di Tobia Cimini
NC-106
12.04.2022
Quella di deludere quante più persone possibili è la vera missione di ciascun premio, specie cinematografico. Che si presentino sotto forma di statuette dorate o di avveniristiche forme dai colori sgargianti, siamo sempre di fronte a disillusioni mascherate da attestazioni al merito. I David di Donatello non fanno eccezione, tutt’altro, sono grandi protagonisti di questa tradizione. Sia chiaro, nel dover incoronare il migliore insindacabile in ogni categoria è inevitabile che si creino divisioni. È nella natura stessa del processo, un gioco al massacro in cui per ogni vincitore esistono almeno quattro perdenti. Il compito che tocca ogni anno all’Accademia del cinema italiano è tra i più ingrati che si possano immaginare e il compatimento nei confronti dei suoi membri è mitigato solo dallo zelo con cui ogni anno li si vede svolgere il loro dovere. Al netto di tutto ciò e consapevoli che non si possa pretendere dai David il rispetto integrale delle opinioni di ciascuno, davanti alle cinquine di quest’anno un’assenza in particolare ci ha sconfortato senza rimedio.
Per Il buco di Michelangelo Frammartino, tra i film quantomeno più interessanti dell’anno (non solo italiani), non c’è stata infatti nessuna nomination. Con grande coraggio e lungimiranza, Alberto Barbera aveva scelto con la sua squadra selezionatrice di inserire il film di Frammartino nel concorso principale dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Al Lido aveva colpito un po’ tutti, ovviamente con le dovute divergenze d’opinione. Soprattutto era piaciuto alla giuria, capitanata da Bong Joon-ho, che ha assegnato al regista calabrese il Premio speciale. Chloé Zhao, regista Premio Oscar per Nomadland, in conferenza stampa lo aveva definito: «Un risultato cinematografico straordinario; una splendida meditazione sulla vita, sull’uomo nella natura, sulla mortalità».
Se riportiamo tutti questi attestati di stima è solo per provare a far capire che il nostro non vuol essere lo sfogo amareggiato di un ammiratore. Il buco non è un film semplice, tanto che non è semplice neppure scriverne. Fa parte dei suoi pregi, un’opera di cinema allo stato puro è difficile da traslitterare in un alfabeto diverso da quello delle immagini. È nell’ordine delle cose, forse è persino giusto, che per molti possa risultare ostico. Perché allora vederlo escluso dalla rosa dei David ci scoraggia così? Semplice, perché è la conferma di una cecità imbarazzante. Stando alle interviste e dichiarazioni di protagonisti e commentatori, il cinema italiano muore e risorge almeno cinque volte al giorno. Possibile, però, che quando gli nascono in seno gemme come quella di Frammartino il nostro cinema non riesca a rendersene conto e a premiarle? La domanda è importante non tanto per il premio in sé, che siamo certi lascerebbe in ogni caso il tempo che trova, ma per il futuro.
Riconoscere film coraggiosi come Il buco, legittimare un dibattito attorno a essi, spingere il pubblico, attraverso i premi, a vedere opere con questa profondità di pensiero e di struttura. Tutto questo dovrebbe essere un dovere dell’intero movimento cinematografico e culturale italiano. Sarebbe un segnale importante anche al mondo produttivo, sempre titubante nel finanziare titoli così ruvidi. Invece, ancora una volta, si passa oltre e si relega un film di questo tipo alla sempre più esigua cerchia di addetti ai lavori o di appassionati. È pur vero che Il buco va controcorrente. In tempi di velocità forsennata, Frammartino ha voluto aspettare undici anni per prepararlo, dopo il successo del suo lavoro precedente, Le quattro volte. Ed è altrettanto vero che il film esplora le dinamiche conflittuali tra mondi opposti e coesistenti, tra la storia economica e quella degli uomini, tra la vita e la morte, tra la verticalità e l’orizzontalità. Un compendio di argomenti che forse il grande pubblico non è più abituato a dover affrontare in un unico film. Se continueremo a non valorizzare film come questo, però, è certo che si arriverà a un punto per cui non avrà nemmeno più senso girarli.
Nel ritirare il suo premio a Venezia, Frammartino ha ringraziato gli speleologi «perché si prendono cura del buio». Il suo film, la sua maestria di regista, si prendono invece cura del buio della sala e della mente di chi guarda. È un vero peccato constatare che l’Accademia non sappia fare altrettanto.
di Tobia Cimini
NC-106
12.04.2022
Quella di deludere quante più persone possibili è la vera missione di ciascun premio, specie cinematografico. Che si presentino sotto forma di statuette dorate o di avveniristiche forme dai colori sgargianti, siamo sempre di fronte a disillusioni mascherate da attestazioni al merito. I David di Donatello non fanno eccezione, tutt’altro, sono grandi protagonisti di questa tradizione. Sia chiaro, nel dover incoronare il migliore insindacabile in ogni categoria è inevitabile che si creino divisioni. È nella natura stessa del processo, un gioco al massacro in cui per ogni vincitore esistono almeno quattro perdenti. Il compito che tocca ogni anno all’Accademia del cinema italiano è tra i più ingrati che si possano immaginare e il compatimento nei confronti dei suoi membri è mitigato solo dallo zelo con cui ogni anno li si vede svolgere il loro dovere. Al netto di tutto ciò e consapevoli che non si possa pretendere dai David il rispetto integrale delle opinioni di ciascuno, davanti alle cinquine di quest’anno un’assenza in particolare ci ha sconfortato senza rimedio.
Per Il buco di Michelangelo Frammartino, tra i film quantomeno più interessanti dell’anno (non solo italiani), non c’è stata infatti nessuna nomination. Con grande coraggio e lungimiranza, Alberto Barbera aveva scelto con la sua squadra selezionatrice di inserire il film di Frammartino nel concorso principale dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia. Al Lido aveva colpito un po’ tutti, ovviamente con le dovute divergenze d’opinione. Soprattutto era piaciuto alla giuria, capitanata da Bong Joon-ho, che ha assegnato al regista calabrese il Premio speciale. Chloé Zhao, regista Premio Oscar per Nomadland, in conferenza stampa lo aveva definito: «Un risultato cinematografico straordinario; una splendida meditazione sulla vita, sull’uomo nella natura, sulla mortalità».
Se riportiamo tutti questi attestati di stima è solo per provare a far capire che il nostro non vuol essere lo sfogo amareggiato di un ammiratore. Il buco non è un film semplice, tanto che non è semplice neppure scriverne. Fa parte dei suoi pregi, un’opera di cinema allo stato puro è difficile da traslitterare in un alfabeto diverso da quello delle immagini. È nell’ordine delle cose, forse è persino giusto, che per molti possa risultare ostico. Perché allora vederlo escluso dalla rosa dei David ci scoraggia così? Semplice, perché è la conferma di una cecità imbarazzante. Stando alle interviste e dichiarazioni di protagonisti e commentatori, il cinema italiano muore e risorge almeno cinque volte al giorno. Possibile, però, che quando gli nascono in seno gemme come quella di Frammartino il nostro cinema non riesca a rendersene conto e a premiarle? La domanda è importante non tanto per il premio in sé, che siamo certi lascerebbe in ogni caso il tempo che trova, ma per il futuro.
Riconoscere film coraggiosi come Il buco, legittimare un dibattito attorno a essi, spingere il pubblico, attraverso i premi, a vedere opere con questa profondità di pensiero e di struttura. Tutto questo dovrebbe essere un dovere dell’intero movimento cinematografico e culturale italiano. Sarebbe un segnale importante anche al mondo produttivo, sempre titubante nel finanziare titoli così ruvidi. Invece, ancora una volta, si passa oltre e si relega un film di questo tipo alla sempre più esigua cerchia di addetti ai lavori o di appassionati. È pur vero che Il buco va controcorrente. In tempi di velocità forsennata, Frammartino ha voluto aspettare undici anni per prepararlo, dopo il successo del suo lavoro precedente, Le quattro volte. Ed è altrettanto vero che il film esplora le dinamiche conflittuali tra mondi opposti e coesistenti, tra la storia economica e quella degli uomini, tra la vita e la morte, tra la verticalità e l’orizzontalità. Un compendio di argomenti che forse il grande pubblico non è più abituato a dover affrontare in un unico film. Se continueremo a non valorizzare film come questo, però, è certo che si arriverà a un punto per cui non avrà nemmeno più senso girarli.
Nel ritirare il suo premio a Venezia, Frammartino ha ringraziato gli speleologi «perché si prendono cura del buio». Il suo film, la sua maestria di regista, si prendono invece cura del buio della sala e della mente di chi guarda. È un vero peccato constatare che l’Accademia non sappia fare altrettanto.