Il cinema dell'enfant terrible
tra omaggi e sperimentazione,
di Ludovico Cantisani
TR-57
15.04.2022
“La vie est un rêve?”, chiede lei. “Oui”, fa lui. “La vie est un rêve dans un rêve”
Sin dalle prime immagini che sono state diffuse, ormai quasi un anno fa, del suo film Vortex, era chiaro che qualcosa in Gaspar Noé era cambiato e che qualcos’altro era invece rimasto saldamente immutato, del suo iconico stile. Presentato a Cannes e poi anche all’International Ghent Film Festival, Vortex è, come ammesso dal suo stesso regista, frutto di un ripensamento per certi versi radicale della vita, sopraggiunto dopo che un ictus gli aveva fatto rischiare la morte. Ma il regista che nel lontano 2002 aveva inserito delle frequenze non udibili per l’orecchio umano nel suo divisivo shock movie Irréversible, nella speranza di angustiare inconsciamente ed extracognitivamente gli spettatori - e di far abbaiare eventuali cani presenti in sala - aveva già parlato di morte nel modo più esplicito con Enter the Void: un vero e proprio flusso di coscienza di un’anima appena disincarnata dal suo corpo, in cerca di una nuova reincarnazione in una Tokyo quantomai lisergica. Vortex, più che della morte, parla della memoria: della memoria che svanisce, sotto i colpi dell’Alzheimer, e degli ultimi grammi d’amore di una coppia di anziani coniugi.
È proprio nella scelta degli interpreti che Gaspar Noé sorprende ancora una volta, da un lato per la continuità con il pregresso della sua ricerca filmica, dall’altro per l’originalità del casting. I due coniugi protagonisti di Vortex sono infatti interpretati da Françoise Lebrun e Dario Argento: lei, grande attrice francese, nota soprattutto per il suo ruolo da protagonista ne La Maman et la Putain; lui, protagonista sì ma come regista della grande stagione del cinema dell’orrore italiano, recentemente tornato in sala con Occhiali neri, alla sua prima interpretazione da attore dopo qualche cameo. Con questo doppio casting, Gaspar Noé rinnova ancora una volta la sua promessa d’amore verso il “cinema dei padri” – ma andiamo con ordine.
Nato a Buenos Aires nel 1963 dal noto pittore e intellettuale argentino Luis Felipe e da Nora Murphy, una donna di origini italiane, all’età di sette anni Gaspar Noé venne iniziato al cinema da 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Pochi anni più tardi il giovane figlio d’arte si sarebbe dovuto rifugiare assieme alla famiglia a Parigi a seguito del colpo di stato della giunta militare di Videla. In Francia Noé si laureò all’École Nationale Supérieure Louis-Lumière studiando contemporaneamente filosofia all’università; nella seconda metà degli anni ottanta girò i suoi primi corti e iniziò un sodalizio artistico e sentimentale con la collega Lucile Hadžihalilović, assieme alla quale fondò nel 1991 la società di produzione Les Cinémas de la Zone, con lo scopo dichiarato di realizzare film che difficilmente avrebbero potuto ottenere finanziamenti attraverso i canali regolari.
Carne fu il primo titolo significativo della filmografia di Noé – dopo la partecipazione al Festival di Cannes, venne programmato addirittura nelle sale cinematografiche francesi, pur essendo solo un mediometraggio attorno ai quaranta minuti di durata. In Carne, facevamo per la prima volta la conoscenza di un personaggio sopra le righe, che sarebbe rimasto protagonista per tutta la prima parte della carriera di Noé: un macellaio senza nome, interpretato dal caratterista Philippe Nahon, incarnazione del disagio delle banlieu francesi; esplicitamente razzista e sempre vissuto con una filosofia di vita ben oltre i limiti consentiti del cinismo, l’unico affetto nella vita dell’uomo sembra essere la figlia Cynthia, con la quale il macellaio intrattiene un rapporto a metà strada tra il favolistico e l’incestuoso. Dopo aver contribuito con il cortometraggio pornografico Sodomites a una pittoresca campagna di sensibilizzazione per l’utilizzo dei preservativi organizzata dal Ministero della Salute francese, Noé sarebbe tornato a dirigere Nahon nel ruolo del macellaio in Seul contre tous, il suo primo lungometraggio, presentato a Cannes nel 1998. Se in Carne il macellaio finiva in prigione dopo aver quasi ucciso un marocchino da lui ingiustamente accusato di aver stuprato la figlia, Seul contre tous lo mostra nel tentativo furibondo di ritornare dalla figlia, adesso internata in una casa di cura.
Il primo grosso successo internazionale di Noé fu la sua opera seconda, il film-scandalo Irréversible i cui protagonisti erano Monica Bellucci e Vincent Cassel, allora coppia anche nella vita reale, affiancati da Albert Dupontel e da un breve ritorno di Nahon nei panni del macellaio nell’incipit del film. Irrèversible mostrava una storia classica di rape and revenge montata però in ordine cronologico inverso: vediamo quindi prima l’aggressione al presunto stupratore, poi lo stupro, poi il personaggio della Bellucci che se ne va via prima da una festa, poi lei e il compagno felici a casa ad amoreggiare. Questo discorso sul tempo filmico inaugurato da Irréversible sfocia nell’“escatologia” in soggettiva di Enter the Void, girato con tecniche innovative nei quartieri più malfamati di Tokyo: la macchina da presa di Noé, e del suo fido direttore della fotografia Benoît Debie, segue con fermezza tutto il percorso esistenziale anche post-mortem di Oscar, giovane spacciatore che, dopo essere stato ucciso in una retata della polizia, continua ad assistere come anima vagante alle vicende dei suoi cari prima di trovare infine un nuovo corpo in cui reincarnarsi.
Enter the Void è il film più ambizioso e forse più bello della carriera di Noè, e col tempo è diventato un cult movie a livello internazionale, ma il suo iniziale flop al botteghino costrinse il regista a ritagliarsi uno spazio più intimista per il film successivo – Love, nientemeno che un porno in 3D. Presentato con grande amore dello scandalo al Festival di Cannes del 2015, Love è l’implacabile, rimuginante e autoaccusatorio flusso di coscienza del suo protagonista maschile Murphy (Karl Glusman). Aspirante regista e padre di un figlio di un anno e mezzo, la mattina di capodanno riceve una telefonata dalla madre della sua ex-compagna Electra (Aomi Muyock), allarmata perché non riceve da tre mesi notizie da sua figlia, affetta da tendenze suicide. Murphy allora ripercorre – invano, dal momento che questo ricordare non ha sbocco, né nel finale si hanno altre notizie sul destino della ragazza – la sua storia d’amore con Electra, dai primi appuntamenti fino al momento della crisi.
Gli ultimi due film di Gaspar Noé prima di Vortex sono stati produttivamente accompagnati da un’incredibile celeritas produttiva – concepiti, finanziati, girati e montati nel giro di pochi mesi se non di poche settimane – e portano fino al parossismo un omaggio sempre presente nel cinema di Noé, il ricorso a una palette di colori primari che strizza ostinatamente l’occhio al primo Suspiria. Presentato a Cannes nel 2018, Climax prende spunto da una vicenda realmente accaduta nel mettere in scena la storia di un gruppo di ballerini che, radunatisi in uno chalet in mezzo alle montagne per provare la loro nuova esibizione, si ritrovano a fare un rave dionisiaco dopo che una mano ignota ha messo dell’LSD nella sangria. Lux Æterna del 2019 invece, co-finanziato dalla maison di moda Yves Saint Laurent, è un mediometraggio metadocumentario in cui recitano Charlotte Gainsbourg e Béatrice Dalle nella parte di versioni fittizie di sé stesse, colte da una macchina da presa sorniona durante le pause e i momenti di stress sul set di quella che a tutti gli effetti sembra essere una reinterpretazione post-moderna della Giovanna d’Arco di Dreyer.
La filmografia di Gaspar Noé si colloca in una precisa temperie del cinema francese contemporaneo: quella del cinéma du corps, in passato nota anche come New French Extremity, una corrente esplosa nel passaggio tra i millenni che metteva in scena immagini scioccanti atte a perseguire, almeno a detta dei registi, una riflessione esistenziale sulla sessualità umana. La Francia è da sempre stata un’apripista nel processo di laicizzazione e di liberalizzazione dei costumi, e non per nulla è stata la patria, nei decenni, di figure letterarie come De Sade, Rimbaud, Bataille, Michel Foucault, che, in forme variegate, hanno proposto costantemente una riflessione trasgressiva ma densissima concettualmente dei limiti della sessualità umana. Gran parte dei registi del cinéma du corps hanno terminato precocemente le loro carriere dopo uno o due film scandalistici senza arte né parte – un record negativo in questo senso può essere indicato in Baise-moi di Coralie Trinh Thi e Virginie Despentes, finito al Festival di Locarno nel 2000 in virtù di un sottotesto di critica sociale a detta di molti inconsistente – ma Gaspar Noé è uno dei pochi che ha continuato fermamente la sua carriera: e, al suo fianco, si possono menzionare anche altri nomi come quelli di François Ozon, Bertrand Bonello, Pascal Laugier e Catherine Breillat, e, se vogliamo, anche il franco-tunisino Abdellatif Kechiche.
Tematicamente, Gaspar Noé appartiene in tutto e per tutto al cinéma du corps, di cui anzi è uno degli esponenti più significativi e più riconosciuti in campo internazionale: ma, a livello linguistico, Noé fa gruppo a sé, perché il suo stile di regia, lontanissimo dall’usuale realismo alla francese è frutto di una sperimentazione continua di film in film. Sperimentazione che riguarda innanzitutto i “limiti dell’immagine” e la struttura narrativa, del cui stravolgimento è campione Irréversible - film per il quale Noé venne definito dal critico francese James Quandt “un Bergson de la boue”, e non era un complimento. Ma la sperimentazione tentata da Noé va spesso ben al di là della sceneggiatura, sempre più spesso ridotta a poche idee di fondo e a molta improvvisazione sul set, come confermato dallo stesso Dario Argento per quanto riguarda Vortex: Noè, con un fare virtuosistico e spesso ammiccante, è impegnato in una ricerca che costantemente vuole stupire gli occhi del pubblico anche per quanto riguarda il colore, lo stile delle inquadrature, il montaggio frenetico, l’idea balzana, ma stranamente efficace, di mettere i titoli di coda a metà del film, almeno nel caso di Climax.
Soffermiamoci su Irréversible, però. Per capire a fondo questo film, forse vale la pena riesumare la recensione che a suo tempo ne scrisse il compianto Roger Ebert. Premesso che “Irréversible è un film talmente violento e crudele che la maggior parte delle persone lo troverebbero inguardabile”, spendeva molte parole nell’analizzare la struttura inversa del film. Ebert era molto convinto dell’importanza che questa scelta riveste per il film e per la sua fruizione, al punto che, se il film fosse montato in ordine cronologico, avrebbe un messaggio opposto: “La cronologia al contrario rende Irréversible un film che critica su un livello strutturale lo stupro e la violenza, laddove una cronologia ordinaria avrebbe ci avrebbe condotti lungo un arco narrativo seducente verso un finale scioccante ed estremo… Il film non termina con uno stupro come suo climax e ci fa uscire dal teatro con la sensazione che ci sia stato comunicato qualcosa. Inizia con uno stupro, e ci chiede di restare seduti per un’altra ora ad analizzare i nostri pensieri. È pertanto un film morale – strutturalmente”. It is therefore moral - at a structural level: con queste parole il giovane Noé ricevette la benedizione da parte di uno dei mostri sacri della critica americana.
La Nouvelle Vague aveva esordito bucando lo schermo, e continuando nei propri film a rilanciare la critica sbeffeggiante nei confronti del “cinema di papà” che i vari Truffaut, Godard e Chabrol avevano inaugurato già ai tempi della loro gavetta come critici, sulle pagine dei Cahiers du Cinéma. Secondo i registi della Nouvelle Vague, il cinéma de papa era quel genere di cinema di buoni sentimenti e fin troppo “classico” che andava per la maggiore nel panorama francese degli anni cinquanta: a questo canone stantio loro opposero una forma di cinema spontaneo, creativo, contro gli schemi, spesso politicizzato, talvolta con omaggi a singoli maestri del cinema americano come Hitchcock o l’espatriato Fritz Lang. Molti registi francesi venuti dopo la Nouvelle Vague hanno teso a quell’ideale di libertà creativa e di ricchezza espressiva, o imitandone individualmente certi stilemi, come Philippe Garrel padre, o addirittura sognando un nuovo movimento di gruppo che rivitalizzasse il cinema francese, come accadde brevemente anche al sorgere del cinéma du corps, a dire il vero più a livello di critica che da parte dei registi. In questa costellazione, è interessante vedere la posizione di Noé, il quale, parallelamente a un’intesa attività di sperimentazione e innovazione creativa, ha costellato tutto il suo cinema di omaggi.
Lo dicevamo già all’inizio: dei due protagonisti del nuovo Vortex, Françoise Lebrun era stata la co-protagonista de La Maman et la Putain, film fluviale della durata di tre ore e mezza diretto da Jean Eustache, una delle ultime propaggini della Nouvelle Vague; in una scelta che per certi versi può ricordare alla lontana il ruolo offerto da Godard a Fritz Lang ne Il disprezzo, a recitare la parte del protagonista maschile di Vortex è invece Dario Argento, regista che non aveva mai dimostrato particolare smania a spostarsi davanti alla macchina da presa. Tra Jean Eustache e Dario Argento si apre un mondo, ed è proprio in questo mondo che Gaspar Noé si colloca: argentino espatriato, è vicino alla sensibilità francese quanto a tematiche, e quanto a gusto di épater le bourgeois; a livello visivo, e anche a livello strutturale in ciò che pertiene alla narrativa, Noé mette assieme una quantità abnorme di suggestioni disparate ma tutte decisamente poco francesi, tra le quali il cinema di Dario Argento è una delle influenze più conosciute. Nel bagaglio visivo di Noé, altrettanto importante è certa pittura novecentesca alla Bacon, forse anche sotto l’influsso del padre pittore, e altrettanto importante è una frequentazione non scontata del cinema sperimentale e underground degli anni sessanta-settanta.
Questo lo si vede bene soprattutto in Enter the Void un film erede del cinema sperimentale di Kenneth Anger, Jordan Belson e Peter Tscherkassky, le cui origini affondano innanzitutto nelle numerose esperienze lisergiche vissute da Noé attraverso l’uso di varie droghe e nella lettura del Libro tibetano dei morti. Ma Enter the Void porta con sé qualcosa anche dell’Odissea nello spazio di Kubrick e di certe inquadrature fluttuanti del cinema di De Palma – non per nulla, in una delle ultime scene di Irréversible si vede appesa a un muro della casa dei due protagonisti una locandina di 2001, mentre in Love, in uno dei primi appuntamenti con la futura compagna, l’aspirante regista Murphy resta sconvolto dallo scoprire che lei non ha mai visto il film di Kubrick. Love stesso, e stavolta anche a livello tematico, si iscrive pienamente in una certa riflessione francese sul valore del tempo e sulle aporie della memoria in cui Bergson e Blanchot non sono che le punte dell’iceberg, nella Francia sospesa tra fenomenologia ed esistenzialismo. Un ricordare marcatamente erotizzante – un Proust del porno – corona questo film di un’inesplicabile tonalità emotiva che, nel contravvenire a uno dei maggiori dogmi del realismo alla André Bazin, l’irrappresentabilità del coito (e della morte), al tempo stesso mette in pratica uno dei grandi sogni del grande critico maestro della Nouvelle Vague, quello di un cinema che, attraverso l’uso abbondante di piani sequenza, ricalchi il più possibile il ritmo e l’essenza della vita vera.
Con i suoi tratti da mockumentary, è significativo come Lux Æterna indugi ad omaggiare un certo numero di registi del passato: Carl Theodor Dreyer in primis, oltre che il solito Dario Argento e il brevemente evocato Jean-Luc Godard, con svariate citazioni soprattutto del suo Dies Irae che nei primissimi minuti del film viene direttamente mostrato e che invece nella sequenza finale viene modernizzato, trasposto in una chiave pop e con un’illuminazione a LED quasi epilettica. Ma tanto in Lux Æterna quanto nell’arrangiata sala-prove di Climax quanto procedendo a ritroso nei cafè parigini di Love e nella Tokyo al neon di Enter the Void, fino a risalire al trittico iniziale Carne, Seul contre tous e Irréversible, è il Suspiria di Dario Argento il film che forse più di tutti ha plasmato lo sguardo di Noé, la scena originaria da cui ha attinto i suoi colori.
Se la Nouvelle Vague esecrava il “cinema di papà”, l’espressionismo assoluto di Gaspar Noé si ritrova appassionatamente a venerare il cinema dei padri. In questo senso, particolarmente significativa risulta l’inquadratura iniziale di Climax, dove si vedono scorrere su un vecchio televisore i selftape di presentazione dei ballerini che di lì a poco vedremo scatenarsi in preda alla sangria “corretta”; e, a fianco del televisore, si ergono due pile di datate VHS, che rappresentano un po’ una summa di tutte le ispirazioni cinematografiche alla base della visione di Noé. Alcune sono prevedibili, altre più sorprendenti. Tra le prevedibili, oltre all’immancabile Suspiria argentiano, figurano anche Salò o le 120 giornate di Sodoma, il capolavoro postumo di Pasolini, Eraserhead, il film d’esordio di David Lynch, Querelle e Il diritto del più forte di Rainer Werner Fassbinder, il già citato La Maman et la Putain di Eustache, Possession di Andrzej Żuławski e il leggendario Un cane andaluso di Luis Buñuel; si intravede poi anche uno “Zombie”, verosimilmente Dawn of the Dead di George A. Romero. Più sorprendenti sono lavori sperimentali come Inauguration of the Pleasure Dome di Kenneth Anger e Vibroboy di Jan Kounen, o un classico del cinema giapponese come Harakiri di Masaki Kobayashi. A coronamento di questo omaggio, Angst, delirante film horror austriaco datato 1983 e diretto da Gerald Kargl, costantemente omaggiato da Noé nei tre primi film sul macellaio senza nome.
I “padri” di Noé non sono però soltanto altri registi. Se nell’incipit di Climax sulla destra dell’inquadratura compare una pila di VHS, sulla sinistra c’è un’abbondanza di libri. Alcuni di questi sono libri di cinema, monografie su Fritz Lang o su Taxi Driver di Scorsese; ma compaiono anche titoli come il De Profundis di Wilde, uno studio su Nietzsche firmato da Stefen Zweig e, soprattutto, L’inconveniente di essere nati di Emil Cioran, leggendario aforista rumeno espatriato in Francia. Il pensiero cinico e cupo che trasuda dai film di Noé parte da qui, in quella tradizione di nichilismo franco-tedesco che nasce con Schopenhauer, esplode con Nietzsche, sgorga su Céline e approda in Cioran. Noé è la traduzione filmica, e a tratti irriverente, di questa genealogia concettuale.
“La tradizione non si può ereditare”, disse una volta il poeta premio Nobel T.S. Eliot, “e chi la vuole deve conquistarla con grande fatica”. Nella sua dialettica tra originalità e omaggio, Gaspar Noé è esemplare, e rappresenta una delle più ipnotiche avanguardie creative del cinema contemporaneo. E se Climax iniziava con una dedica “a quelli che ci hanno fatto”, poi elencati tra le VHS e i vecchi libri posti strizzando l’occhio allo spettatore già nella prima inquadratura del film, Vortex fa un passo avanti, riporta sullo schermo le incarnazioni ancora viventi e le manifestazioni ultime di un certo cinema ormai sfumato. Argento e la Lebrun, simboleggianti rispettivamente la componente visionaria e la componente esistenzialista alla base del cinema di Noé, sono non a caso ritratti come due vecchi moribondi: lui, critico cinematografico impegnato a concludere un libro sul nesso tra cinema e sogni; lei, psicologa che sta combattendo contro l’Alzheimer, con una mente che si ribella contro sé stessa. È in questo scacco e tra queste antitesi – tradizione e innovazione, esistenzialismo e visionarietà, memoria e morte – che si dibatte da sempre il cinema di Noè, e questo nuovo Vortex non è che un nuovo, preziosissimo tassello di una ricerca non ancora esausta.
Il cinema dell'enfant terrible
tra omaggi e sperimentazione,
di Ludovico Cantisani
TR-57
15.04.2022
“La vie est un rêve?”, chiede lei. “Oui”, fa lui. “La vie est un rêve dans un rêve”
Sin dalle prime immagini che sono state diffuse, ormai quasi un anno fa, del suo film Vortex, era chiaro che qualcosa in Gaspar Noé era cambiato e che qualcos’altro era invece rimasto saldamente immutato, del suo iconico stile. Presentato a Cannes e poi anche all’International Ghent Film Festival, Vortex è, come ammesso dal suo stesso regista, frutto di un ripensamento per certi versi radicale della vita, sopraggiunto dopo che un ictus gli aveva fatto rischiare la morte. Ma il regista che nel lontano 2002 aveva inserito delle frequenze non udibili per l’orecchio umano nel suo divisivo shock movie Irréversible, nella speranza di angustiare inconsciamente ed extracognitivamente gli spettatori - e di far abbaiare eventuali cani presenti in sala - aveva già parlato di morte nel modo più esplicito con Enter the Void: un vero e proprio flusso di coscienza di un’anima appena disincarnata dal suo corpo, in cerca di una nuova reincarnazione in una Tokyo quantomai lisergica. Vortex, più che della morte, parla della memoria: della memoria che svanisce, sotto i colpi dell’Alzheimer, e degli ultimi grammi d’amore di una coppia di anziani coniugi.
È proprio nella scelta degli interpreti che Gaspar Noé sorprende ancora una volta, da un lato per la continuità con il pregresso della sua ricerca filmica, dall’altro per l’originalità del casting. I due coniugi protagonisti di Vortex sono infatti interpretati da Françoise Lebrun e Dario Argento: lei, grande attrice francese, nota soprattutto per il suo ruolo da protagonista ne La Maman et la Putain; lui, protagonista sì ma come regista della grande stagione del cinema dell’orrore italiano, recentemente tornato in sala con Occhiali neri, alla sua prima interpretazione da attore dopo qualche cameo. Con questo doppio casting, Gaspar Noé rinnova ancora una volta la sua promessa d’amore verso il “cinema dei padri” – ma andiamo con ordine.
Nato a Buenos Aires nel 1963 dal noto pittore e intellettuale argentino Luis Felipe e da Nora Murphy, una donna di origini italiane, all’età di sette anni Gaspar Noé venne iniziato al cinema da 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick. Pochi anni più tardi il giovane figlio d’arte si sarebbe dovuto rifugiare assieme alla famiglia a Parigi a seguito del colpo di stato della giunta militare di Videla. In Francia Noé si laureò all’École Nationale Supérieure Louis-Lumière studiando contemporaneamente filosofia all’università; nella seconda metà degli anni ottanta girò i suoi primi corti e iniziò un sodalizio artistico e sentimentale con la collega Lucile Hadžihalilović, assieme alla quale fondò nel 1991 la società di produzione Les Cinémas de la Zone, con lo scopo dichiarato di realizzare film che difficilmente avrebbero potuto ottenere finanziamenti attraverso i canali regolari.
Carne fu il primo titolo significativo della filmografia di Noé – dopo la partecipazione al Festival di Cannes, venne programmato addirittura nelle sale cinematografiche francesi, pur essendo solo un mediometraggio attorno ai quaranta minuti di durata. In Carne, facevamo per la prima volta la conoscenza di un personaggio sopra le righe, che sarebbe rimasto protagonista per tutta la prima parte della carriera di Noé: un macellaio senza nome, interpretato dal caratterista Philippe Nahon, incarnazione del disagio delle banlieu francesi; esplicitamente razzista e sempre vissuto con una filosofia di vita ben oltre i limiti consentiti del cinismo, l’unico affetto nella vita dell’uomo sembra essere la figlia Cynthia, con la quale il macellaio intrattiene un rapporto a metà strada tra il favolistico e l’incestuoso. Dopo aver contribuito con il cortometraggio pornografico Sodomites a una pittoresca campagna di sensibilizzazione per l’utilizzo dei preservativi organizzata dal Ministero della Salute francese, Noé sarebbe tornato a dirigere Nahon nel ruolo del macellaio in Seul contre tous, il suo primo lungometraggio, presentato a Cannes nel 1998. Se in Carne il macellaio finiva in prigione dopo aver quasi ucciso un marocchino da lui ingiustamente accusato di aver stuprato la figlia, Seul contre tous lo mostra nel tentativo furibondo di ritornare dalla figlia, adesso internata in una casa di cura.
Il primo grosso successo internazionale di Noé fu la sua opera seconda, il film-scandalo Irréversible i cui protagonisti erano Monica Bellucci e Vincent Cassel, allora coppia anche nella vita reale, affiancati da Albert Dupontel e da un breve ritorno di Nahon nei panni del macellaio nell’incipit del film. Irrèversible mostrava una storia classica di rape and revenge montata però in ordine cronologico inverso: vediamo quindi prima l’aggressione al presunto stupratore, poi lo stupro, poi il personaggio della Bellucci che se ne va via prima da una festa, poi lei e il compagno felici a casa ad amoreggiare. Questo discorso sul tempo filmico inaugurato da Irréversible sfocia nell’“escatologia” in soggettiva di Enter the Void, girato con tecniche innovative nei quartieri più malfamati di Tokyo: la macchina da presa di Noé, e del suo fido direttore della fotografia Benoît Debie, segue con fermezza tutto il percorso esistenziale anche post-mortem di Oscar, giovane spacciatore che, dopo essere stato ucciso in una retata della polizia, continua ad assistere come anima vagante alle vicende dei suoi cari prima di trovare infine un nuovo corpo in cui reincarnarsi.
Enter the Void è il film più ambizioso e forse più bello della carriera di Noè, e col tempo è diventato un cult movie a livello internazionale, ma il suo iniziale flop al botteghino costrinse il regista a ritagliarsi uno spazio più intimista per il film successivo – Love, nientemeno che un porno in 3D. Presentato con grande amore dello scandalo al Festival di Cannes del 2015, Love è l’implacabile, rimuginante e autoaccusatorio flusso di coscienza del suo protagonista maschile Murphy (Karl Glusman). Aspirante regista e padre di un figlio di un anno e mezzo, la mattina di capodanno riceve una telefonata dalla madre della sua ex-compagna Electra (Aomi Muyock), allarmata perché non riceve da tre mesi notizie da sua figlia, affetta da tendenze suicide. Murphy allora ripercorre – invano, dal momento che questo ricordare non ha sbocco, né nel finale si hanno altre notizie sul destino della ragazza – la sua storia d’amore con Electra, dai primi appuntamenti fino al momento della crisi.
Gli ultimi due film di Gaspar Noé prima di Vortex sono stati produttivamente accompagnati da un’incredibile celeritas produttiva – concepiti, finanziati, girati e montati nel giro di pochi mesi se non di poche settimane – e portano fino al parossismo un omaggio sempre presente nel cinema di Noé, il ricorso a una palette di colori primari che strizza ostinatamente l’occhio al primo Suspiria. Presentato a Cannes nel 2018, Climax prende spunto da una vicenda realmente accaduta nel mettere in scena la storia di un gruppo di ballerini che, radunatisi in uno chalet in mezzo alle montagne per provare la loro nuova esibizione, si ritrovano a fare un rave dionisiaco dopo che una mano ignota ha messo dell’LSD nella sangria. Lux Æterna del 2019 invece, co-finanziato dalla maison di moda Yves Saint Laurent, è un mediometraggio metadocumentario in cui recitano Charlotte Gainsbourg e Béatrice Dalle nella parte di versioni fittizie di sé stesse, colte da una macchina da presa sorniona durante le pause e i momenti di stress sul set di quella che a tutti gli effetti sembra essere una reinterpretazione post-moderna della Giovanna d’Arco di Dreyer.
La filmografia di Gaspar Noé si colloca in una precisa temperie del cinema francese contemporaneo: quella del cinéma du corps, in passato nota anche come New French Extremity, una corrente esplosa nel passaggio tra i millenni che metteva in scena immagini scioccanti atte a perseguire, almeno a detta dei registi, una riflessione esistenziale sulla sessualità umana. La Francia è da sempre stata un’apripista nel processo di laicizzazione e di liberalizzazione dei costumi, e non per nulla è stata la patria, nei decenni, di figure letterarie come De Sade, Rimbaud, Bataille, Michel Foucault, che, in forme variegate, hanno proposto costantemente una riflessione trasgressiva ma densissima concettualmente dei limiti della sessualità umana. Gran parte dei registi del cinéma du corps hanno terminato precocemente le loro carriere dopo uno o due film scandalistici senza arte né parte – un record negativo in questo senso può essere indicato in Baise-moi di Coralie Trinh Thi e Virginie Despentes, finito al Festival di Locarno nel 2000 in virtù di un sottotesto di critica sociale a detta di molti inconsistente – ma Gaspar Noé è uno dei pochi che ha continuato fermamente la sua carriera: e, al suo fianco, si possono menzionare anche altri nomi come quelli di François Ozon, Bertrand Bonello, Pascal Laugier e Catherine Breillat, e, se vogliamo, anche il franco-tunisino Abdellatif Kechiche.
Tematicamente, Gaspar Noé appartiene in tutto e per tutto al cinéma du corps, di cui anzi è uno degli esponenti più significativi e più riconosciuti in campo internazionale: ma, a livello linguistico, Noé fa gruppo a sé, perché il suo stile di regia, lontanissimo dall’usuale realismo alla francese è frutto di una sperimentazione continua di film in film. Sperimentazione che riguarda innanzitutto i “limiti dell’immagine” e la struttura narrativa, del cui stravolgimento è campione Irréversible - film per il quale Noé venne definito dal critico francese James Quandt “un Bergson de la boue”, e non era un complimento. Ma la sperimentazione tentata da Noé va spesso ben al di là della sceneggiatura, sempre più spesso ridotta a poche idee di fondo e a molta improvvisazione sul set, come confermato dallo stesso Dario Argento per quanto riguarda Vortex: Noè, con un fare virtuosistico e spesso ammiccante, è impegnato in una ricerca che costantemente vuole stupire gli occhi del pubblico anche per quanto riguarda il colore, lo stile delle inquadrature, il montaggio frenetico, l’idea balzana, ma stranamente efficace, di mettere i titoli di coda a metà del film, almeno nel caso di Climax.
Soffermiamoci su Irréversible, però. Per capire a fondo questo film, forse vale la pena riesumare la recensione che a suo tempo ne scrisse il compianto Roger Ebert. Premesso che “Irréversible è un film talmente violento e crudele che la maggior parte delle persone lo troverebbero inguardabile”, spendeva molte parole nell’analizzare la struttura inversa del film. Ebert era molto convinto dell’importanza che questa scelta riveste per il film e per la sua fruizione, al punto che, se il film fosse montato in ordine cronologico, avrebbe un messaggio opposto: “La cronologia al contrario rende Irréversible un film che critica su un livello strutturale lo stupro e la violenza, laddove una cronologia ordinaria avrebbe ci avrebbe condotti lungo un arco narrativo seducente verso un finale scioccante ed estremo… Il film non termina con uno stupro come suo climax e ci fa uscire dal teatro con la sensazione che ci sia stato comunicato qualcosa. Inizia con uno stupro, e ci chiede di restare seduti per un’altra ora ad analizzare i nostri pensieri. È pertanto un film morale – strutturalmente”. It is therefore moral - at a structural level: con queste parole il giovane Noé ricevette la benedizione da parte di uno dei mostri sacri della critica americana.
La Nouvelle Vague aveva esordito bucando lo schermo, e continuando nei propri film a rilanciare la critica sbeffeggiante nei confronti del “cinema di papà” che i vari Truffaut, Godard e Chabrol avevano inaugurato già ai tempi della loro gavetta come critici, sulle pagine dei Cahiers du Cinéma. Secondo i registi della Nouvelle Vague, il cinéma de papa era quel genere di cinema di buoni sentimenti e fin troppo “classico” che andava per la maggiore nel panorama francese degli anni cinquanta: a questo canone stantio loro opposero una forma di cinema spontaneo, creativo, contro gli schemi, spesso politicizzato, talvolta con omaggi a singoli maestri del cinema americano come Hitchcock o l’espatriato Fritz Lang. Molti registi francesi venuti dopo la Nouvelle Vague hanno teso a quell’ideale di libertà creativa e di ricchezza espressiva, o imitandone individualmente certi stilemi, come Philippe Garrel padre, o addirittura sognando un nuovo movimento di gruppo che rivitalizzasse il cinema francese, come accadde brevemente anche al sorgere del cinéma du corps, a dire il vero più a livello di critica che da parte dei registi. In questa costellazione, è interessante vedere la posizione di Noé, il quale, parallelamente a un’intesa attività di sperimentazione e innovazione creativa, ha costellato tutto il suo cinema di omaggi.
Lo dicevamo già all’inizio: dei due protagonisti del nuovo Vortex, Françoise Lebrun era stata la co-protagonista de La Maman et la Putain, film fluviale della durata di tre ore e mezza diretto da Jean Eustache, una delle ultime propaggini della Nouvelle Vague; in una scelta che per certi versi può ricordare alla lontana il ruolo offerto da Godard a Fritz Lang ne Il disprezzo, a recitare la parte del protagonista maschile di Vortex è invece Dario Argento, regista che non aveva mai dimostrato particolare smania a spostarsi davanti alla macchina da presa. Tra Jean Eustache e Dario Argento si apre un mondo, ed è proprio in questo mondo che Gaspar Noé si colloca: argentino espatriato, è vicino alla sensibilità francese quanto a tematiche, e quanto a gusto di épater le bourgeois; a livello visivo, e anche a livello strutturale in ciò che pertiene alla narrativa, Noé mette assieme una quantità abnorme di suggestioni disparate ma tutte decisamente poco francesi, tra le quali il cinema di Dario Argento è una delle influenze più conosciute. Nel bagaglio visivo di Noé, altrettanto importante è certa pittura novecentesca alla Bacon, forse anche sotto l’influsso del padre pittore, e altrettanto importante è una frequentazione non scontata del cinema sperimentale e underground degli anni sessanta-settanta.
Questo lo si vede bene soprattutto in Enter the Void un film erede del cinema sperimentale di Kenneth Anger, Jordan Belson e Peter Tscherkassky, le cui origini affondano innanzitutto nelle numerose esperienze lisergiche vissute da Noé attraverso l’uso di varie droghe e nella lettura del Libro tibetano dei morti. Ma Enter the Void porta con sé qualcosa anche dell’Odissea nello spazio di Kubrick e di certe inquadrature fluttuanti del cinema di De Palma – non per nulla, in una delle ultime scene di Irréversible si vede appesa a un muro della casa dei due protagonisti una locandina di 2001, mentre in Love, in uno dei primi appuntamenti con la futura compagna, l’aspirante regista Murphy resta sconvolto dallo scoprire che lei non ha mai visto il film di Kubrick. Love stesso, e stavolta anche a livello tematico, si iscrive pienamente in una certa riflessione francese sul valore del tempo e sulle aporie della memoria in cui Bergson e Blanchot non sono che le punte dell’iceberg, nella Francia sospesa tra fenomenologia ed esistenzialismo. Un ricordare marcatamente erotizzante – un Proust del porno – corona questo film di un’inesplicabile tonalità emotiva che, nel contravvenire a uno dei maggiori dogmi del realismo alla André Bazin, l’irrappresentabilità del coito (e della morte), al tempo stesso mette in pratica uno dei grandi sogni del grande critico maestro della Nouvelle Vague, quello di un cinema che, attraverso l’uso abbondante di piani sequenza, ricalchi il più possibile il ritmo e l’essenza della vita vera.
Con i suoi tratti da mockumentary, è significativo come Lux Æterna indugi ad omaggiare un certo numero di registi del passato: Carl Theodor Dreyer in primis, oltre che il solito Dario Argento e il brevemente evocato Jean-Luc Godard, con svariate citazioni soprattutto del suo Dies Irae che nei primissimi minuti del film viene direttamente mostrato e che invece nella sequenza finale viene modernizzato, trasposto in una chiave pop e con un’illuminazione a LED quasi epilettica. Ma tanto in Lux Æterna quanto nell’arrangiata sala-prove di Climax quanto procedendo a ritroso nei cafè parigini di Love e nella Tokyo al neon di Enter the Void, fino a risalire al trittico iniziale Carne, Seul contre tous e Irréversible, è il Suspiria di Dario Argento il film che forse più di tutti ha plasmato lo sguardo di Noé, la scena originaria da cui ha attinto i suoi colori.
Se la Nouvelle Vague esecrava il “cinema di papà”, l’espressionismo assoluto di Gaspar Noé si ritrova appassionatamente a venerare il cinema dei padri. In questo senso, particolarmente significativa risulta l’inquadratura iniziale di Climax, dove si vedono scorrere su un vecchio televisore i selftape di presentazione dei ballerini che di lì a poco vedremo scatenarsi in preda alla sangria “corretta”; e, a fianco del televisore, si ergono due pile di datate VHS, che rappresentano un po’ una summa di tutte le ispirazioni cinematografiche alla base della visione di Noé. Alcune sono prevedibili, altre più sorprendenti. Tra le prevedibili, oltre all’immancabile Suspiria argentiano, figurano anche Salò o le 120 giornate di Sodoma, il capolavoro postumo di Pasolini, Eraserhead, il film d’esordio di David Lynch, Querelle e Il diritto del più forte di Rainer Werner Fassbinder, il già citato La Maman et la Putain di Eustache, Possession di Andrzej Żuławski e il leggendario Un cane andaluso di Luis Buñuel; si intravede poi anche uno “Zombie”, verosimilmente Dawn of the Dead di George A. Romero. Più sorprendenti sono lavori sperimentali come Inauguration of the Pleasure Dome di Kenneth Anger e Vibroboy di Jan Kounen, o un classico del cinema giapponese come Harakiri di Masaki Kobayashi. A coronamento di questo omaggio, Angst, delirante film horror austriaco datato 1983 e diretto da Gerald Kargl, costantemente omaggiato da Noé nei tre primi film sul macellaio senza nome.
I “padri” di Noé non sono però soltanto altri registi. Se nell’incipit di Climax sulla destra dell’inquadratura compare una pila di VHS, sulla sinistra c’è un’abbondanza di libri. Alcuni di questi sono libri di cinema, monografie su Fritz Lang o su Taxi Driver di Scorsese; ma compaiono anche titoli come il De Profundis di Wilde, uno studio su Nietzsche firmato da Stefen Zweig e, soprattutto, L’inconveniente di essere nati di Emil Cioran, leggendario aforista rumeno espatriato in Francia. Il pensiero cinico e cupo che trasuda dai film di Noé parte da qui, in quella tradizione di nichilismo franco-tedesco che nasce con Schopenhauer, esplode con Nietzsche, sgorga su Céline e approda in Cioran. Noé è la traduzione filmica, e a tratti irriverente, di questa genealogia concettuale.
“La tradizione non si può ereditare”, disse una volta il poeta premio Nobel T.S. Eliot, “e chi la vuole deve conquistarla con grande fatica”. Nella sua dialettica tra originalità e omaggio, Gaspar Noé è esemplare, e rappresenta una delle più ipnotiche avanguardie creative del cinema contemporaneo. E se Climax iniziava con una dedica “a quelli che ci hanno fatto”, poi elencati tra le VHS e i vecchi libri posti strizzando l’occhio allo spettatore già nella prima inquadratura del film, Vortex fa un passo avanti, riporta sullo schermo le incarnazioni ancora viventi e le manifestazioni ultime di un certo cinema ormai sfumato. Argento e la Lebrun, simboleggianti rispettivamente la componente visionaria e la componente esistenzialista alla base del cinema di Noé, sono non a caso ritratti come due vecchi moribondi: lui, critico cinematografico impegnato a concludere un libro sul nesso tra cinema e sogni; lei, psicologa che sta combattendo contro l’Alzheimer, con una mente che si ribella contro sé stessa. È in questo scacco e tra queste antitesi – tradizione e innovazione, esistenzialismo e visionarietà, memoria e morte – che si dibatte da sempre il cinema di Noè, e questo nuovo Vortex non è che un nuovo, preziosissimo tassello di una ricerca non ancora esausta.