NC-153
08.06.2023
Una dissolvenza in nero scopre il viso di Tim Roth, intento a raggiungere un uomo per poi ucciderlo a sangue freddo con un colpo di pistola a bruciapelo. Nel frattempo, in una sala cinematografica non lontana, nel Queens, la pellicola Vengeance Valley, western in Technicolor del 1951 firmato Richard Thorpe, incomincia a bruciare di fronte allo sguardo di un giovane spettatore attonito. Si apre così Little Odessa (1994), con ben due atti “incendiari” e folgoranti che fanno immediatamente comprendere come James Gray non sia un regista qualunque, ma un uomo molto attento all’evoluzione del cinema, al suo presente, al suo passato e al suo futuro.
Una riflessione cinematografica che raccoglie dunque il tempo, che si fa carico di quella tipologia di cinema che, già all’epoca, era “sul viale del tramonto” e che raccontava di anti-eroi soli, circondati e attanagliati da quella metropoli che tanto aveva già mostrato nel corso della New Hollywood e che si era posta come location d’alienazione contemporanea già negli anni ’70. Rispetto ai classici del cinema americano, però, Gray guarda ai conflitti - siano essi generazionali, come nell’ultimo Armageddon Time (2022), siano essi inglobati all’interno del tessuto familiare e genitoriale, come gran parte della sua opera - con un occhio distaccato, con una discrezione e una distensione che appartengono ad un altro tipo di cinema, all’altro grande “amore” del Gray regista, quella Nouvelle Vague da cui egli ha sempre attinto per il tessuto estremamente auto-biografico della sua filmografia.
E proprio da quel contesto cinematografico altro, il cineasta stesso recupera quella freschezza che appartiene alla macchina a mano. Un movimento che potrebbe risultare come semplicemente nostalgico ad un occhio banale, ma che in realtà nasconde non tanto la melanconia per un passato (non solo biografico) che non potrà più tornare, quanto piuttosto una vitalità che vuole rinnovare proprio quel tessuto classico a cui Gray si è sempre ispirato, attingendo dal materiale di vecchia data per approdare ad una contaminazione con tipologie di linguaggi anche diversi tra loro. Proprio attraverso la tecnica e la sensibilità, il regista del Queens parte da un percorso che, in qualche modo, lo ricollega a quel crime “scorsesiano” che sembra essere, più che un modello, un vero e proprio spirito guida in un primo momento, salvo poi cambiare e rendere metamorfico il suo cinema senza trasgredirlo nel corso della sua carriera.
Proprio in virtù di questa trasmigrazione continua, di quest’idea di cinema che si rinnova pur partendo da coordinate pre-costituite e già conosciute, risalta all’occhio quanto James Gray sia in realtà un trasformista eccellente, in grado di cucire il proprio abito addosso ai “clienti” più ostili. In questo modo riesce ad attraversare qualsiasi tipologia di racconto, di passare dai drammi familiari di Little Odessa e We Own The Night (2007) all’epopea a-la David Lean con The Lost City Of Z (2016), fino ad approdare persino alla space opera con Ad Astra (2019). Eppure c’è un filo conduttore che resta intatto e che racchiude questa natura “liquida” del neo-classicismo quasi letterario del cineasta. Un filo conduttore che è collegato alla famiglia, indagata non solo quale istituzione principe americana, base stessa dello Stato, ma anche come nido e opportunità di crescita, sia essa riuscita o fallita.
La famiglia diventa dunque un vincolo, quasi un patto di sangue dal quale è impossibile uscire e che invece è destinato ad un eterno ritorno da cui non si può fuggire, se non tramite atti estremi. Il cinema di Gray ruota attorno alle figure che creano la vita, ma le evidenzia in modo quasi oppressivo, come un peso al quale, alla fine, si debba per forza soccombere, come in quello che è probabilmente il suo vero capolavoro, ovvero Two Lovers (2008). I padri sono come macigni: è impossibile per i protagonisti del regista slegarsi dalle ombre di coloro che li hanno procreati. Le colpe dei genitori, dunque, si tramandano di generazione in generazione, destinate a schiacciare gli uomini “dostoevskijani” di Gray e a farne emblemi del disastro interiore. Un turning point, anche questo, che porta alla scoperta di quello che è forse il nocciolo della questione, ovvero l’impossibilità del superamento del melodramma, pena la parabola discendente della vita stessa.
NC-153
08.06.2023
Una dissolvenza in nero scopre il viso di Tim Roth, intento a raggiungere un uomo per poi ucciderlo a sangue freddo con un colpo di pistola a bruciapelo. Nel frattempo, in una sala cinematografica non lontana, nel Queens, la pellicola Vengeance Valley, western in Technicolor del 1951 firmato Richard Thorpe, incomincia a bruciare di fronte allo sguardo di un giovane spettatore attonito. Si apre così Little Odessa (1994), con ben due atti “incendiari” e folgoranti che fanno immediatamente comprendere come James Gray non sia un regista qualunque, ma un uomo molto attento all’evoluzione del cinema, al suo presente, al suo passato e al suo futuro.
Una riflessione cinematografica che raccoglie dunque il tempo, che si fa carico di quella tipologia di cinema che, già all’epoca, era “sul viale del tramonto” e che raccontava di anti-eroi soli, circondati e attanagliati da quella metropoli che tanto aveva già mostrato nel corso della New Hollywood e che si era posta come location d’alienazione contemporanea già negli anni ’70. Rispetto ai classici del cinema americano, però, Gray guarda ai conflitti - siano essi generazionali, come nell’ultimo Armageddon Time (2022), siano essi inglobati all’interno del tessuto familiare e genitoriale, come gran parte della sua opera - con un occhio distaccato, con una discrezione e una distensione che appartengono ad un altro tipo di cinema, all’altro grande “amore” del Gray regista, quella Nouvelle Vague da cui egli ha sempre attinto per il tessuto estremamente auto-biografico della sua filmografia.
E proprio da quel contesto cinematografico altro, il cineasta stesso recupera quella freschezza che appartiene alla macchina a mano. Un movimento che potrebbe risultare come semplicemente nostalgico ad un occhio banale, ma che in realtà nasconde non tanto la melanconia per un passato (non solo biografico) che non potrà più tornare, quanto piuttosto una vitalità che vuole rinnovare proprio quel tessuto classico a cui Gray si è sempre ispirato, attingendo dal materiale di vecchia data per approdare ad una contaminazione con tipologie di linguaggi anche diversi tra loro. Proprio attraverso la tecnica e la sensibilità, il regista del Queens parte da un percorso che, in qualche modo, lo ricollega a quel crime “scorsesiano” che sembra essere, più che un modello, un vero e proprio spirito guida in un primo momento, salvo poi cambiare e rendere metamorfico il suo cinema senza trasgredirlo nel corso della sua carriera.
Proprio in virtù di questa trasmigrazione continua, di quest’idea di cinema che si rinnova pur partendo da coordinate pre-costituite e già conosciute, risalta all’occhio quanto James Gray sia in realtà un trasformista eccellente, in grado di cucire il proprio abito addosso ai “clienti” più ostili. In questo modo riesce ad attraversare qualsiasi tipologia di racconto, di passare dai drammi familiari di Little Odessa e We Own The Night (2007) all’epopea a-la David Lean con The Lost City Of Z (2016), fino ad approdare persino alla space opera con Ad Astra (2019). Eppure c’è un filo conduttore che resta intatto e che racchiude questa natura “liquida” del neo-classicismo quasi letterario del cineasta. Un filo conduttore che è collegato alla famiglia, indagata non solo quale istituzione principe americana, base stessa dello Stato, ma anche come nido e opportunità di crescita, sia essa riuscita o fallita.
La famiglia diventa dunque un vincolo, quasi un patto di sangue dal quale è impossibile uscire e che invece è destinato ad un eterno ritorno da cui non si può fuggire, se non tramite atti estremi. Il cinema di Gray ruota attorno alle figure che creano la vita, ma le evidenzia in modo quasi oppressivo, come un peso al quale, alla fine, si debba per forza soccombere, come in quello che è probabilmente il suo vero capolavoro, ovvero Two Lovers (2008). I padri sono come macigni: è impossibile per i protagonisti del regista slegarsi dalle ombre di coloro che li hanno procreati. Le colpe dei genitori, dunque, si tramandano di generazione in generazione, destinate a schiacciare gli uomini “dostoevskijani” di Gray e a farne emblemi del disastro interiore. Un turning point, anche questo, che porta alla scoperta di quello che è forse il nocciolo della questione, ovvero l’impossibilità del superamento del melodramma, pena la parabola discendente della vita stessa.