INT-57
14.02.2024
Il cinema ucraino dell’ultimo decennio si è spesso distinto sullo scenario internazionale, uno dei primi casi fu nel 2011, quando Maryna Vroda vinse la Palma d’Oro al miglior cortometraggio per Cross. Lo scorso anno ha presentato Stepne, il suo debutto nel lungometraggio, vincitore del premio alla regia e del FIPRESCI a Locarno. Recentemente la pellicola ha continuato il suo trionfo con il premio al miglior film durante il Trieste Film Festival. Stepne racconta il ritorno di un uomo di mezza età presso la madre morente, in un mondo rurale che sembra sospeso nel tempo. L’opera si colloca nel territorio della docu-fiction, adoperando attori non professionisti.
Abbiamo avuto l’occasione di incontrare Maryna Vroda al Trieste Film Festival - svoltosi dal 19 al 27 gennaio - che ci ha parlato del suo approccio durante le riprese di Stepne.
Vedendo Stepne senza conoscere il suo contesto, ci si potrebbe chiedere spesso se sia un documentario o una finzione, c’è la trama ma ci sono scene come quella della cena del funerale, dove gli attori raccontano le proprie esperienze, che sembra improvvisata. Quanto di Stepne era sceneggiato e quanto è stato “improvvisato”?
La sceneggiatura era molto dettagliata, eccetto per la scena del funerale. C’era anche una seconda protagonista che ho tagliato in seguito, una giovane donna che avrebbe rappresentato me, era il mio alter-ego. Volevo concentrarmi di più sulla storia attorno ai personaggi anziani. Nello specifico, nella scena del funerale, ho progettato di implementare le storie che gli anziani avrebbero raccontato, ma non si sa mai in anticipo se si riuscirà a mettere in atto ciò che si è progettato, quindi avevo un piano B. Ma, fortunatamente, il miracolo è avvenuto. Per la sequenza avevamo scelto persone che hanno vissuto l'uno o l’altro conflitto, per mostrare come l’Unione Sovietica non abbia mai smesso di combattere guerre. Ho adoperato attori non professionisti in modo da presentare sullo schermo delle vere testimonianze, anche perché nemmeno il migliore degli interpreti sarà mai emotivamente coinvolto tanto quanto un essere umano che ha vissuto la guerra in maniera diretta. Mi ha certamente spinto anche il fatto che in Ucraina non abbiamo mai fatto il punto riguardo alla nostra storia e, più in generale, alle nostre storie familiari. Non posso fare nomi, ma molti agenti mi hanno suggerito di tagliare quella scena, ma io ho combattuto affinché restasse nel film. Penso che la sequenza non funzionerebbe senza la cornice del film, e che anche al film mancherebbe qualcosa in assenza di essa. Resta comunque un’opera di finzione perché abbiamo scelto noi gli attori, sapevo già le loro storie ed era solo un trucco, metterli insieme in una stanza e farli parlare. Volevo avere questa sensazione, di far sentire allo spettatore di essere ad un tavolo ad ascoltare le memorie che questi personaggi condividono fra loro. Ho immaginato che le persone sedute li fossero un coro, in cui ognuno ha la propria parte. In qualche modo il film parla della vita, della Terra, del nostro posto in essa e, naturalmente, racconta molto dell’Ucraina. Ho cercato di fare un film sul mio paese, ma che sia anche universale, connesso al mondo.
Parlando di coro, le canzoni folcloristiche e la musica hanno un ruolo molto importante nel film.
L'aspetto del folclore è stato un dono per me. Mi sono dedicata a cercare queste specie di “strani poeti” che nessuno conosce. Per esempio Ola, uno dei personaggi della pellicola, mentre aspettavamo che il sole calasse per girare una scena - perché volevamo evitare che il sole comparisse per tutto il film - ha iniziato a cantare mentre impastava il pane. Ho pensato di registrarla sul momento. Mentre Nina Baba - un'altra delle donne su cui mi sono focalizzata - ha questo miscuglio linguistico strano, che molti ucraini forse non apprezzerebbero, o che gli insegnanti di lingua giudicherebbero “scorretto”, che la rende molto interessante, penso che facesse confusione tra tre lingue diverse. Avevamo molto materiale che non abbiamo potuto usare, ed avevamo fatto amicizia con gli attori durante le riprese. Nina sapeva che avrei voluto avere qualcosa di personale da parte sua, ma non si sentiva sicura. Verso la fine del film ha deciso inaspettatamente di ballare e cantare durante una scena, una canzone un po’ femminista su una donna che abbandona il marito per andare a ballare, una canzone che ha completamente improvvisato. Non l’ho chiesto io. Non sapevo cosa stava succedendo.
Ha alluso al fatto che il film è stato girato in assenza della luce del sole, come mai questa scelta?
Si, avevamo un obiettivo: di girare di mattina presto e di sera. Mi ha sempre affascinato, sin da bambino, quella fase del giorno. Spesso uscivo nei campi per lunghe camminate, e poi all’improvviso il sole calava e dovevo rientrare prima che facesse buio. Comunque, per il film era importante mantenerci in quel momento di cambiamento tra giorno e notte, come metafora del passaggio tra vita e morte. Perché la bellezza della vita è che moriremo, e che la vita è assurda. Perciò per me era importante avere questa specie di sospensione temporale, per mantenere il film in un continuo presente.
Non ho potuto fare a meno di notare il nome di Peter Kerekes nei titoli di coda - come co-produttore - anche lui lavora spesso in questo territorio che mescola documentario e finzione. Come è andata la vostra collaborazione?
Lo apprezzo molto come collega, non sono una persona che ascolta molto. Era bello collaborare con un team slovacco e la sua opinione mi ha di certo aiutato. Anche lui apprezza lo stile documentaristico-finzionale, anche a lui piaceva la scena del funerale, ma non mi ha mai spinto a cambiare qualcosa, è stato molto rispettoso.
Quale sarà il suo prossimo progetto?
Vorrei fare un documentario, su me stessa che dirigo, forse una specie di autoritratto, non posso dire di più per ora. Questo perché non so se riuscirò a continuare a lavorare nel cinema, vista la situazione. Attualmente vivo a Berlino ma il mio cuore resta a Kyiv, e penso sia importante rappresentare anche questa realtà.
INT-57
14.02.2024
Il cinema ucraino dell’ultimo decennio si è spesso distinto sullo scenario internazionale, uno dei primi casi fu nel 2011, quando Maryna Vroda vinse la Palma d’Oro al miglior cortometraggio per Cross. Lo scorso anno ha presentato Stepne, il suo debutto nel lungometraggio, vincitore del premio alla regia e del FIPRESCI a Locarno. Recentemente la pellicola ha continuato il suo trionfo con il premio al miglior film durante il Trieste Film Festival. Stepne racconta il ritorno di un uomo di mezza età presso la madre morente, in un mondo rurale che sembra sospeso nel tempo. L’opera si colloca nel territorio della docu-fiction, adoperando attori non professionisti.
Abbiamo avuto l’occasione di incontrare Maryna Vroda al Trieste Film Festival - svoltosi dal 19 al 27 gennaio - che ci ha parlato del suo approccio durante le riprese di Stepne.
Vedendo Stepne senza conoscere il suo contesto, ci si potrebbe chiedere spesso se sia un documentario o una finzione, c’è la trama ma ci sono scene come quella della cena del funerale, dove gli attori raccontano le proprie esperienze, che sembra improvvisata. Quanto di Stepne era sceneggiato e quanto è stato “improvvisato”?
La sceneggiatura era molto dettagliata, eccetto per la scena del funerale. C’era anche una seconda protagonista che ho tagliato in seguito, una giovane donna, che avrebbe rappresentato me, era il mio alter-ego. Volevo concentrarmi di più sulla storia attorno ai personaggi anziani. Nello specifico, nella scena del funerale, ho progettato di implementare le storie che gli anziani avrebbero raccontato, ma non si sa mai in anticipo se questo accadrà o meno, quindi avevo un piano B. Il miracolo è però successo, direi. Per la sequenza avevamo scelto persone che hanno vissuto durante l’una o l’altra guerra sovietica, per mostrare come l’Unione Sovietica non abbia mai smesso di combattere guerre. Ho adoperato attori non professionisti in modo da presentare sullo schermo delle vere testimonianze, anche perché nemmeno il migliore degli interpreti sarà mai emotivamente coinvolto tanto quanto un essere umano che ha vissuto la guerra in maniera diretta. Mi ha certamente spinto anche il fatto che in Ucraina non abbiamo mai fatto il punto riguardo alla nostra storia e, più in generale, alle nostre storie familiari. Non posso fare nomi, ma molti agenti mi hanno suggerito di tagliare quella scena, ma io ho combattuto affinché restasse nel film. Penso che la sequenza non funzionerebbe senza la cornice del film, e che anche al film mancherebbe qualcosa in assenza di essa. Resta comunque un’opera di finzione perché abbiamo scelto noi gli attori, sapevo già le loro storie ed era solo un trucco, metterli insieme in una stanza e farli parlare. Volevo avere questa sensazione, di far sentire allo spettatore di essere ad un tavolo ad ascoltare le memorie che questi personaggi condividono fra loro. Ho immaginato che le persone al tavolo fossero un coro, in cui ognuno ha la propria parte. In qualche modo il film parla della vita, della Terra, del nostro posto in essa e, naturalmente, racconta molto dell’Ucraina. Ho cercato di fare un film sul mio paese, ma che sia anche universale, connesso al mondo.
Parlando di coro, le canzoni folcloristiche e la musica hanno un ruolo molto importante nel film.
L'aspetto del folclore è stato un dono per me. Mi sono dedicata a cercare queste specie di “strani poeti” che nessuno conosce. Per esempio Ola, uno dei personaggi della pellicola, mentre aspettavamo che il sole calasse per girare una scena - perché volevamo evitare che il sole comparisse per tutto il film - ha iniziato a cantare mentre impastava il pane. Ho pensato di registrarla sul momento. Mentre Nina Baba - un'altra delle donne su cui mi sono focalizzata - ha questo miscuglio linguistico strano, che molti ucraini forse non apprezzerebbero, o che gli insegnanti di lingua giudicherebbero “scorretto”, che la rende molto interessante, penso che facesse confusione tra tre lingue diverse. Avevamo molto materiale che non abbiamo potuto usare, ed avevamo fatto amicizia con gli attori durante le riprese. Nina sapeva che avrei voluto avere qualcosa di personale da parte sua, ma non si sentiva sicura. Verso la fine del film ha deciso inaspettatamente di ballare e cantare durante una scena, una canzone un po’ femminista su una donna che abbandona il marito per andare a ballare, una canzone che ha completamente improvvisato. Non l’ho chiesto io. Non sapevo cosa stava succedendo.
Ha alluso al fatto che il film è stato girato in assenza della luce del sole, come mai questa scelta?
Si, avevamo un obiettivo: di girare di mattina presto e di sera. Mi ha sempre affascinato, sin da bambino, quella fase del giorno. Spesso uscivo nei campi per lunghe camminate, e poi all’improvviso il sole calava e dovevo rientrare prima che facesse buio. Comunque, per il film era importante mantenerci in quel momento di cambiamento tra giorno e notte, come metafora del passaggio tra vita e morte. Perché la bellezza della vita è che moriremo, e che la vita è assurda. Perciò per me era importante avere questa specie di sospensione temporale, per mantenere il film in un continuo presente.
Non ho potuto fare a meno di notare il nome di Peter Kerekes nei titoli di coda - come co-produttore - anche lui lavora spesso in questo territorio che mescola documentario e finzione. Come è andata la vostra collaborazione?
Lo apprezzo molto come collega, non sono una persona che ascolta molto. Era bello collaborare con un team slovacco e la sua opinione mi ha di certo aiutato. Anche lui apprezza lo stile documentaristico-finzionale, anche a lui piaceva la scena del funerale, ma non mi ha mai spinto a cambiare qualcosa, è stato molto rispettoso.
Quale sarà il suo prossimo progetto?
Vorrei fare un documentario, su me stessa che dirigo, forse una specie di autoritratto, non posso dire di più per ora. Questo perché non so se riuscirò a continuare a lavorare nel cinema, vista la situazione. Attualmente vivo a Berlino ma il mio cuore resta a Kyiv, e penso sia importante rappresentare anche questa realtà.