di Riccardo Rizzo
NC-299
06.05.2025
L’opera cinematografica di Pasolini è fortemente legata alla città di Roma, luogo cardine della sua biografia e già protagonista dei suoi racconti. Pier Paolo vi si trasferisce con la madre dopo la guerra, nel 1950. È qui che per la prima volta entra in contatto con il mondo del cinema. Oltre a lavorare in una scuola a Ciampino e come correttore di bozze presso un giornale locale, infatti, si iscrive al sindacato comparse di Cinecittà.
L’amore per la città è di quelli fulminei, a prima vista. La capitale, nonostante la situazione piuttosto drastica dell’immediato dopo-guerra, lo conquista in ogni suo aspetto. In particolare, Pasolini è affascinato dal mondo delle periferie. La borgata romana gli ricorda quel senso di autenticità tipico del mondo rurale che si è perso nei centri urbani del nuovo mondo dei consumi. Quell'universo semplice e per certi aspetti primitivo, non ancora corrotto dai piaceri del boom economico. Già dal suo arrivo a Roma inizia dunque a studiare il romanesco e a visitare le borgate, incontrando i ragazzi che ci vivono e studiandone i comportamenti e le abitudini.
È così che nel 1950 nasce Ragazzi di vita, uno dei suoi romanzi più famosi, che verrà pubblicato nel 1955. La borgata dei ragazzi di vita è una realtà degradata, dove le persone agiscono spinte solo dall’istinto e dalle pulsioni carnali. E i protagonisti sono proprio loro, dei semplici ragazzi di periferia costretti a vivere di espedienti più o meno legali per sopravvivere in un mondo povero e caotico dove non esistono punti di riferimento.
Pier Paolo Pasolini durante una partito di calcetto con i ragazzi della periferia
Pasolini con Franco Citti, Ninetto Davoli e Ettore Garofalo, i suoi interpreti-feticcio
Roma nel secondo dopo-guerra
La Roma del secondo dopo-guerra, d’altro canto, è nella sua totalità una realtà confusa, dove le periferie si estendono fino a confondersi con le campagne laziali. Emblematica, in tal senso, la sua rappresentazione nelle poesie de La vita in versi (1965) di Giovanni Giudici, che la contrappone alla città di Milano, il cuore del miracolo e dunque città del presente; e in Ladri di biciclette (1948), dove Vittorio De Sica racconta la storia dell’omonimo romanzo del 1946 di Luigi Bartolini.
Proprio Ladri di biciclette è fondamentale per comprendere e analizzare la Roma che Pasolini descriverà più di dieci anni dopo con Accattone (1961) e Mamma Roma (1962). De Sica mette in scena una città squisitamente neorealista, sfruttando attori non professionisti e raccontando la realtà degradata della capitale a tre anni dalla fine della guerra. Dai mercati informali di Porta Portese e di Pizza Vittorio Emanuele II alle vie che costeggiano il Tevere, Ladri di biciclette racconta del girovagare di Antonio e Bruno Ricci, rispettivamente padre e figlio, per cercare di recuperare una bicicletta. Questa è stata rubata da uno sconosciuto, ma è fondamentale per il lavoro di attacchino di Antonio. La sua famiglia è molto povera, e per comprarsi la bicicletta la moglie Maria ha dato in pegno persino delle lenzuola. Inizia quindi un girovagare senza meta alla ricerca del ladro di biciclette, con i due protagonisti che si ritrovano in situazioni e contesti che compongono un quadro variopinto e sfaccettato, dai contorni opachi e ricco di zone grigie - come per esempio il quartiere malfamato dove i residenti prendono le difese del ladro o la mensa dei poveri, dove l’umile borghesia fornisce cibo e assistenza ai più bisognosi.
Nel finale, quando ormai sembrano sfumate anche le più rosee speranze, Antonio vede una bicicletta incustodita davanti a un portone. Preso dalla disperazione, dice a Bruno di prendere il tram per tornare a casa e tenta grossolanamente di rubarla. Tuttavia viene immediatamente fermato dai presenti, che lo bloccano in attesa dell’arrivo delle forze dell’ordine. Sono solo le lacrime di pietà del piccolo Bruno a evitargli il carcere. Così i due, di nuovo mano nella mano, si allontanano nella folla, con la notte che cala inesorabile sulla capitale.
Antonio e Bruno, con il loro vagabondare e i loro lavori qua e là per Roma (a inizio film si vede Bruno che, alle prime luci dell’alba, esce di casa per andare a lavorare come garzone in una pompa di benzina), rappresentano dei ragazzi di vita ante-litteram. Padre e figlio incarnano l’essenza di quelli che saranno i protagonisti della filmografia di Pier Paolo Pasolini. E così Roma, che farà da sfondo alle disavventure del sottoproletariato pasoliniano.
Antonio e Bruno, i protagonisti di Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica
La borgata pasoliniana
Ritorniamo dunque all’opera di Pier Paolo Pasolini, che dopo la pubblicazione di Ragazzi di vita vede avvicinarsi sempre di più cinema e letteratura. A partire dagli anni Sessanta il mezzo cinematografico lo conquista nella sua interezza. Dopo le prime sceneggiature per Mario Soldati (La donna del fiume, 1954) e Muro Bolognini (La notte brava, 1959), arriva il primo lavoro personale: Accattone. Una volta ultimato il manoscritto lo presenta alla Federiz dell’amico Federico Fellini, che però non approva le scene di prova. In suo soccorso arriva Alfredo Bini (che produrrà quasi tutte le pellicole dell’autore bolognese), a cui spiega come vuole girare il film: molti primi piani, prevalenza dei personaggi sul paesaggio e in particolare grande semplicità. Così l’opera prende finalmente forma, e dopo essere stata presentata fuori concorso al Festival di Venezia del 1961, viene nuovamente mostrata a Parigi, dove viene accolta molto bene dalla critica. In patria purtroppo le cose vanno diversamente, con Accattone che viene vietato ai minori di diciotto anni. Durante la prima al cinema Barberini di Roma, inoltre, un gruppo di neofascisti irrompe in sala, danneggiandola e aggredendo gli spettatori.
Accattone può essere considerato come una trasposizione cinematografica delle sue opere precedenti, in particolare Ragazzi di vita. Sono proprio loro, i ragazzi di vita, a essere i protagonisti della pellicola. Dei giovani di borgata, della periferia romana degli anni Cinquanta e Sessanta, che vivono di piccoli furti ed espedienti più o meno legali. Accattone, al secolo Vittorio Cataldi, è uno di loro. Un giovane sottoproletario che vive nella periferia della città insieme alla prostituta Maddalena, che lo mantiene. Un giorno lei viene arrestata, e Accattone rimane senza soldi e un tetto sopra la testa. Tenta così di tornare dalla moglie Ascenza, che ora vive insieme al figlio dal padre e dal fratello, ma viene cacciato malamente. È in questo momento che incontra Stella, una ragazza di cui si innamora e per cui decide di trovarsi un lavoro onesto. Un impiego che però è molto faticoso, tanto che dopo una sola giornata è stremato. Decide così di tornare ai furti. Insieme a dei complici prova a rubare della merce da un autocarro, ma viene scoperto dalla polizia, che lo stava tenendo d’occhio a causa di Maddalena, che per gelosia lo aveva denunciato per sfruttamento. Vittorio prova dunque a scappare in motocicletta, ma è qui che trova la morte.
Girato con minime spese nei quartieri popolari della capitale, con un cast composto prevalentemente da attori non professionisti (una scelta voluta dallo stesso Pasolini per via della loro spontaneità e purezza), Accattone è stato fortemente criticato, come detto. Sottoposto a numerose critiche e ad aspri commenti, Pasolini ha dovuto lottare contro la censura e affrontare anche un processo. Oggi, tuttavia, dopo più di cinquant’anni dalla sua uscita, Accattone è considerato praticamente all’unanimità come una delle migliori opere del cinema italiano degli anni Sessanta. Il film è una trasposizione fedele della realtà capitolina degli anni del boom economico, dove tuttavia l’attenzione non è posta sui protagonisti della nuova epoca. I personaggi del racconto sono i vinti, gli esclusi, gli emarginati, coloro che non godono dei piaceri del consumo. Accattone è l’emblema del sottoproletariato romano, lo stesso da cui proviene il suo interprete Franco Citti - cresciuto insieme al fratello Sergio, storico regista, sceneggiatore e amico di Pier Paolo Pasolini, nella borgata di Marranella). E così i luoghi, dalle vie del centro alle strade della periferia capitolina del Pigneto e di borgata Gordiani, sono lo specchio di una città povera e degradata, che trova nell’arretratezza delle sue baracche un’autenticità che si è persa tra le luci della Roma bene.
Franco Citti in Accattone (1961)
Sulla stessa lunghezza viaggia anche Mamma Roma, secondo film di Pasolini, che riprende i temi e le ambientazioni della pellicola precedente. L’ispirazione questa volta arriva però anche da un fatto realmente accaduto: la morte di un detenuto di diciotto anni nel carcere di Regina Coeli, ritrovato legato al letto di contenzione. La protagonista della storia è una prostituta, Mamma Roma (Anna Magnani), che riesce a uscire dal "giro" grazie al matrimonio del suo protettore, Carmine (Franco Citti), che vuole iniziare una nuova vita. Finalmente libera, la donna si trasferisce nella periferia capitolina, dove spera di garantire un futuro migliore al figlio Ettore. Il ragazzo però cresce in un cattivo ambiente, e si unisce a un gruppo che di tanto in tanto organizza piccoli furti. Nel mentre si innamora di Bruna, una ragazza più grande di lui che ha già un figlio. Per farle dei regali inizia anche lui a rubare, arrivando a sottrarre dei dischi alla madre per rivenderli a Porta Portese.
Un giorno, per tentare di salvare la ragazza da uno stupro di gruppo, finisce in una rissa. È così che Mamma Roma viene a sapere della relazione tra i due. La ragazza non le piace, e vuole che il figlio aspiri a qualcosa di meglio. Si reca così dal parroco di zona per chiedergli aiuto per cercargli un lavoro nella ristorazione. Non ottenendo nulla dall’uomo, che le consiglia di mandarlo a scuola, Mamma Roma decide di rivolgersi alla prostituta e amica Biancofiore. La donna deve adescare il capo del ristorante e andarci a letto. In quel momento lei entrerà nella stanza con il protettore di lei, che si fingerà suo fratello, mettendo così il ristoratore con le spalle al muro. Sempre a Biancofiore chiede di conquistare il figlio, dato che così si dimenticherà di Bruna.
Anna Magnani e Ettore Garofalo, gli intensi personaggi di Mamma Roma (1962)
Poco tempo dopo, quando finalmente le cose stanno iniziando ad andare per il verso giusto, ritorna in scena Carmine, che si è stufato della sua nuova vita. Mamma Roma è quindi costretta a tornare in strada, iniziando così una doppia esistenza. Di giorno lavora al mercato, di notte sul marciapiede. Bruna viene però a sapere la verità, e rivela tutto a Ettore, che ricomincia con i furti. Un giorno il ragazzo, nonostante la febbre alta, tenta di rubare una radio a un uomo ricoverato in ospedale, ma viene arrestato. Morirà in seguito in cella, legato al letto di contenzione, tra i deliri della febbre. Appena lo scopre, Mamma Roma torna a casa dal mercato per piangere il figlio scomparso. Tenta anche lei il suicidio, ma viene fermata giusto in tempo da un gruppo di persone che l’avevano seguita. Infine, desiste dai suoi pensieri di morte alla vista della cupola della Basilica di San Giovanni Bosco.
La Roma di Accattone e Mamma Roma è un turbinio di disperazione e povertà. I suoi protagonisti, gli ultimi degli ultimi, vivono un’esistenza tormentata e immateriale, fatta di lunghe passeggiate ai confini del mondo urbano e da attese indefinite per un qualcosa di incerto e spesso inafferrabile. Il racconto pasoliniano della capitale mostra una realtà più vicina all’universo contadino, con i suoi abitanti che vivono alla giornata seguendo le proprie pulsioni e non curandosi della legge e delle norme sociali. Un racconto, quello di Pasolini, della realtà pura e incontaminata della borgata, diametralmente opposto a quello della Roma delle star e dei jet set raccontato, in quello stesso periodo, da Federico Fellini ne La dolce vita (1960).
Pasolini, Magnani e Garofalo sul set di Mamma Roma (1962)
La Roma delle luci e delle star
Uscito un anno prima di Accattone, La dolce vita racconta la quotidianità di Marcello Rubini (Marcello Mastroianni), un giornalista di cronaca mondana che, grazie al suo lavoro, rappresenta il perfetto punto di vista per la rappresentazione dello sfarzo e delle contraddizioni della Roma bene del boom economico, quella delle feste e delle serate nei locali nel cuore della città. La Roma de La dolce vita è quella dell’iconica scena nella Fontana di Trevi con Anita Ekberg e della femme fatale di Anouk Aimée, ma anche quella delle nevrosi e della disillusione dell’élite capitolina, che culminano nella festa finale sul litorale romano.
È nella rappresentazione della Roma bene che La dolce vita diventa grande, influenzando la visione e la concezione della Capitale all’estero per molti anni a venire. Ancora oggi, di fatto, oltreoceano sono in molti a sognare le passeggiate per le vie del centro e le serate nei club più esclusivi. A livello culturale l’impatto della pellicola è senza precedenti. Giusto per fare qualche esempio, il cognome di uno dei personaggi del film, Paparazzo, ha coniato il nome comune “paparazzo”; il maglione a collo alto di Marcello diventa il dolce vita; e lo stesso titolo del film entra nell’immaginario collettivo come sinonimo di uno stile di vita ricco e lussuoso, tipicamente associato a un preciso gusto e a un’estetica che riprendono gli stilemi e le scene del film.
Anouk Aimée nel ruolo di Maddalena, uno dei tanti personaggi che compongono il "carosello umano" de La dolce vita (1960) di Federico Fellini
L'eredità della Roma neorealista
Le rappresentazioni di Roma di Pasolini e Fellini sono a tutti gli effetti complementari: le due facce di una stessa medaglia, la capitale italiana nei primi anni Sessanta; quella della Ricostruzione e del boom economico, dei frigoriferi e delle prime televisioni. Pasolini in particolare, grazie anche al lavoro di Sergio Citti, che ha continuato spiritualmente la sua opera cinematografica e filosofica, ha avuto una forte influenza sulla produzione futura e sul racconto della città.
Anche dopo la sua morte, avvenuta nel novembre del 1975, la sua eredità continua a vivere nelle memorie dei suoi amici e collaboratori, ma anche per le vie delle borgate e delle periferie romane. Talvolta intere produzioni diventano un simbolo di ciò che è la vita ai margini della capitale. Uno dei degli esempi più lampanti è Brutti, sporchi e cattivi (1976) di Ettore Scola, uscito proprio l’anno seguente alla scomparsa di Pasolini. Il film racconta la vita del sottoproletariato pugliese in una baraccopoli su Monte Ciocci, dietro San Pietro. Mostrando il degrado della slum, Scola vuole descrivere la brutalizzazione dei rapporti umani causata dal capitale.
La pellicola, anche vista la collaborazione per la sceneggiatura di Sergio Citti (che lavora sui dialoghi), è vista da alcuni come un’effettiva dedica a Pasolini e al suo racconto di Roma. Oltre che nei luoghi e nei suoi protagonisti, è proprio nel linguaggio e nei dialoghi che forse sta il più grande riferimento all’intellettuale emiliano, con un uso del grottesco che rappresenta un’istantanea perfetta della realtà popolare del dopo-guerra. Scola racconta ancora una volta la dimensione del sottoproletariato romano, concentrandosi su coloro che non godono dei miracoli dell’era dei consumi e del boom economico. Un racconto su pellicola di un mondo oggi scomparso, ma che grazie al cinema può vivere ancora nella memoria e nel ricordo di chi quell’epoca non l’ha nemmeno vissuta.
Brutti, sporchi e cattivi (1976) di Ettore Scola
di Riccardo Rizzo
NC-299
06.05.2025
Pier Paolo Pasolini durante una partito di calcetto con i ragazzi della periferia
L’opera cinematografica di Pasolini è fortemente legata alla città di Roma, luogo cardine della sua biografia e già protagonista dei suoi racconti. Pier Paolo vi si trasferisce con la madre dopo la guerra, nel 1950. È qui che per la prima volta entra in contatto con il mondo del cinema. Oltre a lavorare in una scuola a Ciampino e come correttore di bozze presso un giornale locale, infatti, si iscrive al sindacato comparse di Cinecittà.
L’amore per la città è di quelli fulminei, a prima vista. La capitale, nonostante la situazione piuttosto drastica dell’immediato dopo-guerra, lo conquista in ogni suo aspetto. In particolare, Pasolini è affascinato dal mondo delle periferie. La borgata romana gli ricorda quel senso di autenticità tipico del mondo rurale che si è perso nei centri urbani del nuovo mondo dei consumi. Quell'universo semplice e per certi aspetti primitivo, non ancora corrotto dai piaceri del boom economico. Già dal suo arrivo a Roma inizia dunque a studiare il romanesco e a visitare le borgate, incontrando i ragazzi che ci vivono e studiandone i comportamenti e le abitudini.
È così che nel 1950 nasce Ragazzi di vita, uno dei suoi romanzi più famosi, che verrà pubblicato nel 1955. La borgata dei ragazzi di vita è una realtà degradata, dove le persone agiscono spinte solo dall’istinto e dalle pulsioni carnali. E i protagonisti sono proprio loro, dei semplici ragazzi di periferia costretti a vivere di espedienti più o meno legali per sopravvivere in un mondo povero e caotico dove non esistono punti di riferimento.
Pasolini con Franco Citti, Ninetto Davoli e Ettore Garofalo, i suoi interpreti-feticcio
Roma nel secondo dopo-guerra
La Roma del secondo dopo-guerra, d’altro canto, è nella sua totalità una realtà confusa, dove le periferie si estendono fino a confondersi con le campagne laziali. Emblematica, in tal senso, la sua rappresentazione nelle poesie de La vita in versi (1965) di Giovanni Giudici, che la contrappone alla città di Milano, il cuore del miracolo e dunque città del presente; e in Ladri di biciclette (1948), dove Vittorio De Sica racconta la storia dell’omonimo romanzo del 1946 di Luigi Bartolini.
Proprio Ladri di biciclette è fondamentale per comprendere e analizzare la Roma che Pasolini descriverà più di dieci anni dopo con Accattone (1961) e Mamma Roma (1962). De Sica mette in scena una città squisitamente neorealista, sfruttando attori non professionisti e raccontando la realtà degradata della capitale a tre anni dalla fine della guerra. Dai mercati informali di Porta Portese e di Pizza Vittorio Emanuele II alle vie che costeggiano il Tevere, Ladri di biciclette racconta del girovagare di Antonio e Bruno Ricci, rispettivamente padre e figlio, per cercare di recuperare una bicicletta. Questa è stata rubata da uno sconosciuto, ma è fondamentale per il lavoro di attacchino di Antonio. La sua famiglia è molto povera, e per comprarsi la bicicletta la moglie Maria ha dato in pegno persino delle lenzuola. Inizia quindi un girovagare senza meta alla ricerca del ladro di biciclette, con i due protagonisti che si ritrovano in situazioni e contesti che compongono un quadro variopinto e sfaccettato, dai contorni opachi e ricco di zone grigie - come per esempio il quartiere malfamato dove i residenti prendono le difese del ladro o la mensa dei poveri, dove l’umile borghesia fornisce cibo e assistenza ai più bisognosi.
Nel finale, quando ormai sembrano sfumate anche le più rosee speranze, Antonio vede una bicicletta incustodita davanti a un portone. Preso dalla disperazione, dice a Bruno di prendere il tram per tornare a casa e tenta grossolanamente di rubarla. Tuttavia viene immediatamente fermato dai presenti, che lo bloccano in attesa dell’arrivo delle forze dell’ordine. Sono solo le lacrime di pietà del piccolo Bruno a evitargli il carcere. Così i due, di nuovo mano nella mano, si allontanano nella folla, con la notte che cala inesorabile sulla capitale.
Antonio e Bruno, con il loro vagabondare e i loro lavori qua e là per Roma (a inizio film si vede Bruno che, alle prime luci dell’alba, esce di casa per andare a lavorare come garzone in una pompa di benzina), rappresentano dei ragazzi di vita ante-litteram. Padre e figlio incarnano l’essenza di quelli che saranno i protagonisti della filmografia di Pier Paolo Pasolini. E così Roma, che farà da sfondo alle disavventure del sottoproletariato pasoliniano.
Antonio e Bruno, i protagonisti di Ladri di biciclette (1948) di Vittorio De Sica
La borgata pasoliniana
Ritorniamo dunque all’opera di Pier Paolo Pasolini, che dopo la pubblicazione di Ragazzi di vita vede avvicinarsi sempre di più cinema e letteratura. A partire dagli anni Sessanta il mezzo cinematografico lo conquista nella sua interezza. Dopo le prime sceneggiature per Mario Soldati (La donna del fiume, 1954) e Muro Bolognini (La notte brava, 1959), arriva il primo lavoro personale: Accattone. Una volta ultimato il manoscritto lo presenta alla Federiz dell’amico Federico Fellini, che però non approva le scene di prova. In suo soccorso arriva Alfredo Bini (che produrrà quasi tutte le pellicole dell’autore bolognese), a cui spiega come vuole girare il film: molti primi piani, prevalenza dei personaggi sul paesaggio e in particolare grande semplicità. Così l’opera prende finalmente forma, e dopo essere stata presentata fuori concorso al Festival di Venezia del 1961, viene nuovamente mostrata a Parigi, dove viene accolta molto bene dalla critica. In patria purtroppo le cose vanno diversamente, con Accattone che viene vietato ai minori di diciotto anni. Durante la prima al cinema Barberini di Roma, inoltre, un gruppo di neofascisti irrompe in sala, danneggiandola e aggredendo gli spettatori.
Accattone può essere considerato come una trasposizione cinematografica delle sue opere precedenti, in particolare Ragazzi di vita. Sono proprio loro, i ragazzi di vita, a essere i protagonisti della pellicola. Dei giovani di borgata, della periferia romana degli anni Cinquanta e Sessanta, che vivono di piccoli furti ed espedienti più o meno legali. Accattone, al secolo Vittorio Cataldi, è uno di loro. Un giovane sottoproletario che vive nella periferia della città insieme alla prostituta Maddalena, che lo mantiene. Un giorno lei viene arrestata, e Accattone rimane senza soldi e un tetto sopra la testa. Tenta così di tornare dalla moglie Ascenza, che ora vive insieme al figlio dal padre e dal fratello, ma viene cacciato malamente. È in questo momento che incontra Stella, una ragazza di cui si innamora e per cui decide di trovarsi un lavoro onesto. Un impiego che però è molto faticoso, tanto che dopo una sola giornata è stremato. Decide così di tornare ai furti. Insieme a dei complici prova a rubare della merce da un autocarro, ma viene scoperto dalla polizia, che lo stava tenendo d’occhio a causa di Maddalena, che per gelosia lo aveva denunciato per sfruttamento. Vittorio prova dunque a scappare in motocicletta, ma è qui che trova la morte.
Girato con minime spese nei quartieri popolari della capitale, con un cast composto prevalentemente da attori non professionisti (una scelta voluta dallo stesso Pasolini per via della loro spontaneità e purezza), Accattone è stato fortemente criticato, come detto. Sottoposto a numerose critiche e ad aspri commenti, Pasolini ha dovuto lottare contro la censura e affrontare anche un processo. Oggi, tuttavia, dopo più di cinquant’anni dalla sua uscita, Accattone è considerato praticamente all’unanimità come una delle migliori opere del cinema italiano degli anni Sessanta. Il film è una trasposizione fedele della realtà capitolina degli anni del boom economico, dove tuttavia l’attenzione non è posta sui protagonisti della nuova epoca. I personaggi del racconto sono i vinti, gli esclusi, gli emarginati, coloro che non godono dei piaceri del consumo. Accattone è l’emblema del sottoproletariato romano, lo stesso da cui proviene il suo interprete Franco Citti - cresciuto insieme al fratello Sergio, storico regista, sceneggiatore e amico di Pier Paolo Pasolini, nella borgata di Marranella). E così i luoghi, dalle vie del centro alle strade della periferia capitolina del Pigneto e di borgata Gordiani, sono lo specchio di una città povera e degradata, che trova nell’arretratezza delle sue baracche un’autenticità che si è persa tra le luci della Roma bene.
Franco Citti in Accattone (1961)
Sulla stessa lunghezza viaggia anche Mamma Roma, secondo film di Pasolini, che riprende i temi e le ambientazioni della pellicola precedente. L’ispirazione questa volta arriva però anche da un fatto realmente accaduto: la morte di un detenuto di diciotto anni nel carcere di Regina Coeli, ritrovato legato al letto di contenzione. La protagonista della storia è una prostituta, Mamma Roma (Anna Magnani), che riesce a uscire dal "giro" grazie al matrimonio del suo protettore, Carmine (Franco Citti), che vuole iniziare una nuova vita. Finalmente libera, la donna si trasferisce nella periferia capitolina, dove spera di garantire un futuro migliore al figlio Ettore. Il ragazzo però cresce in un cattivo ambiente, e si unisce a un gruppo che di tanto in tanto organizza piccoli furti. Nel mentre si innamora di Bruna, una ragazza più grande di lui che ha già un figlio. Per farle dei regali inizia anche lui a rubare, arrivando a sottrarre dei dischi alla madre per rivenderli a Porta Portese.
Un giorno, per tentare di salvare la ragazza da uno stupro di gruppo, finisce in una rissa. È così che Mamma Roma viene a sapere della relazione tra i due. La ragazza non le piace, e vuole che il figlio aspiri a qualcosa di meglio. Si reca così dal parroco di zona per chiedergli aiuto per cercargli un lavoro nella ristorazione. Non ottenendo nulla dall’uomo, che le consiglia di mandarlo a scuola, Mamma Roma decide di rivolgersi alla prostituta e amica Biancofiore. La donna deve adescare il capo del ristorante e andarci a letto. In quel momento lei entrerà nella stanza con il protettore di lei, che si fingerà suo fratello, mettendo così il ristoratore con le spalle al muro. Sempre a Biancofiore chiede di conquistare il figlio, dato che così si dimenticherà di Bruna.
Anna Magnani e Ettore Garofalo, gli intensi personaggi di Mamma Roma (1962)
Poco tempo dopo, quando finalmente le cose stanno iniziando ad andare per il verso giusto, ritorna in scena Carmine, che si è stufato della sua nuova vita. Mamma Roma è quindi costretta a tornare in strada, iniziando così una doppia esistenza. Di giorno lavora al mercato, di notte sul marciapiede. Bruna viene però a sapere la verità, e rivela tutto a Ettore, che ricomincia con i furti. Un giorno il ragazzo, nonostante la febbre alta, tenta di rubare una radio a un uomo ricoverato in ospedale, ma viene arrestato. Morirà in seguito in cella, legato al letto di contenzione, tra i deliri della febbre. Appena lo scopre, Mamma Roma torna a casa dal mercato per piangere il figlio scomparso. Tenta anche lei il suicidio, ma viene fermata giusto in tempo da un gruppo di persone che l’avevano seguita. Infine, desiste dai suoi pensieri di morte alla vista della cupola della Basilica di San Giovanni Bosco.
La Roma di Accattone e Mamma Roma è un turbinio di disperazione e povertà. I suoi protagonisti, gli ultimi degli ultimi, vivono un’esistenza tormentata e immateriale, fatta di lunghe passeggiate ai confini del mondo urbano e da attese indefinite per un qualcosa di incerto e spesso inafferrabile. Il racconto pasoliniano della capitale mostra una realtà più vicina all’universo contadino, con i suoi abitanti che vivono alla giornata seguendo le proprie pulsioni e non curandosi della legge e delle norme sociali. Un racconto, quello di Pasolini, della realtà pura e incontaminata della borgata, diametralmente opposto a quello della Roma delle star e dei jet set raccontato, in quello stesso periodo, da Federico Fellini ne La dolce vita (1960).
Pasolini, Magnani e Garofalo sul set di Mamma Roma (1962)
La Roma delle luci e delle star
Uscito un anno prima di Accattone, La dolce vita racconta la quotidianità di Marcello Rubini (Marcello Mastroianni), un giornalista di cronaca mondana che, grazie al suo lavoro, rappresenta il perfetto punto di vista per la rappresentazione dello sfarzo e delle contraddizioni della Roma bene del boom economico, quella delle feste e delle serate nei locali nel cuore della città. La Roma de La dolce vita è quella dell’iconica scena nella Fontana di Trevi con Anita Ekberg e della femme fatale di Anouk Aimée, ma anche quella delle nevrosi e della disillusione dell’élite capitolina, che culminano nella festa finale sul litorale romano.
È nella rappresentazione della Roma bene che La dolce vita diventa grande, influenzando la visione e la concezione della Capitale all’estero per molti anni a venire. Ancora oggi, di fatto, oltreoceano sono in molti a sognare le passeggiate per le vie del centro e le serate nei club più esclusivi. A livello culturale l’impatto della pellicola è senza precedenti. Giusto per fare qualche esempio, il cognome di uno dei personaggi del film, Paparazzo, ha coniato il nome comune “paparazzo”; il maglione a collo alto di Marcello diventa il dolce vita; e lo stesso titolo del film entra nell’immaginario collettivo come sinonimo di uno stile di vita ricco e lussuoso, tipicamente associato a un preciso gusto e a un’estetica che riprendono gli stilemi e le scene del film.
Anouk Aimée nel ruolo di Maddalena, uno dei tanti personaggi che compongono il "carosello umano" de La dolce vita (1960) di Federico Fellini
L'eredità della Roma neorealista
Le rappresentazioni di Roma di Pasolini e Fellini sono a tutti gli effetti complementari: le due facce di una stessa medaglia, la capitale italiana nei primi anni Sessanta; quella della Ricostruzione e del boom economico, dei frigoriferi e delle prime televisioni. Pasolini in particolare, grazie anche al lavoro di Sergio Citti, che ha continuato spiritualmente la sua opera cinematografica e filosofica, ha avuto una forte influenza sulla produzione futura e sul racconto della città.
Anche dopo la sua morte, avvenuta nel novembre del 1975, la sua eredità continua a vivere nelle memorie dei suoi amici e collaboratori, ma anche per le vie delle borgate e delle periferie romane. Talvolta intere produzioni diventano un simbolo di ciò che è la vita ai margini della capitale. Uno dei degli esempi più lampanti è Brutti, sporchi e cattivi (1976) di Ettore Scola, uscito proprio l’anno seguente alla scomparsa di Pasolini. Il film racconta la vita del sottoproletariato pugliese in una baraccopoli su Monte Ciocci, dietro San Pietro. Mostrando il degrado della slum, Scola vuole descrivere la brutalizzazione dei rapporti umani causata dal capitale.
La pellicola, anche vista la collaborazione per la sceneggiatura di Sergio Citti (che lavora sui dialoghi), è vista da alcuni come un’effettiva dedica a Pasolini e al suo racconto di Roma. Oltre che nei luoghi e nei suoi protagonisti, è proprio nel linguaggio e nei dialoghi che forse sta il più grande riferimento all’intellettuale emiliano, con un uso del grottesco che rappresenta un’istantanea perfetta della realtà popolare del dopo-guerra. Scola racconta ancora una volta la dimensione del sottoproletariato romano, concentrandosi su coloro che non godono dei miracoli dell’era dei consumi e del boom economico. Un racconto su pellicola di un mondo oggi scomparso, ma che grazie al cinema può vivere ancora nella memoria e nel ricordo di chi quell’epoca non l’ha nemmeno vissuta.
Brutti, sporchi e cattivi (1976) di Ettore Scola