di Akin non è mai stato caratterizzato da un approccio sottile e con Amrum ne si ha la conferma; invece di concentrarsi su una soggettiva completamente fanciullesca, il regista pone spesso attenzione sulle sofferenze della madre con uno sguardo empatico piuttosto problematico, quando il messaggio di fondo dell’opera vuole trasmettere quel bisogno di rieducare le nuove generazioni, sopratutto quelle più piccole. Sebbene l’interpretazione del giovane Jasper Billerbeck sia piuttosto buona, come anche la fotografia che risalta la natura dell’isola e le sue insidie, Amrum risulta un film di una banalità sconcertante, pur avendo delle buone intenzioni di fondo.
The Plague, di Charlie Polinger
Presentato in Un Certain Regard, The Plague di Charlie Polibger pone al suo centro una delle grandi problematiche che ogni bambino deve affrontare durante l’adolescenza, il bullismo e le terribili conseguenze che certe parole o atti possono avere nei più deboli. L’opera prima del regista statunitense è ambientata in una scuola estiva di pallanuoto e segue un gruppo di ragazzini che, in piena pubertà, non riescono a non controllare le proprie emozioni ed esternano i propri dubbi e paure cercando di attaccare il più “debole”. Polinger già delle prime sequenze del film imbastisce questa gerarchia all’interno dei ragazzi, focalizzandosi su tre personaggi nello specifico; il bulletto del gruppo Jake (Kaio Martin), Eli (Kenny Rasmussen), la vittima di tali azioni ed infine Ben (Everett Blunk), il nuovo arrivato e testimone silenzioso delle azioni perpetrate sul compagno di squadra. Le discriminazioni subite da Eli sono dovute a delle escoriazioni presenti sul suo corpo, un chiaro simbolo dell’arrivo della pubertà e il cambiamento fisico del ragazzino. Queste vengono scambiate per una sorta di “peste” contagiosa che porterà i ragazzini a isolare il compagno di squadra. Traendo spunto da film come Lord of the Flies (1963) e Breakfast Club (1985), Polinger compie un’operazione piuttosto rischiosa con il materiale di partenza; dirigere un dramma sul bullismo come se fosse un body horror. L’unico punto di vista adulto è quello dell’insegnante Daddy Wags (Joel Edgerton) che in qualche modo rispecchia quello dello spettatore, una persona che fatica a capire certi comportamenti e a trovare un rimedio. Una continua tensione e ansia persiste per tutta la durata dell'opera ed è da lodare il modo con cui Polinger riesce a mantenere questa atmosfera infernale e soffocante seguendo la soggettiva dei giovani protagonisti. La storia di per sé è piuttosto limitata e le metafore ovvie, tuttavia Polinger va a colmare tali lacune in maniera effettiva tramite una messa in scena che è riuscita nella rara impresa di mostrare tutte e tre le “posizioni” nella dinamica del bullismo.
L’inconnu de la grand arche, di Stéphane Demoustier
Ha conquistato l’amicizia di un presidente, si è imposto nel mondo e ha progettato uno degli edifici più futuristici e contemporanei di Parigi, eppure nessuno sa chi sia. Stéphane Demoustier nel suo ultimo film L’inconnu de la Grand Arch (The Great Arch) - presentato nella sezione Un Certain Regard - racconta la storia vera (e tragica) dell’architetto danese Johann Otto Von Spreckelsen e dell’opera della sua vita: l’Arche de la Défense. Come l’architetto che studia nei minimi dettagli la propria opera, Stéphane Demoustier costruisce il proprio film senza lasciare nulla al caso, dall’incredibile cast che lo accompagna fino all’aspetto tecnico. Il regista francese non vuole solo raccontare una storia degli inizi degli anni ’80, ma vuole letteralmente farla rivivere al pubblico, come se esso fosse testimone diretto della vicenda. Non a caso il film è girato in 4:3, un formato che richiama alla mente le serie tv cult del decennio, e presenta una fotografia ispirata alla patina della pellicola utilizzata in quel periodo. Per questo aspetto Demoustier, infatti, gioca insieme al DOP David Chambille nel creare un contrasto tra i finti filmati di repertorio e le vicende che vedono protagonista l’architetto danese. Diventato famoso come il direttore e curatore di un prestigioso museo di Stoccolma in The Square (Ruben Östlund, 2017), ritroviamo Claes Bang vestire i panni del protagonista Otto Von Spreckelsen. Bang si riconferma uno dei migliori interpreti nel panorama non solo europeo ma internazionale. Insieme a Bang troviamo altri due attori che non necessitano di troppe presentazioni: Xavier Dolan e Swann Arlaud. L’inconnu de la Grand Arch non vuole solo dare prestigio a un architetto che ha creato un monumento, ma è un film che parla di sogni. Di quanto a volte sia difficile scendere a patti per realizzarli, ma quanto sia ancora più difficile mediare con se stessi per non "perdere" i nostri ideali.
Que ma volonté soit faite, di Julia Kowalski
Julia Kowalski è senza dubbi una delle voci emergenti più interessanti del cinema europeo contemporaneo. La sua filmografia attraversa vari generi e sperimenta molteplici tipologie di racconto, restando però fedele al suo intento di introspezione personale e riflessione sociale nei confronti del panorama rurale francese, con alcuni riferimenti palesi anche alle sue origini polacche. Dopo aver iniziato la sua carriera con Miedzylesie, au milieu des bois (2002), un documentario sui suoi nonni, e Musique de chambre (2012), che ha ricevuto riconoscimenti in vari festival, è approdata direttamente al Festival di Cannes nella sezione ACID, con il suo primo lungometraggio Crache cœur (2015). Quest’ultimo ha anche ottenuto premi come il Prix d'interprétation féminine al Festival internazionale del film di Amiens, oltre a dare già le coordinate stilistiche della sua regista, con argomenti quali le scissioni familiari e l’attenzione all’età adolescenziale, in un contesto ostile come quello della provincia francese. Dopo aver ricevuto il Prix Jean-Vigo nel 2023 con il suo J'ai vu le visage du diable (2023), quest’anno la regista franco-polacca è tornata a Cannes con il suo secondo lungometraggio, Que ma volonté soit faite (2025), presentato alla Quinzaine des Cinéastes. Nel racconto della giovane Nawojka (una bravissima Maria Wróbel), una giovane che scopre di avere poteri paranormali legati al suo desiderio sessuale, Julia Kowalski mette in scena un vero e proprio gothic movie dai canoni post-femministi, filtrato inevitabilmente attraverso la lente del Cinema Du Corps (impersonificato, qui, anche dalla presenza nel cast di Roxane Mesquida). Que ma volonté soit faite è un’opera in cui il corpo non è più inteso come puro e semplice oggetto materico, ma diventa un vero e proprio campo di battaglia, veicolo e barriera allo stesso tempo di conflitti morali e metafisici, spazio di rivendicazione di una propria emancipazione femminile, raggiunta attraverso atti che esplorano attivamente la tensione tra repressione e liberazione, desiderio e colpa, in un contesto rurale che riflette dinamiche patriarcali e superstizioni di vario tipo e che ricorda, da vicino, gli universi chiusi del cinema di Fabrice Du Welz, richiamati anche attraverso scene molto grottesche - quale quella della festa, che inevitabilmente porta alla mente Calvaire (2004) - e da un tipo di regia decisamente sanguigna, fatta di zoom sconnessi, macchina a mano, che esplora la femminilità come luogo di scoperta e violenza simbolica (la scena della possessione, nello specifico, è un’interiorizzazione del desiderio di controllo dell’uomo sulla donna). La scelta di girare in 16mm, con una texture analogica e granulosa, amplifica il senso di contatto, tocco, carne che rende il film una declinazione rurale, mistica e femminile delle tendenze già citate, rielaborando alcuni codici (fisicità, desiderio, dolore) all’interno di una narrazione simbolica e spirituale.
Des preuves d’amour, di Alice Douard
Alice Douard si presenta a Cannes, nella Semaine de la critique, col suo nuovo lungometraggio Love Letters (Des preuves d’amour) nel quale affronta il tema della maternità dal punto di vista di una giovane ragazza lesbica che vuole costruirsi una famiglia ma che ancora non sa se è pronta, e soprattutto se verrà mai accettata in quel nuovo ruolo. La regista francese aveva già affrontato il tema nel suo cortometraggio L’Attente (con il quale vinse il premio Césars per il miglior cortometraggio), dove racconta di una giovane donna – anche lei di nome Céline – che una notte si ritrova ad aspettare la nascita del suo primo figlio, e nella sala d’attesa dell’ospedale conosce Philippe, un padre anche lui in attesa. I due parlano e si confrontano su cosa significhi diventare genitori. Se L’Attende è stato un primo passo, Douard con Love letters ha modo di entrare ancora più in profondità nel tema, e farci vivere un viaggio nel mondo della genitorialità nella comunità lesbica. Non a caso la regista francese decide di iniziare il film facendo sentire la seduta al parlamento francese che annuncia l’approvazione della legge per i matrimoni omosessuali nel 2014. Una conquista per l’intera comunità lgbt+, ma solo entrando nella vita personale di Céline scopriamo che la legge ha molte crepe al suo interno. Love Letters, non è solo un film ben scritto, ma si regge perfettamente su un cast eccezionale. Ella Rumpf, nei panni della protagonista, porta sullo schermo tutta la paura, ma anche la tenacia, di una donna che vuole costruirsi una famiglia con la persona che ama e per la quale è pronta anche a riallacciare i rapporti con una madre complicata. Nel cast poi c’è un’incredibile Monia Chokri, che nei panni di Nadia è spiritosa, fresca e che, nonostante la gravidanza, non rinuncia ai piaceri di essere donna. Una menzione speciale, però, va a Noémi Lvovsky che veste i panni di Marguerite, la madre di Céline. Lvovsky colpisce con la sola presenza; la sua Marguerite è una donna ferita dal senso di colpa per aver lasciato da parte la figlia, ma che non si pente delle proprie scelte. La regia di Alice Douard non vuole giocare sui virtuosismi ma far trasparire al meglio la natura dei suoi personaggi, se da una parte la scelta del cast aiuta tantissimo, la regista da una spinta in più catturando con la camera i primi piani e i dettagli che mostrano le sfumature di ogni singola emozione.
Entrocamento, di Pedro Cabeleira
Nei più prestigiosi festival europei si è formato un modello di realismo ormai perseguito da molti cineasti, non necessariamente provenienti dalla stessa nazione o da scuole di pensiero simili, ma tutti interconnessi nella ricerca di uno schema comune di messa in scena. Il nuovo film del regista portoghese Pedro Cabeleira sembra farsi promotore di un rispetto pressoché totale di questa modalità di rappresentazione della realtà, non cercando mai la stilizzazione dei personaggi, ma mostrando tutto ciò che avviene con un registro quanto più fedele alla goffaggine del nostro mondo e alla bassezza della bestialità umana. La città di Entroncamento, luogo di nascita del cineasta stesso, diventa così un polo multiculturale in cui le varie etnie vivono divise le une dalle altre e le istituzioni stesse osteggiano qualunque forma di integrazione, favorendo così la ghettizzazione delle minoranze e la proliferazione della piccola criminalità organizzata. Entroncamento potrebbe essere quindi una qualsiasi città rappresentata dal cinema americano nei suoi gangster movie, e molti dei crimini gratuiti mostrati nel film sembrano svanire senza alcuna conseguenza, per diventare parte di un mistero che deve rimanere tale. Gli attori riescono a esprimere con molta bravura lo stato di impotenza della popolazione della città portoghese, mostrando la fragilità di un’umanità che non sembra riuscire a trovare alcuna via d’uscita dal degrado in cui è nata. La stessa narrazione rifiuta di appagare lo spettatore concedendogli risposte o un climax emotivo, portando avanti la volontà di rispettare una realtà in cui non sempre c’è un payoff soddisfacente a seguito delle sofferenze subite. Ciò che però appesantisce parzialmente le intenzioni della pellicola risiede proprio nella forma con cui vuole costruire questo contesto sociale, nell’artificiosità che porta avanti, in una scrittura mai approfondita e mai realmente quadrata come vorrebbe essere. La presunta ricerca di un’aderenza assoluta alla realtà in tal senso soffoca l’opera, toglie vita a molte sequenze che sembrano appesantite da uno sguardo disinteressato più che freddo e misurato. Non c’è infatti un senso di misura alla quantità di dialoghi verbosi e di sequenze di raccordo, ma solamente una narrazione sicuramnete piena di punti di vista interessanti da esplorare, ma pure priva di ribaltamenti di prospettiva. Per quanto sia quindi ammirevole e positiva l’ambizione del regista di non mostrarsi eccessivamente e di rimanere nascosto rispetto ai personaggi e alle loro storie, manca tuttavia una scrittura altrettanto aderente alla realtà e abbastanza compatta da dare un valore al minutaggio che passiamo dietro a eventi all’apparenza sempre uguali.
A Light That Never Goes Out, di Lauri-Matti Parppei
In un mondo di regole e norme, solo il caos ci può salvare facendoci sentire vivi.Con queste poche parole potremmo sintetizzare A Light That Never Goes Out di Lauri-Matti Parppei, presentato nella sezione ACID al festival di Cannes. Pauli è un giovane flautista che dopo una crisi si ritroverà a tornare a vivere dai suoi genitori. È nel paese natale che Pauli fa la conoscenza di Iris, un’artista alternativa e stravagante, che lo coinvolgerà nel proprio progetto musicale.Parppei attraverso la storia di Pauli affronta la paura di smarrimento che tutti prima o poi provano. La paura di non sentirsi all’altezza delle aspettative, la frustrazione di essere sempre al meglio per timore di fallire. Un vortice che spesso può portare la persona a rinunciare a tutto pur di non provare più tutto questo, anche la propria vita. Se Pauli rappresenta la paura e la rinuncia, Iris, invece, è l’imprudenza e la voglia di combattere ancora per ciò che si vuole. Pauli è cresciuto nel mondo della musica classica, fatto di dogmi e regole da rispettare e che troppe volte dimentica il sentimento, Iris, al contrario, si rifà alla musica sperimentale, che vede nel rumore di un frullatore una nuova forma di espressione. Ed è attraverso questa musica moderna, ma primitiva allo stesso tempo, composta da rumori, sensazioni e note “stonate”, che Pauli si riconnette con la propria passione e ritrova la luce che aveva perso. Parppei, non solo gioca con la musica portandoci in questo mondo fatto di suoni e improvvisazioni, ma la sua regia si basa molto anche sulla luce. Il regista finlandese ci mostra le emozioni di Pauli attraverso la fotografia, buia, dove i colori sono spenti, quando lo troviamo tra le mura domestiche e tra i genitori che gli ricordano (involontariamente) i suoi fallimenti, a invece immagini più luminose e colorante quando è con Iris e gli altri a suonare. La regia di Parppei non è tanto fresca, quanto più furba. Non vuole essere didascalico nel suo modo di raccontare. All’inizio vuole solo far percepire allo spettatore che il suo protagonista sta male, ma senza svelarvi subito la violenza che si è auto-inflitta. Parppei oltre che un buon regista, si dimostra anche un ottimo sceneggiatore, poiché i personaggi che porta sullo schermo sono autentici e mai machiettistici. Il rapporto tra Pauli e Iris è reale, due caratteri opposti, uno pessimista e traumatizzato e l’altra risoluta ma folle.
di Omar Franini, Antonio Orrico, Lorenzo Sartor, Arturo Garavaglia e Cecilia Parini
NC-303
19.05.2025
Come ad ogni manifestazione cinematografica a cui ODG partecipa, nei prossimi giorni pubblicheremo diversi reportage in cui vi racconteremo dei film che stiamo visionando alla 78ª edizione del Festival di Cannes. Per questo secondo appuntamento ci concentreremo su altri due film presentati in Competizione, il tanto atteso Eddington di Ari Aster e Le petite dernière, il terzo lungometraggio di Hafsia Herzi. Inoltre vi racconteremo anche dei primi film presentati nella famigerata Cannes Premiere, ovvero La Ola di Sebastian Lelio e Amrum di Fatih Akin, ed infine approfondiremo diversi titoli delle sezioni secondarie, come The Plague di Charlie Polinger e Le grand arche di Stéphane Demoustier, da Un Certain Regard, Que ma volonté soit faite di Julia Kowalski e Des preuves d’amour di Alice Douard, dalla Quinzaine des cineastes, e Entrocamento di Pedro Cabeleira e A Light That Never Goes Out di Lauri-Matti Parppei, dalla sezione ACID.
Eddington, di Ari Aster
Maggio 2020. Il mondo è ancora afflitto dalla pandemia, soprattutto la cittadina rurale di Eddington nel New Mexico. Da una parte ci sono i tipici negazionisti che faticano a credere alla gravità della situazione, dall’altra invece ci sono coloro che stanno facendo il possibile per rispettare le norme di sicurezza e ritornare alla “normalità”. Questo conflitto nella cittadina è rappresentato da due personalità opposte, lo sceriffo bambinesco conservatore Joe Cross (Joaquin Phoenix) e il sindaco liberale Ted Garcia (Pedro Pascal). Ari Aster, cineasta statunitense che per anni è stato paragonato ad un Messia, come se il suo cinema grottesco rappresentasse una voce originale pronta a salvare un panorama cinematografico arthouse americano sempre più in declino. Aveva certamente mostrato delle potenzialità con Hereditary (2019), ma più si vedono i suoi film più ci si rende conto di quanto Aster sia un regista piuttosto limitato. Nei suoi ultimi lavori il cineasta trova delle grandi difficoltà nello sviluppare una narrativa originale e provocatoria, il continuo uso di un tono poco coeso e di immagini che vogliono "imporre" una sensazione di shock nello spettatore risultano elementi stucchevoli, se non insopportabili. Eddington rappresenta l’apoteosi di tutto ciò che c’è di problematico nella poetica di Aster; il regista continua ad ostinarsi nel dirigere film inutilmente lunghi e la sua vena comica risulta, ancora una volta, più una pecca che una qualità aggiunta. Visto il periodo storico affrontato, Aster non è riuscito a trattenersi dal non produrre una satira banale sul tumultuoso clima politico, ricca di (intuibili) riferimenti al movimento Black Lives Matter. Non c’è nulla di male nell'impostare una satira su questo soggetto, ma Aster si limita a scrivere solo delle battutine che faranno sghignazzare esclusivamente l’audience anglosassone, senza che queste riescano a trasmettere l’assurdità della politica statunitense. Inoltre la maggior parte del cast risulta purtroppo sprecata, tra cui una pessima Emma Stone e un fiacco Austin Butler. È difficile trovare qualcosa di positivo in Eddington, un’opera insulsa che pretende di essere il film più “significativo” finora prodotto sulla Pandemia, forse si potrebbe aggiungere che Joaquin Phoenix da una grande interpretazione, ma siamo davvero sorpresi da questo? No.
Le petite dernière, di Hafsia Herzi
Fatima è una diciannovenne egiziana che sta frequentando l’ultimo anno di scuola superiore e, come la maggior parte dei ragazzi di quell’età, sta ancora cercando di capire la propria sessualità. Il terzo lungometraggio di Hafsia Herzi non vuole reinventare il coming of age queer, ma più che altro porre enfasi su un aspetto raramente affrontato al giorno d’oggi, l’omosessualità nella cultura musulmana e quel senso di colpa che affligge la giovane Fatima, che crede che le sue difficoltà siano una punizione divina per la propria sessualità. Ambientato nel corso di dodici mesi, La Petite Derniere esplora sapientemente le cosiddette "prime esperienze" della protagonista, dai primi incontri fugaci con persone conosciute tramite app, alla prima delusione d’amore con Ji-Na (Park Ji-min), un’infermiera di origini coreane, ed infine il suo avvicinamento alla comunità lesbica. La messa in scena di Herzi risulta piuttosto piatta dal punto di vista tecnico, basta pensare all’uso prevalente della camera a mano "alla Andrea Arnold". Malgrado ciò, questi piccoli difetti si possono trascurare grazie all’interpretazione centrale di Nadia Melliti, in grado di mostrare le diverse sfaccettature di questo conflitto interiore tra identità religiosa e sessuale, facendo empatizzare lo spettatore con ogni singolo momento del suo percorso.
La Ola, di Sebastian Lelio
Il 2018 è stato un anno rivoluzionario per il movimento femminista in Cile. Diverse proteste sono sorte e università occupate per rivendicare anni, se non decenni, di abusi e molestie sessuali subite dalle giovani studentesse, che non sono mai riuscite a far valere la propria voce in una società patriarcale. Presentato in Cannes Premiere, La Ola di Sebastian Lelio narra la storia di una di queste occupazioni, ponendo al centro Julia (Daniela Lopez), la portavoce di queste proteste e vittima di abusi sessuali da parte di una persona a lei vicina, il cui aspetto da “bravo ragazzo” inganna facilmente. Per raccontare questo importante momento nella storia cilena, il regista non adopera il melodramma o la forma documentaristica, ma coglie l’occasione per sperimentare con il genere ed il medium cinematografico, il musical soprattutto. Quello che segue è un’opera imperfetta, confusionaria e a tratti estenuante, ma che possiede comunque un’energia ed un ritmo palpitante con un continuo crescendo fino a raggiungere un climax che non riesce a trovare una giusta conclusione per Julia, scelta che riflette anche la situazione reale a cui il film si ispira. A differenza di Jacques Audiard, Sebastian Lelio riconosce la propria posizione privilegiata nel trasporre sul grande schermo questo tipo di storia ed esplicita apertamente la sua ipocrisia per aver diretto un film così fondamentale per il movimento femminista. La Ola non funziona appieno, ma rimane comunque un nuovo interessante capitolo della filmografia di un regista che ha costruito la propria carriera cercando di porre le problematiche del proprio Paese al centro della sua arte.
Amrum, di Fatih Akin
Primavera 1945, ormai la sconfitta tedesca nella Seconda Guerra Mondiale è vicina, ma gli ultimi sostenitori del Führer continuano inutilmente a sperare in un possibile capovolgimento. Tra queste persone c’è anche la famiglia del dodicenne Nanning, la cui devozione e ostentazione verso l’ideologia nazista ha portato la matriarca alla follia. In seguito alla morte di Hitler, la situazione peggiora drasticamente, facendo cadere la donna in una profonda depressione. L’unico cosa che sembra possa farle tornare il sorriso è una fetta di pane bianco con burro e miele, beni che erano diventati rari per la popolazione tedesca. Ambientato nell’isola di Amrum, il nuovo film di Fatih Akin segue le vicende del giovane Nanning che, per tirar su di morale la madre, decide di imbarcarsi in questa “avventura” per trovare gli ingredienti necessari. Per fare ciò inizierà a stringere vari accordi con la popolazione locale, che dal loro canto non vedono di buon occhio Nanning per via della sua famiglia. La premessa di Amrum sulla carta risulta affascinante, Akin vuole mostrare il buon animo e l’innocenza del giovane protagonista e come le difficoltà che deve affrontare lo aiutino in questo viaggio di scoperta. Ma è la messa in scena che risulta problematica; il cinema di Akin non è mai stato caratterizzato da un approccio sottile e con Amrum ne si ha la conferma; invece di concentrarsi su una soggettiva completamente fanciullesca, il regista pone spesso attenzione sulle sofferenze della madre con uno sguardo empatico piuttosto problematico, quando il messaggio di fondo dell’opera vuole trasmettere quel bisogno di rieducare le nuove generazioni, sopratutto quelle più piccole. Sebbene l’interpretazione del giovane Jasper Billerbeck sia piuttosto buona, come anche la fotografia che risalta la natura dell’isola e le sue insidie, Amrum risulta un film di una banalità sconcertante, pur avendo delle buone intenzioni di fondo.
The Plague, di Charlie Polinger
Presentato in Un Certain Regard, The Plague di Charlie Polibger pone al suo centro una delle grandi problematiche che ogni bambino deve affrontare durante l’adolescenza, il bullismo e le terribili conseguenze che certe parole o atti possono avere nei più deboli. L’opera prima del regista statunitense è ambientata in una scuola estiva di pallanuoto e segue un gruppo di ragazzini che, in piena pubertà, non riescono a non controllare le proprie emozioni ed esternano i propri dubbi e paure cercando di attaccare il più “debole”. Polinger già delle prime sequenze del film imbastisce questa gerarchia all’interno dei ragazzi, focalizzandosi su tre personaggi nello specifico; il bulletto del gruppo Jake (Kaio Martin), Eli (Kenny Rasmussen), la vittima di tali azioni ed infine Ben (Everett Blunk), il nuovo arrivato e testimone silenzioso delle azioni perpetrate sul compagno di squadra. Le discriminazioni subite da Eli sono dovute a delle escoriazioni presenti sul suo corpo, un chiaro simbolo dell’arrivo della pubertà e il cambiamento fisico del ragazzino. Queste vengono scambiate per una sorta di “peste” contagiosa che porterà i ragazzini a isolare il compagno di squadra. Traendo spunto da film come Lord of the Flies (1963) e Breakfast Club (1985), Polinger compie un’operazione piuttosto rischiosa con il materiale di partenza; dirigere un dramma sul bullismo come se fosse un body horror. L’unico punto di vista adulto è quello dell’insegnante Daddy Wags (Joel Edgerton) che in qualche modo rispecchia quello dello spettatore, una persona che fatica a capire certi comportamenti e a trovare un rimedio. Una continua tensione e ansia persiste per tutta la durata dell'opera ed è da lodare il modo con cui Polinger riesce a mantenere questa atmosfera infernale e soffocante seguendo la soggettiva dei giovani protagonisti. La storia di per sé è piuttosto limitata e le metafore ovvie, tuttavia Polinger va a colmare tali lacune in maniera effettiva tramite una messa in scena che è riuscita nella rara impresa di mostrare tutte e tre le “posizioni” nella dinamica del bullismo.
L’inconnu de la grand arche, di Stéphane Demoustier
Ha conquistato l’amicizia di un presidente, si è imposto nel mondo e ha progettato uno degli edifici più futuristici e contemporanei di Parigi, eppure nessuno sa chi sia. Stéphane Demoustier nel suo ultimo film L’inconnu de la Grand Arch (The Great Arch) - presentato nella sezione Un Certain Regard - racconta la storia vera (e tragica) dell’architetto danese Johann Otto Von Spreckelsen e dell’opera della sua vita: l’Arche de la Défense. Come l’architetto che studia nei minimi dettagli la propria opera, Stéphane Demoustier costruisce il proprio film senza lasciare nulla al caso, dall’incredibile cast che lo accompagna fino all’aspetto tecnico. Il regista francese non vuole solo raccontare una storia degli inizi degli anni ’80, ma vuole letteralmente farla rivivere al pubblico, come se esso fosse testimone diretto della vicenda. Non a caso il film è girato in 4:3, un formato che richiama alla mente le serie tv cult del decennio, e presenta una fotografia ispirata alla patina della pellicola utilizzata in quel periodo. Per questo aspetto Demoustier, infatti, gioca insieme al DOP David Chambille nel creare un contrasto tra i finti filmati di repertorio e le vicende che vedono protagonista l’architetto danese. Diventato famoso come il direttore e curatore di un prestigioso museo di Stoccolma in The Square (Ruben Östlund, 2017), ritroviamo Claes Bang vestire i panni del protagonista Otto Von Spreckelsen. Bang si riconferma uno dei migliori interpreti nel panorama non solo europeo ma internazionale. Insieme a Bang troviamo altri due attori che non necessitano di troppe presentazioni: Xavier Dolan e Swann Arlaud. L’inconnu de la Grand Arch non vuole solo dare prestigio a un architetto che ha creato un monumento, ma è un film che parla di sogni. Di quanto a volte sia difficile scendere a patti per realizzarli, ma quanto sia ancora più difficile mediare con se stessi per non "perdere" i nostri ideali.
Que ma volonté soit faite, di Julia Kowalski
Julia Kowalski è senza dubbi una delle voci emergenti più interessanti del cinema europeo contemporaneo. La sua filmografia attraversa vari generi e sperimenta molteplici tipologie di racconto, restando però fedele al suo intento di introspezione personale e riflessione sociale nei confronti del panorama rurale francese, con alcuni riferimenti palesi anche alle sue origini polacche. Dopo aver iniziato la sua carriera con Miedzylesie, au milieu des bois (2002), un documentario sui suoi nonni, e Musique de chambre (2012), che ha ricevuto riconoscimenti in vari festival, è approdata direttamente al Festival di Cannes nella sezione ACID, con il suo primo lungometraggio Crache cœur (2015). Quest’ultimo ha anche ottenuto premi come il Prix d'interprétation féminine al Festival internazionale del film di Amiens, oltre a dare già le coordinate stilistiche della sua regista, con argomenti quali le scissioni familiari e l’attenzione all’età adolescenziale, in un contesto ostile come quello della provincia francese. Dopo aver ricevuto il Prix Jean-Vigo nel 2023 con il suo J'ai vu le visage du diable (2023), quest’anno la regista franco-polacca è tornata a Cannes con il suo secondo lungometraggio, Que ma volonté soit faite (2025), presentato alla Quinzaine des Cinéastes. Nel racconto della giovane Nawojka (una bravissima Maria Wróbel), una giovane che scopre di avere poteri paranormali legati al suo desiderio sessuale, Julia Kowalski mette in scena un vero e proprio gothic movie dai canoni post-femministi, filtrato inevitabilmente attraverso la lente del Cinema Du Corps (impersonificato, qui, anche dalla presenza nel cast di Roxane Mesquida). Que ma volonté soit faite è un’opera in cui il corpo non è più inteso come puro e semplice oggetto materico, ma diventa un vero e proprio campo di battaglia, veicolo e barriera allo stesso tempo di conflitti morali e metafisici, spazio di rivendicazione di una propria emancipazione femminile, raggiunta attraverso atti che esplorano attivamente la tensione tra repressione e liberazione, desiderio e colpa, in un contesto rurale che riflette dinamiche patriarcali e superstizioni di vario tipo e che ricorda, da vicino, gli universi chiusi del cinema di Fabrice Du Welz, richiamati anche attraverso scene molto grottesche - quale quella della festa, che inevitabilmente porta alla mente Calvaire (2004) - e da un tipo di regia decisamente sanguigna, fatta di zoom sconnessi, macchina a mano, che esplora la femminilità come luogo di scoperta e violenza simbolica (la scena della possessione, nello specifico, è un’interiorizzazione del desiderio di controllo dell’uomo sulla donna). La scelta di girare in 16mm, con una texture analogica e granulosa, amplifica il senso di contatto, tocco, carne che rende il film una declinazione rurale, mistica e femminile delle tendenze già citate, rielaborando alcuni codici (fisicità, desiderio, dolore) all’interno di una narrazione simbolica e spirituale.
Des preuves d’amour, di Alice Douard
Alice Douard si presenta a Cannes, nella Semaine de la critique, col suo nuovo lungometraggio Love Letters (Des preuves d’amour) nel quale affronta il tema della maternità dal punto di vista di una giovane ragazza lesbica che vuole costruirsi una famiglia ma che ancora non sa se è pronta, e soprattutto se verrà mai accettata in quel nuovo ruolo. La regista francese aveva già affrontato il tema nel suo cortometraggio L’Attente (con il quale vinse il premio Césars per il miglior cortometraggio), dove racconta di una giovane donna – anche lei di nome Céline – che una notte si ritrova ad aspettare la nascita del suo primo figlio, e nella sala d’attesa dell’ospedale conosce Philippe, un padre anche lui in attesa. I due parlano e si confrontano su cosa significhi diventare genitori. Se L’Attende è stato un primo passo, Douard con Love letters ha modo di entrare ancora più in profondità nel tema, e farci vivere un viaggio nel mondo della genitorialità nella comunità lesbica. Non a caso la regista francese decide di iniziare il film facendo sentire la seduta al parlamento francese che annuncia l’approvazione della legge per i matrimoni omosessuali nel 2014. Una conquista per l’intera comunità lgbt+, ma solo entrando nella vita personale di Céline scopriamo che la legge ha molte crepe al suo interno. Love Letters, non è solo un film ben scritto, ma si regge perfettamente su un cast eccezionale. Ella Rumpf, nei panni della protagonista, porta sullo schermo tutta la paura, ma anche la tenacia, di una donna che vuole costruirsi una famiglia con la persona che ama e per la quale è pronta anche a riallacciare i rapporti con una madre complicata. Nel cast poi c’è un’incredibile Monia Chokri, che nei panni di Nadia è spiritosa, fresca e che, nonostante la gravidanza, non rinuncia ai piaceri di essere donna. Una menzione speciale, però, va a Noémi Lvovsky che veste i panni di Marguerite, la madre di Céline. Lvovsky colpisce con la sola presenza; la sua Marguerite è una donna ferita dal senso di colpa per aver lasciato da parte la figlia, ma che non si pente delle proprie scelte. La regia di Alice Douard non vuole giocare sui virtuosismi ma far trasparire al meglio la natura dei suoi personaggi, se da una parte la scelta del cast aiuta tantissimo, la regista da una spinta in più catturando con la camera i primi piani e i dettagli che mostrano le sfumature di ogni singola emozione.
Entrocamento, di Pedro Cabeleira
Nei più prestigiosi festival europei si è formato un modello di realismo ormai perseguito da molti cineasti, non necessariamente provenienti dalla stessa nazione o da scuole di pensiero simili, ma tutti interconnessi nella ricerca di uno schema comune di messa in scena. Il nuovo film del regista portoghese Pedro Cabeleira sembra farsi promotore di un rispetto pressoché totale di questa modalità di rappresentazione della realtà, non cercando mai la stilizzazione dei personaggi, ma mostrando tutto ciò che avviene con un registro quanto più fedele alla goffaggine del nostro mondo e alla bassezza della bestialità umana. La città di Entroncamento, luogo di nascita del cineasta stesso, diventa così un polo multiculturale in cui le varie etnie vivono divise le une dalle altre e le istituzioni stesse osteggiano qualunque forma di integrazione, favorendo così la ghettizzazione delle minoranze e la proliferazione della piccola criminalità organizzata. Entroncamento potrebbe essere quindi una qualsiasi città rappresentata dal cinema americano nei suoi gangster movie, e molti dei crimini gratuiti mostrati nel film sembrano svanire senza alcuna conseguenza, per diventare parte di un mistero che deve rimanere tale. Gli attori riescono a esprimere con molta bravura lo stato di impotenza della popolazione della città portoghese, mostrando la fragilità di un’umanità che non sembra riuscire a trovare alcuna via d’uscita dal degrado in cui è nata. La stessa narrazione rifiuta di appagare lo spettatore concedendogli risposte o un climax emotivo, portando avanti la volontà di rispettare una realtà in cui non sempre c’è un payoff soddisfacente a seguito delle sofferenze subite. Ciò che però appesantisce parzialmente le intenzioni della pellicola risiede proprio nella forma con cui vuole costruire questo contesto sociale, nell’artificiosità che porta avanti, in una scrittura mai approfondita e mai realmente quadrata come vorrebbe essere. La presunta ricerca di un’aderenza assoluta alla realtà in tal senso soffoca l’opera, toglie vita a molte sequenze che sembrano appesantite da uno sguardo disinteressato più che freddo e misurato. Non c’è infatti un senso di misura alla quantità di dialoghi verbosi e di sequenze di raccordo, ma solamente una narrazione sicuramnete piena di punti di vista interessanti da esplorare, ma pure priva di ribaltamenti di prospettiva. Per quanto sia quindi ammirevole e positiva l’ambizione del regista di non mostrarsi eccessivamente e di rimanere nascosto rispetto ai personaggi e alle loro storie, manca tuttavia una scrittura altrettanto aderente alla realtà e abbastanza compatta da dare un valore al minutaggio che passiamo dietro a eventi all’apparenza sempre uguali.
A Light That Never Goes Out, di Lauri-Matti Parppei
In un mondo di regole e norme, solo il caos ci può salvare facendoci sentire vivi.Con queste poche parole potremmo sintetizzare A Light That Never Goes Out di Lauri-Matti Parppei, presentato nella sezione ACID al festival di Cannes. Pauli è un giovane flautista che dopo una crisi si ritroverà a tornare a vivere dai suoi genitori. È nel paese natale che Pauli fa la conoscenza di Iris, un’artista alternativa e stravagante, che lo coinvolgerà nel proprio progetto musicale.Parppei attraverso la storia di Pauli affronta la paura di smarrimento che tutti prima o poi provano. La paura di non sentirsi all’altezza delle aspettative, la frustrazione di essere sempre al meglio per timore di fallire. Un vortice che spesso può portare la persona a rinunciare a tutto pur di non provare più tutto questo, anche la propria vita. Se Pauli rappresenta la paura e la rinuncia, Iris, invece, è l’imprudenza e la voglia di combattere ancora per ciò che si vuole. Pauli è cresciuto nel mondo della musica classica, fatto di dogmi e regole da rispettare e che troppe volte dimentica il sentimento, Iris, al contrario, si rifà alla musica sperimentale, che vede nel rumore di un frullatore una nuova forma di espressione. Ed è attraverso questa musica moderna, ma primitiva allo stesso tempo, composta da rumori, sensazioni e note “stonate”, che Pauli si riconnette con la propria passione e ritrova la luce che aveva perso. Parppei, non solo gioca con la musica portandoci in questo mondo fatto di suoni e improvvisazioni, ma la sua regia si basa molto anche sulla luce. Il regista finlandese ci mostra le emozioni di Pauli attraverso la fotografia, buia, dove i colori sono spenti, quando lo troviamo tra le mura domestiche e tra i genitori che gli ricordano (involontariamente) i suoi fallimenti, a invece immagini più luminose e colorante quando è con Iris e gli altri a suonare. La regia di Parppei non è tanto fresca, quanto più furba. Non vuole essere didascalico nel suo modo di raccontare. All’inizio vuole solo far percepire allo spettatore che il suo protagonista sta male, ma senza svelarvi subito la violenza che si è auto-inflitta. Parppei oltre che un buon regista, si dimostra anche un ottimo sceneggiatore, poiché i personaggi che porta sullo schermo sono autentici e mai machiettistici. Il rapporto tra Pauli e Iris è reale, due caratteri opposti, uno pessimista e traumatizzato e l’altra risoluta ma folle.