di Cosimo Maj
NC-13
28.05.2020
L’esperienza del film collettivo in Italia comincia fin dai primi anni ’50. Ne abbiamo un primo esempio con L’Amore in città, in sei episodi, ideato da Zavattini e girato da Antonioni, Fellini, Risi, Lattuada, Lizzani e Maselli. Dal film iniziano soprattutto ad emergere le forti personalità autoriali dei due registi emiliano-romagnoli, Fellini e Antonioni, in un periodo in cui il Neorealismo, la grande corrente cinematografica che ha rivoluzionato per sempre la storia della settima arte, è vicino al suo epilogo e che coincide, parallelamente, con l’affermazione della cosiddetta commedia all’italiana. I due, come quasi tutti i grandi registi italiani del tempo, daranno il loro apporto a diversi film collettivi. In Italia la collettività si concretizza soprattutto nell’ambito della commedia episodica. I mostri, cult del ’63, rappresenta un punto di partenza per successivi film di successo del nostro cinema, compresi i vari seguiti della pellicola madre, I nuovi mostri e I mostri oggi. Nel caso de I mostri la regia è affidata ad un solo regista, Dino Risi, e la pluralità si esprime quindi solo nella natura episodica, mentre in un film come I complessi la regia è affidata a più registi, accomunati da una cifra stilistica.
Tornando qualche anno indietro, è doveroso citare l’esempio di maggiore collettività della storia del cinema, la Nouvelle Vague. Questo grande movimento d’avanguardia francese affonda le radici nelle esperienze dei suoi vari esponenti, Truffaut, Godard, Chabrol e Rivette, nei Cahiers du Cinéma. Sviluppano un manifesto, che propone un’idea di cinema comune ma, soprattutto, rivoluzionaria. Nonostante questo, andando ad approfondire i singoli autori, ci si imbatte chiaramente in poetiche molto diverse l’una dall’altra. La Nouvelle Vague contribuisce alla nascita di un “author system”, a partire dagli anni ’60, quando il nome del regista diventa più importante di quello dell’attore. A partire da questo fenomeno assistiamo alla produzione di una serie di film in cui alcuni tra i più importanti registi internazionali finiscono per unirsi. I film realizzati in questo modo ruotano spesso attorno ad uno stesso tema, di cui ogni regista offre la propria visione. È il caso de L’amore a vent’anni, in cui cinque registi di diverse nazionalità raccontano l’amore in base al proprio luogo di origine, incanalando lo stesso tema nel contesto di cinque diverse metropoli. Proprio l’aspetto dello sguardo a tratti sociologico sembra essere la spinta motrice di questo tipo di film, che si tratti di commedia o dramma. In Italia, in particolare, gli autori hanno un grande interesse nel delineare, attraverso gli episodi, vari aspetti del cittadino medio nel periodo del boom economico. L’identità del luogo continua ad essere centrale fino alla fine degli anni ’80, quando Scorsese, Coppola e Allen danno vita a New York Stories. Si tratta di un caso particolarmente prezioso, se si pensa a come ognuno degli autori abbia dato un personale ritratto della città nell’arco della propria carriera.
Diverso è il caso in cui la collettività è messa al servizio di storie organiche. È più difficile, infatti, trovare esempi di film in cui la pluralità non si esprima nella natura episodica del film, ma nella molteplicità della regia. Sappiamo che la sceneggiatura è quasi sempre scritta a più mani, mentre nella regia è più facile individuare figure di tipo autarchico. “La regia è una delle ultime forme dittatoriali presenti” diceva Coppola sul set di Apocalypse Now. Eppure a volte i “dittatori” hanno più di un volto. Spesso sono fratelli, addirittura gemelli, come nel caso dei recentissimi baby fenomeni del cinema italiano, Damiano e Fabio D’Innocenzo, fortemente in simbiosi, un po’ come i Fratelli Coen di cui si dice che siano un “regista a due teste”. Arriviamo però a un nuovo livello di complessità quando parliamo di un film uscito nel 2019 su RaiPlay, L’ultimo piano. La pellicola è diretta dagli studenti del terzo anno della Gian Maria Volontè, scuola di cinema della capitale. In particolare, è diretta da nove di loro, con l’apporto di oltre sessanta ragazzi della scuola. Anche nel caso di questo film, il tema è di natura sociologica. Il film-diploma di questo “regista a nove teste” racconta l’Italia del precariato. In un fatiscente open space di Tor Marancia vivono quattro personaggi: la studentessa fuori sede Diana, la ragazza madre Flora, il rider Mattia e il malinconico ex bassista punk Aureliano. Ognuno di loro è specchio di un disagio presente nella società attuale, che sia in campo lavorativo, familiare o accademico. Uniti sotto lo stesso tetto, troveranno proprio nella collettività la forza di dare una seppur lieve svolta alla propria vita. Il film, realizzato sotto la supervisione di Daniele Vicari, autore di Diaz, ha avuto alle spalle un importante lavoro di ricerca, in cui i ragazzi hanno ascoltato molte di quelle storie che poi vengono tradotte in personaggi filmici. Nel film si intravede l’eredità di un cinema come quello di Ken Loach, o quello del sopracitato L’amore in città, attraverso cui Zavattini impartiva il grande insegnamento di “scendere in strada” per scrivere.
di Cosimo Maj
NC-13
28.05.2020
L’esperienza del film collettivo in Italia comincia fin dai primi anni ’50. Ne abbiamo un primo esempio con L’Amore in città, in sei episodi, ideato da Zavattini e girato da Antonioni, Fellini, Risi, Lattuada, Lizzani e Maselli. Dal film iniziano soprattutto ad emergere le forti personalità autoriali dei due registi emiliano-romagnoli, Fellini e Antonioni, in un periodo in cui il Neorealismo, la grande corrente cinematografica che ha rivoluzionato per sempre la storia della settima arte, è vicino al suo epilogo e che coincide, parallelamente, con l’affermazione della cosiddetta commedia all’italiana. I due, come quasi tutti i grandi registi italiani del tempo, daranno il loro apporto a diversi film collettivi. In Italia la collettività si concretizza soprattutto nell’ambito della commedia episodica. I mostri, cult del ’63, rappresenta un punto di partenza per successivi film di successo del nostro cinema, compresi i vari seguiti della pellicola madre, I nuovi mostri e I mostri oggi. Nel caso de I mostri la regia è affidata ad un solo regista, Dino Risi, e la pluralità si esprime quindi solo nella natura episodica, mentre in un film come I complessi la regia è affidata a più registi, accomunati da una cifra stilistica.
Tornando qualche anno indietro, è doveroso citare l’esempio di maggiore collettività della storia del cinema, la Nouvelle Vague. Questo grande movimento d’avanguardia francese affonda le radici nelle esperienze dei suoi vari esponenti, Truffaut, Godard, Chabrol e Rivette, nei Cahiers du Cinéma. Sviluppano un manifesto, che propone un’idea di cinema comune ma, soprattutto, rivoluzionaria. Nonostante questo, andando ad approfondire i singoli autori, ci si imbatte chiaramente in poetiche molto diverse l’una dall’altra. La Nouvelle Vague contribuisce alla nascita di un “author system”, a partire dagli anni ’60, quando il nome del regista diventa più importante di quello dell’attore. A partire da questo fenomeno assistiamo alla produzione di una serie di film in cui alcuni tra i più importanti registi internazionali finiscono per unirsi. I film realizzati in questo modo ruotano spesso attorno ad uno stesso tema, di cui ogni regista offre la propria visione. È il caso de L’amore a vent’anni, in cui cinque registi di diverse nazionalità raccontano l’amore in base al proprio luogo di origine, incanalando lo stesso tema nel contesto di cinque diverse metropoli. Proprio l’aspetto dello sguardo a tratti sociologico sembra essere la spinta motrice di questo tipo di film, che si tratti di commedia o dramma. In Italia, in particolare, gli autori hanno un grande interesse nel delineare, attraverso gli episodi, vari aspetti del cittadino medio nel periodo del boom economico. L’identità del luogo continua ad essere centrale fino alla fine degli anni ’80, quando Scorsese, Coppola e Allen danno vita a New York Stories. Si tratta di un caso particolarmente prezioso, se si pensa a come ognuno degli autori abbia dato un personale ritratto della città nell’arco della propria carriera.
Diverso è il caso in cui la collettività è messa al servizio di storie organiche. È più difficile, infatti, trovare esempi di film in cui la pluralità non si esprima nella natura episodica del film, ma nella molteplicità della regia. Sappiamo che la sceneggiatura è quasi sempre scritta a più mani, mentre nella regia è più facile individuare figure di tipo autarchico. “La regia è una delle ultime forme dittatoriali presenti” diceva Coppola sul set di Apocalypse Now. Eppure a volte i “dittatori” hanno più di un volto. Spesso sono fratelli, addirittura gemelli, come nel caso dei recentissimi baby fenomeni del cinema italiano, Damiano e Fabio D’Innocenzo, fortemente in simbiosi, un po’ come i Fratelli Coen di cui si dice che siano un “regista a due teste”. Arriviamo però a un nuovo livello di complessità quando parliamo di un film uscito nel 2019 su RaiPlay, L’ultimo piano. La pellicola è diretta dagli studenti del terzo anno della Gian Maria Volontè, scuola di cinema della capitale. In particolare, è diretta da nove di loro, con l’apporto di oltre sessanta ragazzi della scuola. Anche nel caso di questo film, il tema è di natura sociologica. Il film-diploma di questo “regista a nove teste” racconta l’Italia del precariato. In un fatiscente open space di Tor Marancia vivono quattro personaggi: la studentessa fuori sede Diana, la ragazza madre Flora, il rider Mattia e il malinconico ex bassista punk Aureliano. Ognuno di loro è specchio di un disagio presente nella società attuale, che sia in campo lavorativo, familiare o accademico. Uniti sotto lo stesso tetto, troveranno proprio nella collettività la forza di dare una seppur lieve svolta alla propria vita. Il film, realizzato sotto la supervisione di Daniele Vicari, autore di Diaz, ha avuto alle spalle un importante lavoro di ricerca, in cui i ragazzi hanno ascoltato molte di quelle storie che poi vengono tradotte in personaggi filmici. Nel film si intravede l’eredità di un cinema come quello di Ken Loach, o quello del sopracitato L’amore in città, attraverso cui Zavattini impartiva il grande insegnamento di “scendere in strada” per scrivere.