NC-109
27.04.2022
Lucile Hadžihalilović, classe 1961, è una regista francese di origini bosniache cresciuta in Marocco. Nota soprattutto per essere la moglie e una frequente collaboratrice di Gaspar Noé, Lucile Hadžihalilović ha in realtà all’attivo una filmografia di tutto rispetto, anche se limitata a pochi titoli, profondamente diversa da quella del marito: il suo corto di laurea, La Premier Mort de Nono, del 1987; il mediometraggio La Bouche de Jean-Pierre, prodotto da Les Cinémas de la Zone, società di produzione co-fondata con Noé, e presentato a Cannes nel 1996; il cortometraggio Good Boys Use Condoms, realizzato con lo stesso bando ministeriale per la sensibilizzazione all’uso dei contraccettivi che aveva sostenuto Sodomites del marito. Il suo primo lungometraggio, Innocence, del 2004, presentato alla sezione Un Certain Regard di Cannes e vincitore del Cavallo di Bronzo al Festival di Stoccolma, che rese la Hadžihalilović la prima donna a vincere tale premio; dopo il cortometraggio Nectar del 2014, ha presentato il suo secondo lungometraggio, Evolution, al Festival di Toronto nel 2015. Un terzo film, Earwig, ha da poco iniziato la sua corsa festivaliera; il portale specializzato Cineuropa lo ha definito “un capolavoro saturniano soggiogante che apre le porte verso altre dimensioni”, ma non è stato ancora distribuito nemmeno nelle sale francesi.
Solamente il mediometraggio La Bouche de Jean-Pierre è effettivamente simile al cinema di Noé, a cominciare dalla fotografia in Super 16, dallo stile dei titoli di testa, dei “cartelli” che più saltuariamente fanno capolino fra una scena e l’altra e dall’argomento del film: dopo il tentato suicidio della madre e il suo conseguente ricovero, Mimi (Sandra Sammartino), una bambina di dieci anni, va ad abitare a casa della zia (Denise Aron-Schropfer) e del suo compagno Jean-Pierre (Michel Trillot), il quale, attratto dalla bambina così come la bambina in un primo tempo sembra attratta da lui, arriva ad abusare di lei; nel finale del film Mimi assume un gran numero di sonniferi imitando la madre. Descritto dalla Hadžihalilović come un omaggio a Repulsion e a L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski, La Bouche de Jean-Pierre riprende fedelmente lo stile grezzo e poco curato di Carne di Noè, così come la sua ambientazione nei sobborghi parigini, ma con toni più drammatici che raccontano una vicenda di abuso dagli occhi stessi della bambina.
Innocence, il suo lungometraggio di esordio, è un concentrato densissimo di simbolismo e sensorialità. Ispirato al romanzo breve Mine Haha – ovvero Dell’educazione fisica delle fanciulle pubblicato nel 1903 dal drammaturgo tedesco Frank Wedekind, Innocence si configura come una particolare allegoria dell’adolescenza femminile, o meglio del passaggio da infanzia a pubertà con delle evidenti filiazioni da Suspiria di Dario Argento ed alcuni riferimenti a Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir, con qualche eco anche dai lavori dei fotografi Sally Mann e Bernard Faucon. La fotografia è di Benoît Debie, abituale cinematographer di Noé, anche lui premiato a Stoccolma per il suo lavoro.
Ambientato in un misterioso collegio femminile in mezzo alla natura, Innocence è diviso in tre parti. La prima si colloca all’inizio dell’anno scolastico, tra estate e autunno: come ogni anno, le nuove arrivate entrano nel collegio trasportate in misteriose bare e si svolge il rito dello scambio dei nastri che le bambine portano sulla testa come accessori della loro uniforme, e che cambia colore ogni anno. Gradualmente veniamo a conoscere le regole e gli orari del collegio, assistiamo alle lezioni in classe tenute da Mademoiselle Edith (Hélène de Fougerolles) e le lezioni di danza tenute da Mademoiselle Eva (Marion Cotillard). Tutto sarebbe idilliaco, se non fosse che due bambine tentano di fuggire per tornare a casa finiscono entrambe in malo modo: una muore annegata, l’altra sembra venir addirittura giustiziata dalle guardie del collegio. Con l’arrivo della primavera, Innocence si concentra sulle preadolescenti dell’ultimo anno, la sesta classe delle elementari francesi. In una lezione, Mademoiselle Edith le informa dei cambiamenti fisici di cui presto faranno esperienza, con l’abituale metafora della adolescente come farfalla; e ogni notte queste ragazze sono tenute a fare un’esibizione di danza per un pubblico misterioso, seduto in una platea completamente buia, da cui ogni tanto si sente qualche voce maschile. L’ultimo giorno di scuola, le ragazze del sesto anno sono finalmente libere di uscire dal collegio. Arrivate in treno in città, Bianca e le altre ragazze si gettano nell’acqua di una fontana monumentale; Bianca gioca a schizzarsi con un ragazzo senza riuscire a vedere il suo volto, che resta nascosto dietro il getto d’acqua. Dopo una nuova sequenza di immagini naturalistiche, il film si chiude con una dedica “à Gaspar”.
Il secondo film di Lucile Hadžihalilović, Evolution, è stato girato nel 2015 a Lanzarote dopo molte difficoltà a trovare i finanziamenti necessari per realizzarlo. Pur mantenendosi in una particolare sospensione fra i generi, assume tinte più orrorifiche rispetto ad Innocence, di cui è in un certo senso prolungamento e contraltare. Concettualmente stratificato e polisemico come e più di Innocence, ha una trama ancora più allegorica e palpitante. “Un luogo indefinito. In un tempo altrettanto indefinito. Un piccolo villaggio in un’isola affacciata sull’oceano, abitata solo da bambini e dalle rispettive madri. Senza alcuna traccia di uomini. Una terra misteriosa che abbraccia in ogni istante le acque. Un ospedale in cui i bambini vengono periodicamente ricoverati affinché le infermiere possano compiere su di loro bizzarri e inquietanti esperimenti. Strani riti notturni che coinvolgono le madri presenti sull’isola. Istinti primordiali a braccetto con orribili trattamenti volti alla rigenerazione della razza e a una sorta di procreazione assistita. Silenzi e angosce, granchi e stelle marine. Uno dei bambini/cavia, Nicolas, unico a comprendere come ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in tutto ciò che accade, e unico a provare in qualche modo a indagare per scoprire la verità”. Nicolas, con l’aiuto della benevola infermiera Stella, arriva a sfiorare la verità – forse lui e gli altri bambini sono stati rapiti, in ogni caso è assai probabile che le loro madri non siano le loro vere madri – e riesce a fuggire dall’isola in direzione della terraferma.
Innocence ed Evolution spiccano per alcune caratteristiche comuni: in primis, l’attenzione data alla natura, dal momento che anche tutte le vicende del primo film e tutte le bambine protagoniste di esso si relazionano con l’ambiente naturale circostante, lo scorrere delle stagioni scandisce il film che si apre e si chiude con una successione di immagini naturali; in secondo luogo, la scelta “delimitante” e confinata dei suoi protagonisti: in Innocence ci sono solo donne, vale a dire le bambine e poche donne adulte, insegnanti o inservienti della scuola, così come in Evolution vi saranno solo bambini maschi e le loro madri. Entrambi i film sono peraltro ambientati in una sorta di Arcadia naturale che si rivelerà, a causa anche di una sorta di “vampirismo” degli adulti verso i bambini che emerge più chiaramente in Evolution, un Eden fittizio, un utero maligno; la prospettiva adottata è ovviamente quella dei bambini, che non comprendono le ragioni degli adulti e che lentamente arrivano a conoscere quella che, almeno ai loro occhi, è la loro “malvagità” – le esibizioni di danza per le ragazze dell’ultimo anno in Innocence, gli inquietanti rituali e i rapimenti delle madri di Evolution.
Le due caratteristiche più forti di questo dittico - accomunato anche dal senso di progressività dei due titoli tratti da William Blake, dall’“innocenza” all’”evoluzione”, alla crescita –, quelle che rendono profondamente originale e seminale il cinema di Lucile Hadžihalilović, sono però l’elemento della metafora e l’elemento del mistero, due strumenti drammaturgici apparentemente semplicissimi ma raramente utilizzati al pieno delle loro potenzialità al cinema. Le metafore di cui si ammantano entrambi i film sono eminentemente visive e sensoriali; raramente possono essere esplicate e spiegate con efficacia a parole; si intuisce che entrambi i film rappresentano, per via metaforica, la crescita, lo struggente passaggio dall’infanzia alla adolescenza. Tale intuizione è destinata a rimanere inesprimibile nelle sue singole componenti – la danza, la stella marina, gli esperimenti in ospedale, l’uccisione delle bambine che provano a fuggire dal collegio, tutto ciò è apparentemente slegato agli occhi della logica e di un’esperienza “razionale” di visione; solo l’intuizione e l’emotività comprendono che ogni singolo elemento del film è, a un livello pre-conscio, organicamente e indelebilmente connesso con gli altri, e fornisce forza e pregnanza archetipica alle tematiche di fondo comuni al dittico.
Un simile processo metonimico si consumava anche nel cinema di Gaspar Noé, ma laddove i suoi film si riallacciano agli elementi più oscuri e infernali della nostra personalità – al nostro Es, si potrebbe dire – l’immaginario dei due film della Hadžihalilović comunica con la parte più infantile di esso, con un effetto emotivamente ancora più ipnotico. Nella loro inesplicabilità i simboli che caratterizzano Innocence ed Evolution assumono una particolare pregnanza del tutto cinematografica – sulla carta avrebbero senz’altro minore effetto – e, complice la ricorrente presenza dell’elemento naturale dell’acqua, rendono i due film di Lucile Hadžihalilović umidi, turgidi e a tratti spugnosi, “acque vive” in cui lo spettatore non può che annegare in pace, in un sereno naufragio.
Lo stesso vale per l’elemento del mistero, che collega per certi versi il cinema della Hadžihalilović con quello di Hirokazu Kore’eda. Un primo passo per la creazione del “mistero” in un film sta nell’omettere, o comunque nel non mostrare un elemento necessario per la comprensione piena della sua trama; generalmente – come da tradizione in tutti i thriller e i “film di mistero” – questo elemento, sia esso un segreto del protagonista o del mondo che lo circonda, viene svelato nel finale della pellicola, facendo dare allo spettatore una lettura retrospettiva degli eventi narrati molto diversa da quella creduta vera per tutta l’ora e mezza precedente. Ciò che invece Lucile Hadžihalilović e altri registi al pari di lei hanno capito e messo in pratica è che, soprattutto in film profondamente simbolici, il non spiegare mai, programmaticamente, tutto ciò che generalmente viene spiegato in un film crea un effetto particolarmente suggestivo. Le famose domande a cui ogni sceneggiatore, come ogni critico, deve rispondere – chi è il protagonista? perché agisce così? qual è il suo passato? quale logica muove il mondo che lo circonda? – sono qui completamente evase. Caduta ogni speranza di comprensione logica e intellettuale del film, lo spettatore non può fare altro che abbandonarsi al flusso emotivo ed emozionante delle immagini e a inferirne la “verità” solo attraverso lo sguardo. Ogni spiegazione taciuta può potenzialmente rendere un film molto più pregnante di qualunque prolissa spiegazione, per quanto originale e illuminante.
Sebbene troppo spesso ricordata unicamente per la collaborazione con il marito – collaborazione pure egregia, che ha portato, tra le altre cose alla sceneggiatura di un capolavoro come Enter the Void –, Lucile Hadžihalilović resta una delle voci più profonde e toccanti del cinema europeo. La sua formazione cosmopolita e il suo linguaggio simbolista la mettono al riparo da uno dei “vizi” più comuni di certo autorialismo, ossia l’eccessivo ancoraggio a questioni ombelicali o cliché nazionali. In attesa di Earwig, certo è che il dittico composto da Innocence ed Evolution compone al tempo stesso una cornucopia e un vaso di Pandora, capaci come pochi altri film di riportare gli spettatori alle sensazioni e a certi stati d’animo tipici dell’infanzia.
NC-109
27.04.2022
Lucile Hadžihalilović, classe 1961, è una regista francese di origini bosniache cresciuta in Marocco. Nota soprattutto per essere la moglie e una frequente collaboratrice di Gaspar Noé, Lucile Hadžihalilović ha in realtà all’attivo una filmografia di tutto rispetto, anche se limitata a pochi titoli, profondamente diversa da quella del marito: il suo corto di laurea, La Premier Mort de Nono, del 1987; il mediometraggio La Bouche de Jean-Pierre, prodotto da Les Cinémas de la Zone, società di produzione co-fondata con Noé, e presentato a Cannes nel 1996; il cortometraggio Good Boys Use Condoms, realizzato con lo stesso bando ministeriale per la sensibilizzazione all’uso dei contraccettivi che aveva sostenuto Sodomites del marito. Il suo primo lungometraggio, Innocence, del 2004, presentato alla sezione Un Certain Regard di Cannes e vincitore del Cavallo di Bronzo al Festival di Stoccolma, che rese la Hadžihalilović la prima donna a vincere tale premio; dopo il cortometraggio Nectar del 2014, ha presentato il suo secondo lungometraggio, Evolution, al Festival di Toronto nel 2015. Un terzo film, Earwig, ha da poco iniziato la sua corsa festivaliera; il portale specializzato Cineuropa lo ha definito “un capolavoro saturniano soggiogante che apre le porte verso altre dimensioni”, ma non è stato ancora distribuito nemmeno nelle sale francesi.
Solamente il mediometraggio La Bouche de Jean-Pierre è effettivamente simile al cinema di Noé, a cominciare dalla fotografia in Super 16, dallo stile dei titoli di testa, dei “cartelli” che più saltuariamente fanno capolino fra una scena e l’altra e dall’argomento del film: dopo il tentato suicidio della madre e il suo conseguente ricovero, Mimi (Sandra Sammartino), una bambina di dieci anni, va ad abitare a casa della zia (Denise Aron-Schropfer) e del suo compagno Jean-Pierre (Michel Trillot), il quale, attratto dalla bambina così come la bambina in un primo tempo sembra attratta da lui, arriva ad abusare di lei; nel finale del film Mimi assume un gran numero di sonniferi imitando la madre. Descritto dalla Hadžihalilović come un omaggio a Repulsion e a L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski, La Bouche de Jean-Pierre riprende fedelmente lo stile grezzo e poco curato di Carne di Noè, così come la sua ambientazione nei sobborghi parigini, ma con toni più drammatici che raccontano una vicenda di abuso dagli occhi stessi della bambina.
Innocence, il suo lungometraggio di esordio, è un concentrato densissimo di simbolismo e sensorialità. Ispirato al romanzo breve Mine Haha – ovvero Dell’educazione fisica delle fanciulle pubblicato nel 1903 dal drammaturgo tedesco Frank Wedekind, Innocence si configura come una particolare allegoria dell’adolescenza femminile, o meglio del passaggio da infanzia a pubertà con delle evidenti filiazioni da Suspiria di Dario Argento ed alcuni riferimenti a Picnic ad Hanging Rock di Peter Weir, con qualche eco anche dai lavori dei fotografi Sally Mann e Bernard Faucon. La fotografia è di Benoît Debie, abituale cinematographer di Noé, anche lui premiato a Stoccolma per il suo lavoro.
Ambientato in un misterioso collegio femminile in mezzo alla natura, Innocence è diviso in tre parti. La prima si colloca all’inizio dell’anno scolastico, tra estate e autunno: come ogni anno, le nuove arrivate entrano nel collegio trasportate in misteriose bare e si svolge il rito dello scambio dei nastri che le bambine portano sulla testa come accessori della loro uniforme, e che cambia colore ogni anno. Gradualmente veniamo a conoscere le regole e gli orari del collegio, assistiamo alle lezioni in classe tenute da Mademoiselle Edith (Hélène de Fougerolles) e le lezioni di danza tenute da Mademoiselle Eva (Marion Cotillard). Tutto sarebbe idilliaco, se non fosse che due bambine tentano di fuggire per tornare a casa finiscono entrambe in malo modo: una muore annegata, l’altra sembra venir addirittura giustiziata dalle guardie del collegio. Con l’arrivo della primavera, Innocence si concentra sulle preadolescenti dell’ultimo anno, la sesta classe delle elementari francesi. In una lezione, Mademoiselle Edith le informa dei cambiamenti fisici di cui presto faranno esperienza, con l’abituale metafora della adolescente come farfalla; e ogni notte queste ragazze sono tenute a fare un’esibizione di danza per un pubblico misterioso, seduto in una platea completamente buia, da cui ogni tanto si sente qualche voce maschile. L’ultimo giorno di scuola, le ragazze del sesto anno sono finalmente libere di uscire dal collegio. Arrivate in treno in città, Bianca e le altre ragazze si gettano nell’acqua di una fontana monumentale; Bianca gioca a schizzarsi con un ragazzo senza riuscire a vedere il suo volto, che resta nascosto dietro il getto d’acqua. Dopo una nuova sequenza di immagini naturalistiche, il film si chiude con una dedica “à Gaspar".
Il secondo film di Lucile Hadžihalilović, Evolution, è stato girato nel 2015 a Lanzarote dopo molte difficoltà a trovare i finanziamenti necessari per realizzarlo. Pur mantenendosi in una particolare sospensione fra i generi, assume tinte più orrorifiche rispetto ad Innocence, di cui è in un certo senso prolungamento e contraltare. Concettualmente stratificato e polisemico come e più di Innocence, ha una trama ancora più allegorica e palpitante. “Un luogo indefinito. In un tempo altrettanto indefinito. Un piccolo villaggio in un’isola affacciata sull’oceano, abitata solo da bambini e dalle rispettive madri. Senza alcuna traccia di uomini. Una terra misteriosa che abbraccia in ogni istante le acque. Un ospedale in cui i bambini vengono periodicamente ricoverati affinché le infermiere possano compiere su di loro bizzarri e inquietanti esperimenti. Strani riti notturni che coinvolgono le madri presenti sull’isola. Istinti primordiali a braccetto con orribili trattamenti volti alla rigenerazione della razza e a una sorta di procreazione assistita. Silenzi e angosce, granchi e stelle marine. Uno dei bambini/cavia, Nicolas, unico a comprendere come ci sia qualcosa di profondamente sbagliato in tutto ciò che accade, e unico a provare in qualche modo a indagare per scoprire la verità”. Nicolas, con l’aiuto della benevola infermiera Stella, arriva a sfiorare la verità – forse lui e gli altri bambini sono stati rapiti, in ogni caso è assai probabile che le loro madri non siano le loro vere madri – e riesce a fuggire dall’isola in direzione della terraferma.
Innocence ed Evolution spiccano per alcune caratteristiche comuni: in primis, l’attenzione data alla natura, dal momento che anche tutte le vicende del primo film e tutte le bambine protagoniste di esso si relazionano con l’ambiente naturale circostante, lo scorrere delle stagioni scandisce il film che si apre e si chiude con una successione di immagini naturali; in secondo luogo, la scelta “delimitante” e confinata dei suoi protagonisti: in Innocence ci sono solo donne, vale a dire le bambine e poche donne adulte, insegnanti o inservienti della scuola, così come in Evolution vi saranno solo bambini maschi e le loro madri. Entrambi i film sono peraltro ambientati in una sorta di Arcadia naturale che si rivelerà, a causa anche di una sorta di “vampirismo” degli adulti verso i bambini che emerge più chiaramente in Evolution, un Eden fittizio, un utero maligno; la prospettiva adottata è ovviamente quella dei bambini, che non comprendono le ragioni degli adulti e che lentamente arrivano a conoscere quella che, almeno ai loro occhi, è la loro “malvagità” – le esibizioni di danza per le ragazze dell’ultimo anno in Innocence, gli inquietanti rituali e i rapimenti delle madri di Evolution.
Le due caratteristiche più forti di questo dittico - accomunato anche dal senso di progressività dei due titoli tratti da William Blake, dall’“innocenza” all’”evoluzione”, alla crescita –, quelle che rendono profondamente originale e seminale il cinema di Lucile Hadžihalilović, sono però l’elemento della metafora e l’elemento del mistero, due strumenti drammaturgici apparentemente semplicissimi ma raramente utilizzati al pieno delle loro potenzialità al cinema. Le metafore di cui si ammantano entrambi i film sono eminentemente visive e sensoriali; raramente possono essere esplicate e spiegate con efficacia a parole; si intuisce che entrambi i film rappresentano, per via metaforica, la crescita, lo struggente passaggio dall’infanzia alla adolescenza. Tale intuizione è destinata a rimanere inesprimibile nelle sue singole componenti – la danza, la stella marina, gli esperimenti in ospedale, l’uccisione delle bambine che provano a fuggire dal collegio, tutto ciò è apparentemente slegato agli occhi della logica e di un’esperienza “razionale” di visione; solo l’intuizione e l’emotività comprendono che ogni singolo elemento del film è, a un livello pre-conscio, organicamente e indelebilmente connesso con gli altri, e fornisce forza e pregnanza archetipica alle tematiche di fondo comuni al dittico.
Un simile processo metonimico si consumava anche nel cinema di Gaspar Noé, ma laddove i suoi film si riallacciano agli elementi più oscuri e infernali della nostra personalità – al nostro Es, si potrebbe dire – l’immaginario dei due film della Hadžihalilović comunica con la parte più infantile di esso, con un effetto emotivamente ancora più ipnotico. Nella loro inesplicabilità i simboli che caratterizzano Innocence ed Evolution assumono una particolare pregnanza del tutto cinematografica – sulla carta avrebbero senz’altro minore effetto – e, complice la ricorrente presenza dell’elemento naturale dell’acqua, rendono i due film di Lucile Hadžihalilović umidi, turgidi e a tratti spugnosi, “acque vive” in cui lo spettatore non può che annegare in pace, in un sereno naufragio.
Lo stesso vale per l’elemento del mistero, che collega per certi versi il cinema della Hadžihalilović con quello di Hirokazu Kore’eda. Un primo passo per la creazione del “mistero” in un film sta nell’omettere, o comunque nel non mostrare un elemento necessario per la comprensione piena della sua trama; generalmente – come da tradizione in tutti i thriller e i “film di mistero” – questo elemento, sia esso un segreto del protagonista o del mondo che lo circonda, viene svelato nel finale della pellicola, facendo dare allo spettatore una lettura retrospettiva degli eventi narrati molto diversa da quella creduta vera per tutta l’ora e mezza precedente. Ciò che invece Lucile Hadžihalilović e altri registi al pari di lei hanno capito e messo in pratica è che, soprattutto in film profondamente simbolici, il non spiegare mai, programmaticamente, tutto ciò che generalmente viene spiegato in un film crea un effetto particolarmente suggestivo. Le famose domande a cui ogni sceneggiatore, come ogni critico, deve rispondere – chi è il protagonista? perché agisce così? qual è il suo passato? quale logica muove il mondo che lo circonda? – sono qui completamente evase. Caduta ogni speranza di comprensione logica e intellettuale del film, lo spettatore non può fare altro che abbandonarsi al flusso emotivo ed emozionante delle immagini e a inferirne la “verità” solo attraverso lo sguardo. Ogni spiegazione taciuta può potenzialmente rendere un film molto più pregnante di qualunque prolissa spiegazione, per quanto originale e illuminante.
Sebbene troppo spesso ricordata unicamente per la collaborazione con il marito – collaborazione pure egregia, che ha portato, tra le altre cose alla sceneggiatura di un capolavoro come Enter the Void –, Lucile Hadžihalilović resta una delle voci più profonde e toccanti del cinema europeo. La sua formazione cosmopolita e il suo linguaggio simbolista la mettono al riparo da uno dei “vizi” più comuni di certo autorialismo, ossia l’eccessivo ancoraggio a questioni ombelicali o cliché nazionali. In attesa di Earwig, certo è che il dittico composto da Innocence ed Evolution compone al tempo stesso una cornucopia e un vaso di Pandora, capaci come pochi altri film di riportare gli spettatori alle sensazioni e a certi stati d’animo tipici dell’infanzia.