di Omar Franini
NC-307
29.05.2025
Lo scorso sabato si è conclusa la 78ª edizione del Festival di Cannes, e dopo avervi raccontato dei film che abbiamo visionato sulla Croisette è giunto il momento di trarre le conclusioni su quella che è stata un’ottima edizione, in netto miglioramento rispetto alla precedente. A cosa è dovuto questo upgrade? Thierry Fremaux quest’anno pare che abbia deciso di prendere diversi rischi con la selezione; ha snobbato dalla Competizione autori che sembravano certi, come Spike Lee, Rebecca Zlotowski, Nadav Lapid e Christian Petzold, e inoltre ha rifiutato grandi nomi come Jim Jarmusch, Arnaud Desplechin, Laszlo Nemes e Ildiko Enyedi - che probabilmente approderanno al Festival di Venezia. Forse Fremaux era rimasto piuttosto deluso dalla reazione tiepida ricevuta lo scorso anno per i film di registi iconici come Francis Ford Coppola, Andrea Arnold, Jia Zhangke e David Cronenberg e ha preferito puntare su cineasti meno conosciuti sulla Croisette. Non a caso, dando un’occhiata al palmares della 77ª edizione si noterà come alcuni dei grandi trionfatori- come Coralie Fargeat per The Substance, Payal Kapadia per All We Imagine As Light e Miguel Gomes per Grand Tour - erano autori alla loro prima apparizione in Competizione.
Prima di analizzare i film che hanno conquistato la Croisette e che possono replicare il successo delle opere citate, è giusto andare con ordine, partendo da It’s Just an Accident di Jafar Panahi, che si è aggiudicato la Palma d’Oro. Con questa vittoria, il regista iraniano diventa solo il quarto ad aver completato la tripletta dei premi più importanti ai Festival di Berlino, Cannes e Venezia. Panahi ha infatti già conquistato l’Orso d’Oro per Taxi (2015) e il Leone d’Oro con The Circle (2000). A precederlo erano stati Henri-Georges Clouzot (Leone d’Oro, nel 1949, per Manon, Orso e Palma d’Oro, nel 1953, per Le Salaire de la peur), Michelangelo Antonioni (Orso d’Oro, nel 1961, per La notte, Leone d’Oro, nel 1964, per Deserto Rosso e Palma d’Oro, nel 1967, con Blow-Up) ed infine Robert Altman (Palma d’oro, nel 1970, con M*A*S*H, Orso d’Oro, nel 1976, con Buffalo Bills and the Indians, or Sitting Bull’s History Lesson e Leone d’Oro, nel 1993, con Short Cuts).
La sua vittoria ha convinto unanimemente la giuria presieduta da Juliette Binoche e non è risultata tanto sorprendente, immaginiamo che sia stata anche una scelta politica vista la posizione ed il travagliato passato di Panahi con il regime iraniano. Bisogna ricordare che la presentazione a Venezia, nel 2022, di No Bears, non aveva visto la presenza del cineasta poiché era stato arrestato con l’accusa di propaganda verso il governo, per poi essere scarcerato nel febbraio del 2023. Una volta sul palco, visibilmente emozionato per la vittoria, Panahi ha tenuto un discorso rimarcando la necessità di un Iran libero, senza restrizioni, che permetta alle donne di vivere come vogliono e che non ponga limiti nel produrre arte. Ha concluso affermando di come il cinema gli abbia dato la forza e la speranza nei tempi più bui. La vittoria di Panahi ha tutto sommato soddisfatto e crediamo che la rilevanza sociale dell'opera abbia dato quella marcia in più per far trionfare il film.
Il "doppio" poster di Cannes 2025
Jafar Panahi stringe la Palma d'Oro 2025
A vincere il Gran Premio della Giuria è stato invece Sentimentale Value di Joachim Trier. Il film narra delle sorelle Nora (Renate Reinsve) e Agnes (Inga Ibsdotter Lilleaas) e del loro complicato rapportocon il padre assente Gustav (Stellan Skarsgard), che riappare nelle loro vite in seguito alla morte della madre. Sentimental Value è stato uno dei film più acclamati del festival e ci si aspettava la sua presenza nel Palmares, bisognava solo capire per quale premio; c’è chi pronosticava un premio per l'intricata sceneggiatura di Trier e Eskil Vogt, altri pensavano addirittura alla vittoria della Palma d’Oro, mentre una possibile vittoria di Stellan Skarsgard stava diventando sempre più una possibilità concreta l’ultimo giorno del festival.
La vittoria di Trier mostra ancora una volta il grande periodo di rinascita del cinema norvegese, in concomitanza dei recenti successi di Armand (2024) e della trilogia Sex, Dreams, Love (2024-2025) di Johan Dag Haugerud. Ma se, cinematograficamente parlando, c’è una Nazione che sta vivendo un periodo ancor più di successo della Norvegia, quello è il Brasile. Solo qualche mese fa I’m Stil Here (2024) ha vinto l’Oscar per Miglior Film internazionale, un evento che ha scaturito una rivoluzione culturale nel Paese fino ad arrivare ad un grande investimento da parte del governo verso il mondo del cinema. Alla Berlinale, invece, è stato il turno di Gabriel Mascaro, che grazie a O ultimo azul (2025) si è aggiudicato il Gran Premio della Giuria. Mentre per quanto riguarda Cannes, all’inizio del festival c’erano alte aspettative per O Agente Secreto di Kleber Mendonça Filho, film noir ambientato nel 1977 che narra di Marcelo (Wagner Moura), un professore universitario che torna a Recife, sua città natale, per riconnettersi con il figlio e ricominciare una nuova vita.
La presenza del regista sul red carpet prima della cerimonia faceva presagire bene, ed infatti O Agente Secreto si è aggiudicatoil Prix d'Interprétation masculine per l’interpretazione di Wagner Moura. La vittoria dell’attore era facile da pronosticare, la qualità della sua performance aveva nettamente eclissato gli altri possibili candidati al premio, ma restava comunque il fatto che si sperava in un riconoscimento più importante per il film. È stato così che, proprio quando nessuno se l'aspettava, neppure lo stesso Kleber Mendonça Filho che era dietro alle quinte a sorseggiare champagne per la vittoria di Moura, O Agente Secreto è riuscito anche a vincere il secondo premio della serata, quello per la Miglior Regia. Sul palcoscenico il cineasta ha tenuto un breve discorso affermando il suo affetto per il festival di Cannes e ringraziando varie persone, dalla popolazione di Recife per il supporto, alla moglie e produttrice Emilie Lascaux. Con queste due importanti vittorie è naturale pensare che il nuovo film di Mendonça Filho sia stato, di fatto, il contendente principale per la Palma insieme a Panahi, e non Trier, nonostante questi abbia vinto il Gran Premio della Giuria, il “secondo posto” ufficiale della Competizione.
Kleber Mendonça Filho e i premi vinti per O Agente Secreto
Se la vittoria di Moura era apparsa piuttosto prevedibile lo stesso non si è potuto dire per Nadia Melliti, che con La Petite Dernière ha trionfato in una categoria piuttosto competitiva. La protagonista del terzo lungometraggio di Hafsia Herzi, un coming of age che narra di una diciannovenne di origini egiziane che sta scoprendo la sua propria sessualità e come questa sia in conflitto con la sua religione, aveva colpito ed emozionato per il modo in cui era riuscita a mostrare il conflitto interiore del suo personaggio. L’attrice debuttante ha trionfato sopra nomi più conosciuti come Jennifer Lawrence, per Die, My Love di Lynne Ramsay (uno dei grandi snobbati dal palmares), Renate Reinsve, per il già citato Sentimental Value, Lea Drucker, per Dossier 137 di Dominik Moll, ed infine Parinaz Izadyar, per l’intensa interpretazione in Woman and Child di Saeed Roustaee. Anche se l'interpretazione di Melliti non ha raggiunto gli apici di quelle appena citate, la sua vittoria non ci è dispiaciuta ed ha rappresentato un netto miglioramento rispetto al quartetto di Emilia Pérez dello scorso anno.
Il Premio della Giuria è stato invece un ex aequo tra Sirat di Olive Laxe e Sound of Falling di Mascha Schilinski, una scelta che non ci ha convinto del tutto. I film sono stati tra i più chiacchierati durante tutto il festival, soprattutto per l'audacia mostrata dai due cineasti nello sperimentare con il linguaggio cinematografico. Il premio condiviso è sembrato riduttivo, come se la giuria non volesse premiare film dal carattere più radicale, speriamo che questo non danneggi la loro visibilità nei mesi a venire. Vincere un premio al Festival di Cannes è sempre importante, ma sia Sirat che Sound of Falling meritavano un riconoscimento singolo più prestigioso. Questo non vuole essere un commento a sfavore dei film di Panahi, Trier e Mendonça Filho, i cui premi sono stati meritevoli come vi abbiamo riportato prima, ma rimane comunque una sensazione di perplessità, confermata anche dall’assegnazione di un Premio Speciale a Resurrection. Il terzo lungometraggio di Bi Gan, un'opera complessa e stratificata si è dovuta accontentare di un riconoscimento inventato ad hoc per riconoscere “l’innovazione” dell'opera del regista cinese. Una scelta che ci è sembrata forzata e che ha ricordato quella dell’anno precedente per The Seed of the Sacred Fig (2024) di Mohammad Rasoulof.
Concludiamo la rassegna dei premi della Competizione con Jean-Pierre e Luc Dardennes, che hanno vinto l’ennesimo premio al Festival per la miglior sceneggiatura, il secondo in questa categoria dopo Le Silence du Lorna (2008). Quest’anno hanno trionfato con Jeunes mères, racconto corale con al centro cinque giovani madri da background differenti che stanno affrontando le medesime difficoltà. Una vittoria che ci ha lasciato abbastanza indifferenti, avremmo preferito veder salire sul palco Kelly Reichardt per The Mastermind, altro grande snobbato dalla competizione insieme a Die, My Love di Lynne Ramsay.
Oliver Laxe con il Premio della Giuria assegnato a Sirat
Passiamo ora alla sezione Un Certain Regard, la giuria presieduta da Molly Manning Walker ha assegnato il premio per il miglior film a La misteriosa mirada del flamenco, l’originale opera prima di Diego Céspedes con al centro le vicende di una comunità rurale in un deserto del Cile durante l’epidemia di AIDS negli anni ‘80. La visione del film era risultata piuttosto accattivante nonostante alcuni limiti della seconda parte, e non ci è dispiaciuta la vittoria finale sebbene avremmo preferito veder trionfare Urchin di Harris Dickinson e O Riso e a Faca di Pedro Pinho, le opere migliori da Un Certain Regard. I due film appena citati non sono però tornati a casa a mani vuote; Frank Dillane e Cleo Diára si sono aggiudicati rispettivamente i premi di Miglior Attore e Attrice, vittorie più che meritate, anche se rimane la sensazione che i due film dovevano, e potevano, vincere premi più importanti, quali quelli di Miglior Film e Miglior Regia. Quest’ultimo riconoscimento è stato assegnato ai fratelli Nasser per Once Upon a Time in Gaza, il loro terzo lungometraggio che non ha pienamente soddisfatto le aspettative iniziali sull’opera.
Carente è stato anche il premio alla sceneggiatura per Pillion, soprattutto perché lo scritto di Harry Lighton non ha spiccato per la sua originalità, è la tipica rom-com con al centro una relazione tossica, solo che il film ha come dinamica centrale il BDSM e il rapporto dominante/sottomesso. Se si voleva dare un premio al lungometraggio, si sarebbe potuto optare per un doppio riconoscimento a Harry Melling e Alexander Skarsgård, le cui interpretazioni rendono Pillion un’esperienza accattivante. Mentre Un poeta di Simón Mesa Soto ha vinto il Premio della Giuria, altra vittoria che non ci ha conquistato. Il film risulta piuttosto semplice nel modo in cui affronta la figura centrale di un poeta fallito che sta cercando di capire come affrontare le sue insicurezze e l’ossessione verso un’arte che non sempre gli ha portato i risultati desiderati. Non un brutto film, ma come nel caso dei fratelli Nasser, ci si aspettava di più.
Due dei grandi snobbati dalla sezione, che sarebbero stati vincitori più degni, sono stati My Father’s Shadow di Akinola Davies Jr., opera prima del regista di origini nigeriane, un racconto toccante con forti tratti autobiografici che esplora il rapporto padre/figlio e che adopera come sfondo le elezioni presidenziali locali del 1993, ed infine The Plague di Charlie Polinger, coming of age su un gruppo di adolescenti che, in una scuola estiva di pallanuoto, esplorano la pubertà e le conseguenze che ha sul loro corpo.
Joachim Trier e il cast di Sentimental Value con il Gran Premio della Giuria
di Omar Franini
NC-307
29.05.2025
Il "doppio" poster di Cannes 2025
Lo scorso sabato si è conclusa la 78ª edizione del Festival di Cannes, e dopo avervi raccontato dei film che abbiamo visionato sulla Croisette è giunto il momento di trarre le conclusioni su quella che è stata un’ottima edizione, in netto miglioramento rispetto alla precedente. A cosa è dovuto questo upgrade? Thierry Fremaux quest’anno pare che abbia deciso di prendere diversi rischi con la selezione; ha snobbato dalla Competizione autori che sembravano certi, come Spike Lee, Rebecca Zlotowski, Nadav Lapid e Christian Petzold, e inoltre ha rifiutato grandi nomi come Jim Jarmusch, Arnaud Desplechin, Laszlo Nemes e Ildiko Enyedi - che probabilmente approderanno al Festival di Venezia. Forse Fremaux era rimasto piuttosto deluso dalla reazione tiepida ricevuta lo scorso anno per i film di registi iconici come Francis Ford Coppola, Andrea Arnold, Jia Zhangke e David Cronenberg e ha preferito puntare su cineasti meno conosciuti sulla Croisette. Non a caso, dando un’occhiata al palmares della 77ª edizione si noterà come alcuni dei grandi trionfatori- come Coralie Fargeat per The Substance, Payal Kapadia per All We Imagine As Light e Miguel Gomes per Grand Tour - erano autori alla loro prima apparizione in Competizione.
Prima di analizzare i film che hanno conquistato la Croisette e che possono replicare il successo delle opere citate, è giusto andare con ordine, partendo da It’s Just an Accident di Jafar Panahi, che si è aggiudicato la Palma d’Oro. Con questa vittoria, il regista iraniano diventa solo il quarto ad aver completato la tripletta dei premi più importanti ai Festival di Berlino, Cannes e Venezia. Panahi ha infatti già conquistato l’Orso d’Oro per Taxi (2015) e il Leone d’Oro con The Circle (2000). A precederlo erano stati Henri-Georges Clouzot (Leone d’Oro, nel 1949, per Manon, Orso e Palma d’Oro, nel 1953, per Le Salaire de la peur), Michelangelo Antonioni (Orso d’Oro, nel 1961, per La notte, Leone d’Oro, nel 1964, per Deserto Rosso e Palma d’Oro, nel 1967, con Blow-Up) ed infine Robert Altman (Palma d’oro, nel 1970, con M*A*S*H, Orso d’Oro, nel 1976, con Buffalo Bills and the Indians, or Sitting Bull’s History Lesson e Leone d’Oro, nel 1993, con Short Cuts).
La sua vittoria ha convinto unanimemente la giuria presieduta da Juliette Binoche e non è risultata tanto sorprendente, immaginiamo che sia stata anche una scelta politica vista la posizione ed il travagliato passato di Panahi con il regime iraniano. Bisogna ricordare che la presentazione a Venezia, nel 2022, di No Bears, non aveva visto la presenza del cineasta poiché era stato arrestato con l’accusa di propaganda verso il governo, per poi essere scarcerato nel febbraio del 2023. Una volta sul palco, visibilmente emozionato per la vittoria, Panahi ha tenuto un discorso rimarcando la necessità di un Iran libero, senza restrizioni, che permetta alle donne di vivere come vogliono e che non ponga limiti nel produrre arte. Ha concluso affermando di come il cinema gli abbia dato la forza e la speranza nei tempi più bui. La vittoria di Panahi ha tutto sommato soddisfatto e crediamo che la rilevanza sociale dell'opera abbia dato quella marcia in più per far trionfare il film.
Jafar Panahi stringe la Palma d'Oro 2025
A vincere il Gran Premio della Giuria è stato invece Sentimentale Value di Joachim Trier. Il film narra delle sorelle Nora (Renate Reinsve) e Agnes (Inga Ibsdotter Lilleaas) e del loro complicato rapportocon il padre assente Gustav (Stellan Skarsgard), che riappare nelle loro vite in seguito alla morte della madre. Sentimental Value è stato uno dei film più acclamati del festival e ci si aspettava la sua presenza nel Palmares, bisognava solo capire per quale premio; c’è chi pronosticava un premio per l'intricata sceneggiatura di Trier e Eskil Vogt, altri pensavano addirittura alla vittoria della Palma d’Oro, mentre una possibile vittoria di Stellan Skarsgard stava diventando sempre più una possibilità concreta l’ultimo giorno del festival.
La vittoria di Trier mostra ancora una volta il grande periodo di rinascita del cinema norvegese, in concomitanza dei recenti successi di Armand (2024) e della trilogia Sex, Dreams, Love (2024-2025) di Johan Dag Haugerud. Ma se, cinematograficamente parlando, c’è una Nazione che sta vivendo un periodo ancor più di successo della Norvegia, quello è il Brasile. Solo qualche mese fa I’m Stil Here (2024) ha vinto l’Oscar per Miglior Film internazionale, un evento che ha scaturito una rivoluzione culturale nel Paese fino ad arrivare ad un grande investimento da parte del governo verso il mondo del cinema. Alla Berlinale, invece, è stato il turno di Gabriel Mascaro, che grazie a O ultimo azul (2025) si è aggiudicato il Gran Premio della Giuria. Mentre per quanto riguarda Cannes, all’inizio del festival c’erano alte aspettative per O Agente Secreto di Kleber Mendonça Filho, film noir ambientato nel 1977 che narra di Marcelo (Wagner Moura), un professore universitario che torna a Recife, sua città natale, per riconnettersi con il figlio e ricominciare una nuova vita.
La presenza del regista sul red carpet prima della cerimonia faceva presagire bene, ed infatti O Agente Secreto si è aggiudicatoil Prix d'Interprétation masculine per l’interpretazione di Wagner Moura. La vittoria dell’attore era facile da pronosticare, la qualità della sua performance aveva nettamente eclissato gli altri possibili candidati al premio, ma restava comunque il fatto che si sperava in un riconoscimento più importante per il film. È stato così che, proprio quando nessuno se l'aspettava, neppure lo stesso Kleber Mendonça Filho che era dietro alle quinte a sorseggiare champagne per la vittoria di Moura, O Agente Secreto è riuscito anche a vincere il secondo premio della serata, quello per la Miglior Regia. Sul palcoscenico il cineasta ha tenuto un breve discorso affermando il suo affetto per il festival di Cannes e ringraziando varie persone, dalla popolazione di Recife per il supporto, alla moglie e produttrice Emilie Lascaux. Con queste due importanti vittorie è naturale pensare che il nuovo film di Mendonça Filho sia stato, di fatto, il contendente principale per la Palma insieme a Panahi, e non Trier, nonostante questi abbia vinto il Gran Premio della Giuria, il “secondo posto” ufficiale della Competizione.
Kleber Mendonça Filho e i premi vinti per O Agente Secreto
Se la vittoria di Moura era apparsa piuttosto prevedibile lo stesso non si è potuto dire per Nadia Melliti, che con La Petite Dernière ha trionfato in una categoria piuttosto competitiva. La protagonista del terzo lungometraggio di Hafsia Herzi, un coming of age che narra di una diciannovenne di origini egiziane che sta scoprendo la sua propria sessualità e come questa sia in conflitto con la sua religione, aveva colpito ed emozionato per il modo in cui era riuscita a mostrare il conflitto interiore del suo personaggio. L’attrice debuttante ha trionfato sopra nomi più conosciuti come Jennifer Lawrence, per Die, My Love di Lynne Ramsay (uno dei grandi snobbati dal palmares), Renate Reinsve, per il già citato Sentimental Value, Lea Drucker, per Dossier 137 di Dominik Moll, ed infine Parinaz Izadyar, per l’intensa interpretazione in Woman and Child di Saeed Roustaee. Anche se l'interpretazione di Melliti non ha raggiunto gli apici di quelle appena citate, la sua vittoria non ci è dispiaciuta ed ha rappresentato un netto miglioramento rispetto al quartetto di Emilia Pérez dello scorso anno.
Il Premio della Giuria è stato invece un ex aequo tra Sirat di Olive Laxe e Sound of Falling di Mascha Schilinski, una scelta che non ci ha convinto del tutto. I film sono stati tra i più chiacchierati durante tutto il festival, soprattutto per l'audacia mostrata dai due cineasti nello sperimentare con il linguaggio cinematografico. Il premio condiviso è sembrato riduttivo, come se la giuria non volesse premiare film dal carattere più radicale, speriamo che questo non danneggi la loro visibilità nei mesi a venire. Vincere un premio al Festival di Cannes è sempre importante, ma sia Sirat che Sound of Falling meritavano un riconoscimento singolo più prestigioso. Questo non vuole essere un commento a sfavore dei film di Panahi, Trier e Mendonça Filho, i cui premi sono stati meritevoli come vi abbiamo riportato prima, ma rimane comunque una sensazione di perplessità, confermata anche dall’assegnazione di un Premio Speciale a Resurrection. Il terzo lungometraggio di Bi Gan, un'opera complessa e stratificata si è dovuta accontentare di un riconoscimento inventato ad hoc per riconoscere “l’innovazione” dell'opera del regista cinese. Una scelta che ci è sembrata forzata e che ha ricordato quella dell’anno precedente per The Seed of the Sacred Fig (2024) di Mohammad Rasoulof.
Concludiamo la rassegna dei premi della Competizione con Jean-Pierre e Luc Dardennes, che hanno vinto l’ennesimo premio al Festival per la miglior sceneggiatura, il secondo in questa categoria dopo Le Silence du Lorna (2008). Quest’anno hanno trionfato con Jeunes mères, racconto corale con al centro cinque giovani madri da background differenti che stanno affrontando le medesime difficoltà. Una vittoria che ci ha lasciato abbastanza indifferenti, avremmo preferito veder salire sul palco Kelly Reichardt per The Mastermind, altro grande snobbato dalla competizione insieme a Die, My Love di Lynne Ramsay.
Oliver Laxe con il Premio della Giuria assegnato a Sirat
Passiamo ora alla sezione Un Certain Regard, la giuria presieduta da Molly Manning Walker ha assegnato il premio per il miglior film a La misteriosa mirada del flamenco, l’originale opera prima di Diego Céspedes con al centro le vicende di una comunità rurale in un deserto del Cile durante l’epidemia di AIDS negli anni ‘80. La visione del film era risultata piuttosto accattivante nonostante alcuni limiti della seconda parte, e non ci è dispiaciuta la vittoria finale sebbene avremmo preferito veder trionfare Urchin di Harris Dickinson e O Riso e a Faca di Pedro Pinho, le opere migliori da Un Certain Regard. I due film appena citati non sono però tornati a casa a mani vuote; Frank Dillane e Cleo Diára si sono aggiudicati rispettivamente i premi di Miglior Attore e Attrice, vittorie più che meritate, anche se rimane la sensazione che i due film dovevano, e potevano, vincere premi più importanti, quali quelli di Miglior Film e Miglior Regia. Quest’ultimo riconoscimento è stato assegnato ai fratelli Nasser per Once Upon a Time in Gaza, il loro terzo lungometraggio che non ha pienamente soddisfatto le aspettative iniziali sull’opera.
Carente è stato anche il premio alla sceneggiatura per Pillion, soprattutto perché lo scritto di Harry Lighton non ha spiccato per la sua originalità, è la tipica rom-com con al centro una relazione tossica, solo che il film ha come dinamica centrale il BDSM e il rapporto dominante/sottomesso. Se si voleva dare un premio al lungometraggio, si sarebbe potuto optare per un doppio riconoscimento a Harry Melling e Alexander Skarsgård, le cui interpretazioni rendono Pillion un’esperienza accattivante. Mentre Un poeta di Simón Mesa Soto ha vinto il Premio della Giuria, altra vittoria che non ci ha conquistato. Il film risulta piuttosto semplice nel modo in cui affronta la figura centrale di un poeta fallito che sta cercando di capire come affrontare le sue insicurezze e l’ossessione verso un’arte che non sempre gli ha portato i risultati desiderati. Non un brutto film, ma come nel caso dei fratelli Nasser, ci si aspettava di più.
Due dei grandi snobbati dalla sezione, che sarebbero stati vincitori più degni, sono stati My Father’s Shadow di Akinola Davies Jr., opera prima del regista di origini nigeriane, un racconto toccante con forti tratti autobiografici che esplora il rapporto padre/figlio e che adopera come sfondo le elezioni presidenziali locali del 1993, ed infine The Plague di Charlie Polinger, coming of age su un gruppo di adolescenti che, in una scuola estiva di pallanuoto, esplorano la pubertà e le conseguenze che ha sul loro corpo.
Joachim Trier e il cast di Sentimental Value con il Gran Premio della Giuria