NC-311
11.06.2025
Ci sono opere che rappresentano veri e propri macigni all’interno di un medium come quello cinematografico, che è stato uno dei più efficaci strumenti di rappresentazione delle paranoie del Novecento e del presente, oltre che un archivio tangibile della trasformazione delle società nel tempo. Tra i massimi “sociologi ad honorem” del cinema spicca sicuramente Robert Altman, che come pochissimi altri suoi colleghi ha saputo cogliere le contraddizioni e le derive di quella terra frastagliata e multi-culturale che è l’America. Il suo percorso d’analisi esplora tanto la dimensione privata, con opere nevrotiche come That Cold Day In The Park (Quel freddo giorno nel parco, 1969) e Images (1972), parti di una trilogia alienante insieme a 3 Women (Tre donne, 1977), quanto quella pubblica, come nel corrosivo M*A*S*H (1970). Ne emerge un Paese alla deriva, sfigurato da continue crisi e rivoluzioni. Nel 1968, del resto, Altman è già un autore in piena contestazione, guidato da una poetica eccentrica e anarchica. Questo processo di radiografia collettiva trova la sua espressione più compiuta in Nashville (1975), uno dei suoi film capitali.
Nashville sublima, di fatto, l’anti-conformismo di Altman già espresso nei precedenti film ed effettua una disamina pressoché impietosa di un’America appena uscita dallo scandalo Watergate - la cui attitudine paranoica sarà svelata l’anno successivo da un altro film cruciale quale All The President’s Men (1976). Un’America in balìa del caos, pronta a sfruttare qualsiasi opportunità, anche quella musicale o politica, per mercificarsi ed arricchirsi. Un capitalismo aumentato all’ennesima potenza, che porta, però, con sé tutti gli strascichi della poetica anti-gerarchica e polifonica del suo autore. Oltre ad essere un affresco corale/sociale, infatti, la vera natura di Nashville è pervasa da un orrore sottile, che nasce dalla riflessione profonda di Altman sulla dispersione dell’identità giovanile, acuita dalla frammentazione delle soggettività.
Robert Altman
In quest’ottica, infatti, il film del 1975 non adempie esclusivamente al racconto di un’America disgregata, quanto piuttosto si rivela un’opera ontologica sulla crisi dell’uomo moderno, schiacciato sempre di più dal peso del quotidiano. L’intenzione corale di Nashville, dunque, non è solamente una rappresentazione della crisi democratica americana, ma acquisisce un ruolo da sintomatologia dell’eccesso. I personaggi e le voci che si alternano sul palco principale del film, da Ronee Blackey a Keith Carradine (autore di uno dei momenti più iconici del cinema altmaniano con la sua I’m Easy), non formano un’armonia collettiva, apparendo piuttosto come corpi estranei afflitti dall’incomunicabilità. Ognuno di loro parla, canta, si esibisce, ma nessuno dalla folla li ascolta veramente e soprattutto nessuno di loro ha interazioni con gli altri.
Il rumore di fondo, costruito con cura attraverso la regia decentrata e l’uso del sonoro multitraccia (grazie a Jim Webb), non restituisce un senso collettivo, bensì un paesaggio sonoro saturato, in cui l’Io si dissolve nella messa in scena continua. Altman non esibisce solamente le debolezze dell’America, ma soprattutto palesa l’impossibilità di narrarla in modo coerente, se non come un collage disgregato e rumoroso. La città non è più solo capitale della musica country, ma di fatto acquisisce una “babelizzazione” che è popolata da personaggi persi in sé stessi, impossibilitati a tirarsi fuori dalla macchina dello spettacolo.
Henry Gibson, dopo l’evento scatenante la morte di Barbara Jean, apparente scombussolamento narrativo e climax del film, dirà chiaramente “This isn’t Dallas, this is Nashville” riportando tutto alla normalità. Un grido d’allarme supportato da totale indifferenza, dove il racconto si sfilaccia fino all’evento risolutore. Ma, come constata amaramente lo spettatore, non c’è la minima catarsi, in quanto i generi collassano su loro stessi. Nashville è allo stesso tempo musical, dramma, satira, mockumentary e disaster-movie, dove l’America non è più rappresentabile come totalità coerente. Tutto è superficie, show, performance, perfino la morte.
Naturalmente, tutto porta a vivere in prima persona l’orrore dell’uomo contemporaneo. Il vero orrore, qui, è dato dalla disgregazione dello stesso concetto d’identità (anche nazionale), da una coesione sociale irrappresentabile, se non tramite una strategia di saturazione, opacità, e perdita della centralità narrativa. In questo senso, da un certo punto di vista Nashville richiama da vicino anche le strutture combinatorie del più "cervellotico" tra gli autori della Nouvelle Vague: Jacques Rivette. Sia Altman che il regista francese sono coreografi del caos, in entrambi la sospensione diventa non semplice attesa, quanto piuttosto catarsi stessa e, soprattutto, entrambi frammentano il tessuto narrativo in molteplici linee d’azione, che si intersecano senza mai convergere. Un cinema combinatorio, in cui la macchina da presa mobile di Altman non riesce nemmeno a mettere a fuoco totalmente ciò che riprende, e dove l’overlapping, punto di forza dello stile del regista, non è solo un gesto tecnico, ma una poetica della disarticolazione a causa della quale la comunicazione fallisce totalmente, sancendo un’impossibilità di rappresentazione di un’umanità completamente smembrata.
La macchina-cinema, in Nashville, non mira più alla verità, ma al mistero del reale nella sua irriducibile ambiguità, e soprattutto diserta l’ambizione politica, che si ritrova più smaccatamente in altri film del cineasta americano. C’è, piuttosto, l’eclissi dell’utopia politica. Hal Philip Walker, il misterioso candidato alla presidenza, qualunquista e demagogo, resta, non a caso, una semplice voce fuori campo, un vero e proprio fantasma che ci racconta, fondamentalmente, la dissoluzione totale del potere e sancisce, piuttosto, una politica del “vuoto”, in cui non esistono più soggetti capaci di agire, ma solo corpi in movimento incastrati in una “ronde” rivettiana dove l’obiettivo di raccontare l’America non solo non è raggiunto, ma è piuttosto disfatto e disatteso.
Nashville è, in conclusione, un affresco corale in cui il vero mostro è l’uomo moderno, frammentato e immerso in un sistema che ha svuotato ogni atto del suo significato. È, di fatto, una materializzazione del realismo capitalista di Mark Fisher, che mostra come l’orrore (insieme alla politica, alla musica e all’identità) venga immediatamente assorbito dal dispositivo spettacolare. Nell’iconico e disturbante finale, non è la morte a far paura, ma la sua irrilevanza.
L'agghiacciante sequenza finale di Nashville (1975)
NC-311
11.06.2025
Robert Altman
Ci sono opere che rappresentano veri e propri macigni all’interno di un medium come quello cinematografico, che è stato uno dei più efficaci strumenti di rappresentazione delle paranoie del Novecento e del presente, oltre che un archivio tangibile della trasformazione delle società nel tempo. Tra i massimi “sociologi ad honorem” del cinema spicca sicuramente Robert Altman, che come pochissimi altri suoi colleghi ha saputo cogliere le contraddizioni e le derive di quella terra frastagliata e multi-culturale che è l’America. Il suo percorso d’analisi esplora tanto la dimensione privata, con opere nevrotiche come That Cold Day In The Park (Quel freddo giorno nel parco, 1969) e Images (1972), parti di una trilogia alienante insieme a 3 Women (Tre donne, 1977), quanto quella pubblica, come nel corrosivo M*A*S*H (1970). Ne emerge un Paese alla deriva, sfigurato da continue crisi e rivoluzioni. Nel 1968, del resto, Altman è già un autore in piena contestazione, guidato da una poetica eccentrica e anarchica. Questo processo di radiografia collettiva trova la sua espressione più compiuta in Nashville (1975), uno dei suoi film capitali.
Nashville sublima, di fatto, l’anti-conformismo di Altman già espresso nei precedenti film ed effettua una disamina pressoché impietosa di un’America appena uscita dallo scandalo Watergate - la cui attitudine paranoica sarà svelata l’anno successivo da un altro film cruciale quale All The President’s Men (1976). Un’America in balìa del caos, pronta a sfruttare qualsiasi opportunità, anche quella musicale o politica, per mercificarsi ed arricchirsi. Un capitalismo aumentato all’ennesima potenza, che porta, però, con sé tutti gli strascichi della poetica anti-gerarchica e polifonica del suo autore. Oltre ad essere un affresco corale/sociale, infatti, la vera natura di Nashville è pervasa da un orrore sottile, che nasce dalla riflessione profonda di Altman sulla dispersione dell’identità giovanile, acuita dalla frammentazione delle soggettività.
In quest’ottica, infatti, il film del 1975 non adempie esclusivamente al racconto di un’America disgregata, quanto piuttosto si rivela un’opera ontologica sulla crisi dell’uomo moderno, schiacciato sempre di più dal peso del quotidiano. L’intenzione corale di Nashville, dunque, non è solamente una rappresentazione della crisi democratica americana, ma acquisisce un ruolo da sintomatologia dell’eccesso. I personaggi e le voci che si alternano sul palco principale del film, da Ronee Blackey a Keith Carradine (autore di uno dei momenti più iconici del cinema altmaniano con la sua I’m Easy), non formano un’armonia collettiva, apparendo piuttosto come corpi estranei afflitti dall’incomunicabilità. Ognuno di loro parla, canta, si esibisce, ma nessuno dalla folla li ascolta veramente e soprattutto nessuno di loro ha interazioni con gli altri.
Il rumore di fondo, costruito con cura attraverso la regia decentrata e l’uso del sonoro multitraccia (grazie a Jim Webb), non restituisce un senso collettivo, bensì un paesaggio sonoro saturato, in cui l’Io si dissolve nella messa in scena continua. Altman non esibisce solamente le debolezze dell’America, ma soprattutto palesa l’impossibilità di narrarla in modo coerente, se non come un collage disgregato e rumoroso. La città non è più solo capitale della musica country, ma di fatto acquisisce una “babelizzazione” che è popolata da personaggi persi in sé stessi, impossibilitati a tirarsi fuori dalla macchina dello spettacolo.
Henry Gibson, dopo l’evento scatenante la morte di Barbara Jean, apparente scombussolamento narrativo e climax del film, dirà chiaramente “This isn’t Dallas, this is Nashville” riportando tutto alla normalità. Un grido d’allarme supportato da totale indifferenza, dove il racconto si sfilaccia fino all’evento risolutore. Ma, come constata amaramente lo spettatore, non c’è la minima catarsi, in quanto i generi collassano su loro stessi. Nashville è allo stesso tempo musical, dramma, satira, mockumentary e disaster-movie, dove l’America non è più rappresentabile come totalità coerente. Tutto è superficie, show, performance, perfino la morte.
Naturalmente, tutto porta a vivere in prima persona l’orrore dell’uomo contemporaneo. Il vero orrore, qui, è dato dalla disgregazione dello stesso concetto d’identità (anche nazionale), da una coesione sociale irrappresentabile, se non tramite una strategia di saturazione, opacità, e perdita della centralità narrativa. In questo senso, da un certo punto di vista Nashville richiama da vicino anche le strutture combinatorie del più "cervellotico" tra gli autori della Nouvelle Vague: Jacques Rivette. Sia Altman che il regista francese sono coreografi del caos, in entrambi la sospensione diventa non semplice attesa, quanto piuttosto catarsi stessa e, soprattutto, entrambi frammentano il tessuto narrativo in molteplici linee d’azione, che si intersecano senza mai convergere. Un cinema combinatorio, in cui la macchina da presa mobile di Altman non riesce nemmeno a mettere a fuoco totalmente ciò che riprende, e dove l’overlapping, punto di forza dello stile del regista, non è solo un gesto tecnico, ma una poetica della disarticolazione a causa della quale la comunicazione fallisce totalmente, sancendo un’impossibilità di rappresentazione di un’umanità completamente smembrata.
La macchina-cinema, in Nashville, non mira più alla verità, ma al mistero del reale nella sua irriducibile ambiguità, e soprattutto diserta l’ambizione politica, che si ritrova più smaccatamente in altri film del cineasta americano. C’è, piuttosto, l’eclissi dell’utopia politica. Hal Philip Walker, il misterioso candidato alla presidenza, qualunquista e demagogo, resta, non a caso, una semplice voce fuori campo, un vero e proprio fantasma che ci racconta, fondamentalmente, la dissoluzione totale del potere e sancisce, piuttosto, una politica del “vuoto”, in cui non esistono più soggetti capaci di agire, ma solo corpi in movimento incastrati in una “ronde” rivettiana dove l’obiettivo di raccontare l’America non solo non è raggiunto, ma è piuttosto disfatto e disatteso.
Nashville è, in conclusione, un affresco corale in cui il vero mostro è l’uomo moderno, frammentato e immerso in un sistema che ha svuotato ogni atto del suo significato. È, di fatto, una materializzazione del realismo capitalista di Mark Fisher, che mostra come l’orrore (insieme alla politica, alla musica e all’identità) venga immediatamente assorbito dal dispositivo spettacolare. Nell’iconico e disturbante finale, non è la morte a far paura, ma la sua irrilevanza.
L'agghiacciante sequenza finale di Nashville (1975)