
NC-343
07.10.2025
Il finale de L’isola di Andrea (2025), nuova incursione nel cinema di Antonio Capuano, è un vero e proprio atto dichiarato, un manifesto poetico e politico dell’autore napoletano. Nella ripresa in primo piano di Andrea Migliucci, intento a cantare L’isola che non c’è di Edoardo Bennato, è racchiuso un gesto di fortissima portata simbolica, vale a dire la restituzione della parola all’infanzia, dopo una filmografia in cui l’infanzia è stata costantemente minacciata, negata, violata, dopo trent’anni nei quali la voce dei più piccoli è rimasta soffocata a causa della violenza della realtà sociale che circondava la Napoli narrata dal regista. L’isola di Andrea è dunque una metafora di rinascita, la possibilità di una libertà finalmente riconquistata, la stessa che Capuano ha inseguito per tempo immemore attraverso la sua forma cinematografica sempre vitale, ma ostinatamente castigata dall’universo partenopeo.
Nei suoi primi film, ovvero Vito e gli altri (1991) e Pianese Nunzio (1996), il regista ha il coraggio di rappresentare un territorio vivo e pulsante oltre ogni immaginazione, un organismo sociale minaccioso e insieme magnetico, un tessuto urbano in cui i suoi giovani protagonisti sono intrappolati e spesso sopraffatti. Da lì comincia il racconto della "new wave partenopea" che annovera tra i suoi nomi tutelari autori come Pappi Corsicato, e in cui Napoli assume i connotati di una città-corpo completamente “auto-insufficiente”: un organismo sociale vitale ma malato che divora i suoi stessi figli. In questo scenario post-apocalittico, il corpo infantile diventa luogo di sfruttamento e colpa - come si può notare già nel folgorante e crudissimo incipit di Vito e gli altri o nella scena di violenza cardine di Pianese Nunzio – ed età liminale tra la purezza (smarrita) e la brutalità della realtà circostante, dove nemmeno le istituzioni, né quella familiare né quella religiosa, sono capaci di ricucire la lacerazione interiore che cresce nei bambini alle prese con una realtà “scadente”, per citare un dialogo dello stesso personaggio di Capuano, interpretato da Ciro Capano, nel film di Paolo Sorrentino È Stata La Mano Di Dio (2021).

Antonio Capuano sul set

L’infanzia, nel cinema di Capuano, è espressione di un’assenza, spazio in cui la parola del mondo si interrompe e si palesa tutta la tensione e l’incapacità dell'universo adulto di lasciar comunicare chi, in teoria, non avrebbe voce. Una mancanza che si acuisce ulteriormente nel momento in cui il cineasta, con Luna Rossa (2001) prima e La guerra di Mario (2005) poi, sposta il fuoco dall’ambiente sociale alla dimensione familiare. I suoi personaggi non lottano più contro la città, ma contro le forme della protezione, dell’amore, dell’autorità, e l’infanzia diventa l’ideale campo di battaglia di questo conflitto totalmente borghese che prende piede negli interni domestici. Sono spazi pensati per l’affetto privato che si trasformano, invece, in teatri asfissianti dove gli adulti cercano di imporsi l’uno sull’altro nel nome di un affetto deformato, portando poi i bambini ad un desiderio d’evasione non più violento come nei film degli anni ’90, ma fondato sull’immaginazione come unico mezzo per accedere a una libertà possibile.
In qualche modo, già ne La guerra di Mario, attraverso una manipolazione degli spazi a dir poco soffocante e a scene che palesano il disagio dei più piccoli -quale quella del protagonista, chiuso in camera, che in un gesto di disperata autonomia disegna sul muro una figura di un bambino che scappa verso il mare - si ha un rendiconto dello straziante tentativo di fuga dalla realtà, laddove proprio la costruzione di un altrove rappresenta l’unico atto di libertà rimasto per ricominciare a vivere, e per farlo al di fuori di un ambiente segnato in modo univoco dalla sua tossicità. Quest’immagine rappresenta un primo abbozzo di quella geografia della sopravvivenza che Capuano svilupperà pienamente vent’anni dopo ne L’Isola Di Andrea, ovvero l’evoluzione finale dalla ferita degli inizi alla sopravvivenza effettiva degli affetti, la risposta a quella sospensione che il finale de La Guerra Di Mario racconta.

Il nucleo familiare "distrutto" al centro de L'isola di Andrea (2025)
Nel nuovo film di Capuano, il regista introduce con intelligenza uno strumento tipicamente teatrale - lo sfondamento della quarta parete - come dispositivo per mettere in discussione la verità del racconto, la quale si riscopre non univoca e filtrata dal punto di vista singolo nel caso degli adulti, e invece pura e candida nel caso dei bambini. Nel vivere un progressivo distacco dalla madre e dalla realtà circostante, il protagonista Andrea si chiude nel silenzio e si identifica ribelle e ostinato come lo stesso regista, ma finalmente capace di trovare un rifugio dalla realtà degradante dei film precedenti, un “fuori” - l’isola immaginaria - che coincide con l’atto cinematografico stesso. Così, per la prima volta, Capuano mostra un bambino che crea, un corpo infantile in grado di resistere attraverso la parola, la musica - lo splendido e commovente finale sulle note di Edoardo Bennato - e la creazione artistica – come nel caso della rappresentazione della felicità che lo stesso Andrea disegna nel corso della seduta dall’avvocato.
C’è dunque la fine del passaggio dalla violenza alla voce, il ritorno alla vita e alla ribellione, ma soprattutto la restituzione di un’innocenza che, fin dal principio e dagli esordi, è sempre stata negata. Dal corpo violato di Pianese Nunzio al corpo che canta de L’Isola Di Andrea, il percorso del regista attraversa trent’anni di storia italiana come un viaggio dalla ferita alla voce. È un cinema che non consola, ma piuttosto si fa monito di resistenza, che preferisce non giudicare, ma accompagnare e far risplendere chi non ne ha la possibilità. In un’epoca di immagini sovraccariche e dialoghi vuoti, Antonio Capuano riafferma il valore originario del cinema, ovvero credere, in modo del tutto ingenuo e forse proprio per questo così prezioso e veritiero, che proprio attraverso i bambini passi la verità del mondo.

NC-343
07.10.2025

Antonio Capuano sul set
Il finale de L’isola di Andrea (2025), nuova incursione nel cinema di Antonio Capuano, è un vero e proprio atto dichiarato, un manifesto poetico e politico dell’autore napoletano. Nella ripresa in primo piano di Andrea Migliucci, intento a cantare L’isola che non c’è di Edoardo Bennato, è racchiuso un gesto di fortissima portata simbolica, vale a dire la restituzione della parola all’infanzia, dopo una filmografia in cui l’infanzia è stata costantemente minacciata, negata, violata, dopo trent’anni nei quali la voce dei più piccoli è rimasta soffocata a causa della violenza della realtà sociale che circondava la Napoli narrata dal regista. L’isola di Andrea è dunque una metafora di rinascita, la possibilità di una libertà finalmente riconquistata, la stessa che Capuano ha inseguito per tempo immemore attraverso la sua forma cinematografica sempre vitale, ma ostinatamente castigata dall’universo partenopeo.
Nei suoi primi film, ovvero Vito e gli altri (1991) e Pianese Nunzio (1996), il regista ha il coraggio di rappresentare un territorio vivo e pulsante oltre ogni immaginazione, un organismo sociale minaccioso e insieme magnetico, un tessuto urbano in cui i suoi giovani protagonisti sono intrappolati e spesso sopraffatti. Da lì comincia il racconto della "new wave partenopea" che annovera tra i suoi nomi tutelari autori come Pappi Corsicato, e in cui Napoli assume i connotati di una città-corpo completamente “auto-insufficiente”: un organismo sociale vitale ma malato che divora i suoi stessi figli. In questo scenario post-apocalittico, il corpo infantile diventa luogo di sfruttamento e colpa - come si può notare già nel folgorante e crudissimo incipit di Vito e gli altri o nella scena di violenza cardine di Pianese Nunzio – ed età liminale tra la purezza (smarrita) e la brutalità della realtà circostante, dove nemmeno le istituzioni, né quella familiare né quella religiosa, sono capaci di ricucire la lacerazione interiore che cresce nei bambini alle prese con una realtà “scadente”, per citare un dialogo dello stesso personaggio di Capuano, interpretato da Ciro Capano, nel film di Paolo Sorrentino È Stata La Mano Di Dio (2021).

L’infanzia, nel cinema di Capuano, è espressione di un’assenza, spazio in cui la parola del mondo si interrompe e si palesa tutta la tensione e l’incapacità dell'universo adulto di lasciar comunicare chi, in teoria, non avrebbe voce. Una mancanza che si acuisce ulteriormente nel momento in cui il cineasta, con Luna Rossa (2001) prima e La guerra di Mario (2005) poi, sposta il fuoco dall’ambiente sociale alla dimensione familiare. I suoi personaggi non lottano più contro la città, ma contro le forme della protezione, dell’amore, dell’autorità, e l’infanzia diventa l’ideale campo di battaglia di questo conflitto totalmente borghese che prende piede negli interni domestici. Sono spazi pensati per l’affetto privato che si trasformano, invece, in teatri asfissianti dove gli adulti cercano di imporsi l’uno sull’altro nel nome di un affetto deformato, portando poi i bambini ad un desiderio d’evasione non più violento come nei film degli anni ’90, ma fondato sull’immaginazione come unico mezzo per accedere a una libertà possibile.
In qualche modo, già ne La guerra di Mario, attraverso una manipolazione degli spazi a dir poco soffocante e a scene che palesano il disagio dei più piccoli -quale quella del protagonista, chiuso in camera, che in un gesto di disperata autonomia disegna sul muro una figura di un bambino che scappa verso il mare - si ha un rendiconto dello straziante tentativo di fuga dalla realtà, laddove proprio la costruzione di un altrove rappresenta l’unico atto di libertà rimasto per ricominciare a vivere, e per farlo al di fuori di un ambiente segnato in modo univoco dalla sua tossicità. Quest’immagine rappresenta un primo abbozzo di quella geografia della sopravvivenza che Capuano svilupperà pienamente vent’anni dopo ne L’Isola Di Andrea, ovvero l’evoluzione finale dalla ferita degli inizi alla sopravvivenza effettiva degli affetti, la risposta a quella sospensione che il finale de La Guerra Di Mario racconta.

Il nucleo familiare "distrutto" al centro de L'isola di Andrea (2025)
Nel nuovo film di Capuano, il regista introduce con intelligenza uno strumento tipicamente teatrale - lo sfondamento della quarta parete - come dispositivo per mettere in discussione la verità del racconto, la quale si riscopre non univoca e filtrata dal punto di vista singolo nel caso degli adulti, e invece pura e candida nel caso dei bambini. Nel vivere un progressivo distacco dalla madre e dalla realtà circostante, il protagonista Andrea si chiude nel silenzio e si identifica ribelle e ostinato come lo stesso regista, ma finalmente capace di trovare un rifugio dalla realtà degradante dei film precedenti, un “fuori” - l’isola immaginaria - che coincide con l’atto cinematografico stesso. Così, per la prima volta, Capuano mostra un bambino che crea, un corpo infantile in grado di resistere attraverso la parola, la musica - lo splendido e commovente finale sulle note di Edoardo Bennato - e la creazione artistica – come nel caso della rappresentazione della felicità che lo stesso Andrea disegna nel corso della seduta dall’avvocato.
C’è dunque la fine del passaggio dalla violenza alla voce, il ritorno alla vita e alla ribellione, ma soprattutto la restituzione di un’innocenza che, fin dal principio e dagli esordi, è sempre stata negata. Dal corpo violato di Pianese Nunzio al corpo che canta de L’Isola Di Andrea, il percorso del regista attraversa trent’anni di storia italiana come un viaggio dalla ferita alla voce. È un cinema che non consola, ma piuttosto si fa monito di resistenza, che preferisce non giudicare, ma accompagnare e far risplendere chi non ne ha la possibilità. In un’epoca di immagini sovraccariche e dialoghi vuoti, Antonio Capuano riafferma il valore originario del cinema, ovvero credere, in modo del tutto ingenuo e forse proprio per questo così prezioso e veritiero, che proprio attraverso i bambini passi la verità del mondo.
