NC-312
16.06.2025
Ogni giorno, mentre tornavo a casa nel mio paesino francese tra le Alpi, passavo davanti al cinema e ai suoi poster pubblicitari dove la programmazione cambiava di giorno in giorno, visto che, in questa cittadina di 7000 abitanti, il cinema Star aveva una sala sola e i proprietari facevano anche da bigliettai e da bar.
Ogni giorno mi trovavo dinnanzi questi cartelloni che inevitabilmente catturavano la mia attenzione. Ero incuriosita: dai titoli a volte vaghi e poetici, dalle immagini estremamente buffe o evocative, dai font eleganti o molto appariscenti, e dai disegni dei tanti film di animazione che non mancavano mai nella programmazione settimanale.
Mi incuriosiva soprattutto il fatto che la stragrande maggioranza dei titoli fosse di origine francese, mentre pochi erano quelli internazionali che facevano la loro comparsa in quelle sale d’oltralpe. Solo i più grandi successi internazionali sono riusciti ad approdare nei cinema della Savoia che ho potuto frequentare. Tra i titoli stranieri che ho visto scritti sui cartelloni, spesso presentati in V.O., figurano A complete Unknown (Un Parfait Inconnu), Flow, The Judge N2, The Brutalist, Mickey 17.
Va detto, la mia esperienza è relativa a una zona particolare della Francia: la Savoia non è certo Parigi, ma proprio per questo ho trovato interessante scoprire cosa si vedesse nei cinema più “autoctoni”.
A complete Unknown (2025) di James Mangold
Così non ho opposto resistenza alla mia curiosità e ho deciso di approfittare del mio soggiorno per scoprire cosa significasse andare al cinema in Francia nel 2025. Ho frequentato diversi cinema, in piccoli paesini di montagna ma anche nella città più grande della zona – Chambery, la capitale del dipartimento –, un po’ per motivi contingenti, un po’ per variare il più possibile.
Il primo impatto che ho avuto ha confermato l’impressione di una programmazione più concentrata sui film nazionali: anche la classica pubblicità che precede la proiezione infatti mostrava una prevalenza di titoli francesi.
Un altro aspetto che ho potuto notare è che i cinema fossero sempre frequentati: in mezzo alla settimana come nel weekend, il pomeriggio come la sera, c’era sempre un gruppetto di persone ferme sotto l’insegna a commentare lo spettacolo, conservando quello spirito da luogo di incontro che il cinema ha avuto fin dagli albori e che oggi rischia di perdersi.
È così che per esempio dopo la visione di A Complete Unknow è capitato di essere intercettati da un simpatico signore francese che gli anni di Bob Dylan li aveva vissuti in prima persona e che ha pensato bene di metterci in guardia contro il momento storico piuttosto complesso che adesso sta a noi affrontare.
Omar Sy e Vanessa Paradis, protagonisti di Dis-moi juste que tu m’aimes (2024) di Anne Le Ny
A onor del vero, e forse questa è una peculiarità della zona in cui mi trovavo, il momento in cui ho visto le sale veramente gremite è stato durante i festival di cinema di montagna – Science et Montagne e Montagne en Scene di Reel Rock –, comunque momenti estremamente interessanti.In effetti, a tal proposito forse è interessante raccontare come sia avvenuto, in realtà, il mio primo approccio con il cinema in Francia. Il contesto era ancora meno usuale di quello di un paesino tra le montagne.
Mi sono ritrovata, per circostanze molto casuali che non starò qua a raccontare, in un piccolo cinema comunale di un paesino di un migliaio di abitanti nella regione delle Alte Alpi, per un festival di cinema “pastorale”, CineBergère appunto, che ospitava documentari e corti di finzione girati nei più disparati luoghi del globo, che avessero però come comun denominatore il mondo dell’allevamento e della pastorizia. Ora, a prescindere dall’interesse per la specifica tematica, è stato interessante osservare – ed è per questo che lo racconto – la sentita partecipazione a questo festival da parte del pubblico che ha riempito la sala durante tutte le 4 ore di proiezione e che ha riempito gli ospiti di domande interessate e attente, nonché l’impegno dell’associazione che da ormai 10 anni organizza questa manifestazione.
Veniamo però a esperienze più “mainstream”. I film che usciti sui tabelloni di tutta la Francia infatti possono contare nel cast volti noti del cinema contemporaneo francese: in Dis-moi juste que tu m’aimes ritroviamo per esempio il coprotagonista di Quasi amici Omar Sy (quasi) in coppia con Vanessa Paradis, in L’attachement l’attore che dà il volto a Yannick nell’omonimo film e uno dei suoi coprotagonisti… e così via.
Valeria Bruni Tedeschi in L'Attachement (2024) di Carine Tardieu
Dalle varie esperienze in sala ho potuto trarre un filo conduttore, un’atmosfera che accomuna le pellicole dei vari registi e dei vari generi: il cinema francese non ha perso la sua vena esistenzialista.
Alla fine di ogni proiezione, per quanto il copione possa tendere al comico e alla leggerezza, si esce dalla sala questionando il valore della propria esistenza, colmi di propositi sul riappropriarsi della propria vita e renderla più poetica. È un cinema che ancora, o forse ancora di più, è in grado di toccare chiunque, perché racconta sì le storie più disparate, ma storie normali di persone normali che però hanno trovato una chiave di lettura per la propria esistenza e ci invitano implicitamente a continuare a cercare la nostra.
E il fatto che le opere siano in grado di suscitare queste riflessioni è già di per sé un aspetto apprezzabile. Non è stato raro infatti trovare la sala commossa una volta riaccesesi le luci. Anche dopo che per la maggior parte della proiezione il pubblico aveva riso per l’assurdo viaggio della famiglia di On Ira, una volta arrivati al più che annunciato epilogo è stato inevitabile che almeno una lacrima scendesse a bagnare il viso.
Il colpo arrivava inaspettato, magari mentre ero intenta a pensare che la scelta della location per la clinica svizzera per il suicidio assistito fosse una caduta di stile: una clinica così diversa dagli scenari bianchi e paradisiaci a cui ci hanno abituato film di cassetta come Me Before You (Io prima di te, 2016). Ma poi realizzo che forse è proprio perché questa clinica è più vera, più vicina alla vita di persone normali che non possiedono un castello, più plausibile in esistenze normali che è stato possibile sentire più vicina la storia raccontata ed empatizzare di più con i personaggi. E la commozione riesce a coglierci alla sprovvista proprio perché la storia è raccontata senza cadere nei cliché in cui tanto facilmente potrebbero inciampare trame così “normali” da un lato e al tempo stesso fuori dall’ordinario.
On Ira (2015) di Enya Baroux
Una libraia femminista cinquantenne che si ritrova immischiata nella famiglia sfasciata del proprio vicino di casa; una coppia messa in crisi dalla gelosia e dalle lusinghe che solo i narcisisti riescono a mettere in atto; una famiglia che parte per un viaggio in camper ignara della decisione della nonna di ricorrere al suicidio assistito; la biografia di un uomo di successo che però non riesce ad affrancarsi dall’ingombrante figura della madre. Queste le trame che hanno affollato i cinema francesi in questi mesi a cavallo tra il 2024 e il 2025, trame da cui si aprivano innumerevoli possibili direzioni da prendere, tra cui i registi e le registe sono riusciti a fare scelte originali e in grado di lasciare il segno, uscendo sempre e comunque dal solco tracciato del genere in cui venivano etichettate queste opere.
Dis-moi juste que tu m’aimes di Anne Le Ny e On ira di Enya Baroux per esempio si presentano rispettivamente come thriller e dramma, ma sono quelli in cui le risate si sono fatte sentire più forte. Ed è da questo a parer mio che si vede una scrittura di spessore, quando alla battuta della moglie che confessa il proprio tradimento ammettendo che “l’amore fa fare cose folli”, il marito risponde “Ma ti senti? Che hai 13 anni?”. O quando l’intera famiglia di On Ira arriva alla clinica in svizzera indossando ancora le scarpe da bowling che si sono cambiati nelle scene precedenti e che la coerenza cinematografica deve mantenere.
Diverso discorso per L’attachement di Carine Tardieu, e Ma Mére, Dieu et Sylvie Vartan di Ken Scott, opere che lasciano, piuttosto, spunti di riflessione e sentenze che colpiscono dritto al cuore.
La prima, tratta dal romanzo L’intimitié della nota scrittrice Alice Ferney, mostra la bellezza dei legami della famiglia che ci si costruisce durante la vita oltre alle parentele e ai rapporti più codificati. Lo fa attraverso la drammatica storia di un padre che perde la moglie durante il parto, storia che si intreccia con quella di una donna di circa cinquanta anni che credeva di aver trovato la propria serenità in una equilibrata solitudine, e si trova poi sconvolta dal vicinato che, come confessa lei stessa nel film, “è capace di farti sentire sola anche quando ami stare da sola a casa tua, con quella soundtrack delle loro esistenze che si svolgono senza di te”.
Ma Mére, Dieu et Sylvie Vartan (2025) di Ken Scott
Anche il secondo titolo è tratto da un romanzo, omonimo, che racconta la storia vera di un uomo in fondo normale, che ha la capacità però di trovare un filo rosso tra gli eventi della sua vita. Questo filo rosso è la madre, figura imponente che domina già il cartellone, che segna lo scandirsi del tempo della vita dell’autore e della storia intera (visto che le diverse epoche del filmsi deducono più dalle acconciature e dagli abiti di questa donna che dagli eventi storici).
Mi permetto di fare una previsione e aggiungere tra questi titoli Changer l’eau aux fleurs, tratto dall’omonimo romanzo di Valérie Perrin, che purtroppo non ho fatto in tempo a vedere in Francia dato che la sua uscita è prevista per il 2026.
Un’altra certezza, è che la Francia continuerà a rappresentare sé stessa nel modo più esteticamente piacevole possibile: tra le basse case in mattoni e le immense praterie della Bretagna, e il sole e i paesaggi ameni del Sud, gli scenari contribuiscono sicuramente a costruire il ritratto di una vita quotidiana che però, nella sua quotidianità, trova dello straordinario.
La fotografia si rivela diversa per ogni film, adattata, come dovrebbe essere, alle tinte della storia che deve essere raccontata: si passa dai colori brillanti che evocano il Marocco, paese d’origine ella famiglia di Ma mère, Dieu et Sylvan Vartan, alle tinte da pellicola Kodak che richiamano i souvenir delle vacanze per On Ira, fino alle tinte più cupe del thriller Dis-moi juste que tu m’aimes.
Per tirare le fila del discorso, posso affermare con certezza una cosa: non sono mai uscita delusa da un cinema in Francia.
NC-312
16.06.2025
Ogni giorno, mentre tornavo a casa nel mio paesino francese tra le Alpi, passavo davanti al cinema e ai suoi poster pubblicitari dove la programmazione cambiava di giorno in giorno, visto che, in questa cittadina di 7000 abitanti, il cinema Star aveva una sala sola e i proprietari facevano anche da bigliettai e da bar.
Ogni giorno mi trovavo dinnanzi questi cartelloni che inevitabilmente catturavano la mia attenzione. Ero incuriosita: dai titoli a volte vaghi e poetici, dalle immagini estremamente buffe o evocative, dai font eleganti o molto appariscenti, e dai disegni dei tanti film di animazione che non mancavano mai nella programmazione settimanale.
Mi incuriosiva soprattutto il fatto che la stragrande maggioranza dei titoli fosse di origine francese, mentre pochi erano quelli internazionali che facevano la loro comparsa in quelle sale d’oltralpe. Solo i più grandi successi internazionali sono riusciti ad approdare nei cinema della Savoia che ho potuto frequentare. Tra i titoli stranieri che ho visto scritti sui cartelloni, spesso presentati in V.O., figurano A complete Unknown (Un Parfait Inconnu), Flow, The Judge N2, The Brutalist, Mickey 17.
Va detto, la mia esperienza è relativa a una zona particolare della Francia: la Savoia non è certo Parigi, ma proprio per questo ho trovato interessante scoprire cosa si vedesse nei cinema più “autoctoni”.
A complete Unknown (2025) di James Mangold
Così non ho opposto resistenza alla mia curiosità e ho deciso di approfittare del mio soggiorno per scoprire cosa significasse andare al cinema in Francia nel 2025. Ho frequentato diversi cinema, in piccoli paesini di montagna ma anche nella città più grande della zona – Chambery, la capitale del dipartimento –, un po’ per motivi contingenti, un po’ per variare il più possibile.
Il primo impatto che ho avuto ha confermato l’impressione di una programmazione più concentrata sui film nazionali: anche la classica pubblicità che precede la proiezione infatti mostrava una prevalenza di titoli francesi.
Un altro aspetto che ho potuto notare è che i cinema fossero sempre frequentati: in mezzo alla settimana come nel weekend, il pomeriggio come la sera, c’era sempre un gruppetto di persone ferme sotto l’insegna a commentare lo spettacolo, conservando quello spirito da luogo di incontro che il cinema ha avuto fin dagli albori e che oggi rischia di perdersi.
È così che per esempio dopo la visione di A Complete Unknow è capitato di essere intercettati da un simpatico signore francese che gli anni di Bob Dylan li aveva vissuti in prima persona e che ha pensato bene di metterci in guardia contro il momento storico piuttosto complesso che adesso sta a noi affrontare.
Omar Sy e Vanessa Paradis, protagonisti di Dis-moi juste que tu m’aimes (2024) di Anne Le Ny
A onor del vero, e forse questa è una peculiarità della zona in cui mi trovavo, il momento in cui ho visto le sale veramente gremite è stato durante i festival di cinema di montagna – Science et Montagne e Montagne en Scene di Reel Rock –, comunque momenti estremamente interessanti.In effetti, a tal proposito forse è interessante raccontare come sia avvenuto, in realtà, il mio primo approccio con il cinema in Francia. Il contesto era ancora meno usuale di quello di un paesino tra le montagne.
Mi sono ritrovata, per circostanze molto casuali che non starò qua a raccontare, in un piccolo cinema comunale di un paesino di un migliaio di abitanti nella regione delle Alte Alpi, per un festival di cinema “pastorale”, CineBergère appunto, che ospitava documentari e corti di finzione girati nei più disparati luoghi del globo, che avessero però come comun denominatore il mondo dell’allevamento e della pastorizia. Ora, a prescindere dall’interesse per la specifica tematica, è stato interessante osservare – ed è per questo che lo racconto – la sentita partecipazione a questo festival da parte del pubblico che ha riempito la sala durante tutte le 4 ore di proiezione e che ha riempito gli ospiti di domande interessate e attente, nonché l’impegno dell’associazione che da ormai 10 anni organizza questa manifestazione.
Veniamo però a esperienze più “mainstream”. I film che usciti sui tabelloni di tutta la Francia infatti possono contare nel cast volti noti del cinema contemporaneo francese: in Dis-moi juste que tu m’aimes ritroviamo per esempio il coprotagonista di Quasi amici Omar Sy (quasi) in coppia con Vanessa Paradis, in L’attachement l’attore che dà il volto a Yannick nell’omonimo film e uno dei suoi coprotagonisti… e così via.
Valeria Bruni Tedeschi in L'Attachement (2024) di Carine Tardieu
Dalle varie esperienze in sala ho potuto trarre un filo conduttore, un’atmosfera che accomuna le pellicole dei vari registi e dei vari generi: il cinema francese non ha perso la sua vena esistenzialista.
Alla fine di ogni proiezione, per quanto il copione possa tendere al comico e alla leggerezza, si esce dalla sala questionando il valore della propria esistenza, colmi di propositi sul riappropriarsi della propria vita e renderla più poetica. È un cinema che ancora, o forse ancora di più, è in grado di toccare chiunque, perché racconta sì le storie più disparate, ma storie normali di persone normali che però hanno trovato una chiave di lettura per la propria esistenza e ci invitano implicitamente a continuare a cercare la nostra.
E il fatto che le opere siano in grado di suscitare queste riflessioni è già di per sé un aspetto apprezzabile. Non è stato raro infatti trovare la sala commossa una volta riaccesesi le luci. Anche dopo che per la maggior parte della proiezione il pubblico aveva riso per l’assurdo viaggio della famiglia di On Ira, una volta arrivati al più che annunciato epilogo è stato inevitabile che almeno una lacrima scendesse a bagnare il viso.
Il colpo arrivava inaspettato, magari mentre ero intenta a pensare che la scelta della location per la clinica svizzera per il suicidio assistito fosse una caduta di stile: una clinica così diversa dagli scenari bianchi e paradisiaci a cui ci hanno abituato film di cassetta come Me Before You (Io prima di te, 2016). Ma poi realizzo che forse è proprio perché questa clinica è più vera, più vicina alla vita di persone normali che non possiedono un castello, più plausibile in esistenze normali che è stato possibile sentire più vicina la storia raccontata ed empatizzare di più con i personaggi. E la commozione riesce a coglierci alla sprovvista proprio perché la storia è raccontata senza cadere nei cliché in cui tanto facilmente potrebbero inciampare trame così “normali” da un lato e al tempo stesso fuori dall’ordinario.
On Ira (2015) di Enya Baroux
Una libraia femminista cinquantenne che si ritrova immischiata nella famiglia sfasciata del proprio vicino di casa; una coppia messa in crisi dalla gelosia e dalle lusinghe che solo i narcisisti riescono a mettere in atto; una famiglia che parte per un viaggio in camper ignara della decisione della nonna di ricorrere al suicidio assistito; la biografia di un uomo di successo che però non riesce ad affrancarsi dall’ingombrante figura della madre. Queste le trame che hanno affollato i cinema francesi in questi mesi a cavallo tra il 2024 e il 2025, trame da cui si aprivano innumerevoli possibili direzioni da prendere, tra cui i registi e le registe sono riusciti a fare scelte originali e in grado di lasciare il segno, uscendo sempre e comunque dal solco tracciato del genere in cui venivano etichettate queste opere.
Dis-moi juste que tu m’aimes di Anne Le Ny e On ira di Enya Baroux per esempio si presentano rispettivamente come thriller e dramma, ma sono quelli in cui le risate si sono fatte sentire più forte. Ed è da questo a parer mio che si vede una scrittura di spessore, quando alla battuta della moglie che confessa il proprio tradimento ammettendo che “l’amore fa fare cose folli”, il marito risponde “Ma ti senti? Che hai 13 anni?”. O quando l’intera famiglia di On Ira arriva alla clinica in svizzera indossando ancora le scarpe da bowling che si sono cambiati nelle scene precedenti e che la coerenza cinematografica deve mantenere.
Diverso discorso per L’attachement di Carine Tardieu, e Ma Mére, Dieu et Sylvie Vartan di Ken Scott, opere che lasciano, piuttosto, spunti di riflessione e sentenze che colpiscono dritto al cuore.
La prima, tratta dal romanzo L’intimitié della nota scrittrice Alice Ferney, mostra la bellezza dei legami della famiglia che ci si costruisce durante la vita oltre alle parentele e ai rapporti più codificati. Lo fa attraverso la drammatica storia di un padre che perde la moglie durante il parto, storia che si intreccia con quella di una donna di circa cinquanta anni che credeva di aver trovato la propria serenità in una equilibrata solitudine, e si trova poi sconvolta dal vicinato che, come confessa lei stessa nel film, “è capace di farti sentire sola anche quando ami stare da sola a casa tua, con quella soundtrack delle loro esistenze che si svolgono senza di te”.
Ma Mére, Dieu et Sylvie Vartan (2025) di Ken Scott
Anche il secondo titolo è tratto da un romanzo, omonimo, che racconta la storia vera di un uomo in fondo normale, che ha la capacità però di trovare un filo rosso tra gli eventi della sua vita. Questo filo rosso è la madre, figura imponente che domina già il cartellone, che segna lo scandirsi del tempo della vita dell’autore e della storia intera (visto che le diverse epoche del filmsi deducono più dalle acconciature e dagli abiti di questa donna che dagli eventi storici).
Mi permetto di fare una previsione e aggiungere tra questi titoli Changer l’eau aux fleurs, tratto dall’omonimo romanzo di Valérie Perrin, che purtroppo non ho fatto in tempo a vedere in Francia dato che la sua uscita è prevista per il 2026.
Un’altra certezza, è che la Francia continuerà a rappresentare sé stessa nel modo più esteticamente piacevole possibile: tra le basse case in mattoni e le immense praterie della Bretagna, e il sole e i paesaggi ameni del Sud, gli scenari contribuiscono sicuramente a costruire il ritratto di una vita quotidiana che però, nella sua quotidianità, trova dello straordinario.
La fotografia si rivela diversa per ogni film, adattata, come dovrebbe essere, alle tinte della storia che deve essere raccontata: si passa dai colori brillanti che evocano il Marocco, paese d’origine ella famiglia di Ma mère, Dieu et Sylvan Vartan, alle tinte da pellicola Kodak che richiamano i souvenir delle vacanze per On Ira, fino alle tinte più cupe del thriller Dis-moi juste que tu m’aimes.
Per tirare le fila del discorso, posso affermare con certezza una cosa: non sono mai uscita delusa da un cinema in Francia.