
NC-331
12.09.2025
Quella di Ennio Flaiano è una delle figure più affascinanti del Novecento letterario italiano. Nato a Pescara nel 1910, e scomparso prematuramente nel 1972, Flaiano fu nel 1947 il primo vincitore del premio Strega, con il suo romanzo d’esordio Tempo di uccidere, sul colonialismo italiano in Etiopia; nonostante il successo del suo debutto letterario, Flaiano non pubblicò più nessun altro romanzo tradizionale, continuando, come faceva già da prima, una proteiforme attività letteraria tra racconti, bozzetti umoristici, recensioni e altri articoli di giornale, e, soprattutto, un variegato percorso come sceneggiatore. La sua collaborazione più celebre fu quella con Federico Fellini, che lo portò a co-sceneggiare film del calibro di Luci del varietà (1950), La strada (1954), La dolce vita (1960) e 8 e ½ (1963); per tirare le somme della loro collaborazione scherzosamente Flaiano diceva che “Fellini mi ha rubato persino l’infanzia”, il rapporto creativo tra i due si interruppe nella seconda metà degli anni sessanta, secondo la vulgata ufficiale perché Flaiano si era risentito del trattamento impari che Fellini gli aveva riservato su un volo per Los Angels, secondo Goffredo Fofi perché Fellini era oscuramente intimorito dalla figlia di Flaiano, Lelé, nata con un grave handicap mentale. Altri registi con cui Ennio Flaiano collaborò furono Roberto Rossellini, per Dov’è la libertà? (1954), Michelangelo Antonioni, per La Notte (1961), Elio Petri, per il fantascientifico La decima vittima (1965), Dino Risi, Mario Soldati, Mario Monicelli e Luciano Emmer; a questi nomi di spicco si aggiunsero molte altre sceneggiature “di mestiere”, per titoli ormai dimenticati del cinema italiano degli anni sessanta e settanta.
Prima di diventare sceneggiatore, Flaiano fu a lungo recensore cinematografico per varie testate dell’epoca: dapprima Oggi, il settimanale su cui esordì in questa veste nel 1939; poi Storie di ieri e di oggi, Cine illustrato, Il Mediterraneo, Documento, Star, Bis, per poi approdare infine su Il Mondo. Delle circa trecento recensioni cinematografiche vergate da Flaiano, in passato pubblicate in parte per Rizzoli sotto il titolo un po’ fuorviante di Lettere d’amore al cinema, il nuovo volume dell’Adelphi Chiuso per noia, curato da Anna Longoni, ne raccoglie una sessantina; e alle recensioni pubblicate sui vari giornali e riviste tra il 1939 e il 1951 accompagna anche tre testi tardivi, un omaggio a Totò, uno scritto su 2001: Odissea nello Spazio (1968) di Stanley Kubrick e la sua risposta a un’inchiesta sulla crisi del cinema. Flaiano smise di scrivere recensioni sul principio degli anni cinquanta, quando aveva avviato già piuttosto stabilmente la sua carriera di sceneggiatore – già si era ritrovato a recensire Luci del varietà di Fellini e Lattuada, su cui aveva contribuito alla sceneggiatura. Anche se non raggiungono le vette di contenuto e di stile de Lo spettatore addormentato, la sua raccolta di scritti del teatro, un vero e proprio capolavoro di critica edito anch’esso da Adelphi, i pezzi sul cinema raccolti in Chiuso per noia rappresentano un’interessante testimonianza dei gusti di Flaiano, spettatore di cinema tutt’altro che cinefilo, e tracciano sotterraneamente un severo ritratto della cultura e dell’immaginario italiani.

Ennio Flaiano

La copertina del volume
"Ogni epoca ha le sue passioni, il cinema è toccato a noi", scriveva Flaiano un po’ sconsolatamente già nel 1951. A differenza del suo interesse per il teatro, quella per il cinema non è mai stata per Flaiano una passione, né come critico né come sceneggiatore: “lo rispetto, me ne servo, ne sono anche un po' schiavo, come di tutti i comforts moderni, telefono, ascensore, termosifone, automobile, eccetera, ma il cinema non è arte, anche nel migliore dei casi", concludeva senza mezzi termini in un'intervista del 1960. Questa sensazione di disagio di Flaiano si accrebbe quando iniziarono ad arrivare i primi adattamenti cinematografici delle su opere: "sono stato a vedere di soppiatto un film tratto da un mio racconto e non l'ho conosciuto", disse nel 1972 dopo aver visto La cagna di Marco Ferreri, ispirato al suo Melampus. Ciò non toglie che Flaiano avesse le idee chiare su come scrivere le recensioni cinematografiche, discostandosi spesso dalle tendenze dominanti della critica: "il pubblico non esiste, o meglio, siamo noi. Tutti credono che si tratti, invece, di altri", era la chiusa intelligente a una delle sue recensioni; e altrettanto lucide erano le sue idee sul culto dei divi, che negli anni cinquanta subì un’esplosione in Italia: "secondo noi discutere di attori del cinema è un poco perdere il proprio tempo: sono le ombre più care ma più deformabili del presente... L'attore cinematografico non è che il risultato momentaneo di parecchi sforzi convergenti. Gli occorrono il regista, il produttore, il soggettista e una pleiade di tecnici senza dei quali rimarrebbe un volto qualsiasi".
Sono molti i film di culto degli anni trenta, quaranta e cinquanta che Flaiano recensisce nelle pagine di Chiuso per noia: c’è Ombre Rosse (1939) di John Ford, "un film in cui l'ombra di de Maupassant si sposa a quella di un Murnau" in cui "per la prima volta in un film americano non si lasciano a Dio le cure della vendetta morale"; c’è Ossessione (1943), il titolo che segnò la nascita del Neorealismo, definito un "antiromanzo" per cui "dobbiamo essere grati a Luchino Visconti non per quanto ha saputo mettere nel suo film ma per quanto ha saputo non metterci"; l’Enrico V (1944) di Laurence Olivier, acclamato da Flaiano, Via col Vento (1939), bistrattato, Il silenzio è d'oro (1947) di René Clair, rivalutato; Miracolo a Milano (1951), apprezzato parzialmente, il Francesco, giullare di Dio (1950) di Rossellini, sostanzialmente stroncato, Viale del tramonto (1950) di Billy Wilder, ampiamente elogiato; Monsieur Verdoux (1947) di Chaplin, uno dei pochissimi film per cui Flaiano scomoda la qualifica di capolavoro. Flaiano apprezza poco i film di (o con) Orson Welles, i cui personaggi a suo dire "appartengono a quella categoria che mangia il pollo con le mani non per maleducazione, ma per eccesso di carattere, per prepotenza di immaginazione di volontà"; critica Quarto potere (1941) e ancor di più Cagliostro (1949), ma apprezza di più Il terzo uomo (1949) e Macbeth (1948). Clamorosa la stroncatura de La terra trema (1949) di Visconti - "nato per essere un ampio affresco il suo film alla fine risulta un sapiente ricamo, forse un ex voto". Interessante anche l’articolo sul kubrickiano 2001: Odissea nello Spazio, intitolato 2001, un’odissea al parallelepipedo, uscito su L’Europeo a inizio 1969: il film di Kubrick, uscito, scrive Flaiano, "in subdola armonia con il progetto Apollo", fa sfoggio di "una certa ironia switftiana sulle sorti umane e progressive in relazione alla conquista dello Spazio" che porta a "conclusioni… scoraggianti, tanto vale dire reazionarie".

Flaiano e Fellini
Attraverso queste recensioni Flaiano fa sfoggio di tutto il suo humour caustico e della sua pungente capacità di osservazione degli italiani: "il giuoco dell'intervallo, che consiste nel voltarsi a guardare il pubblico in un cinematografo quando le luci si riaccendono, è sconsigliabile se non si vuole correre il rischio di cedere alla misantropia. In nessun altro luogo come un cinema l'uomo rivela oggi la sua profonda capacità di accettare il tedio, la melanconica sazietà animale, l'accidia dello scimpanzé che mangia noccioline sapendo che non uscirà dalla gabbia". Parimenti Flaiano è pungente nel rilevare la banalità del tipico intreccio cinematografico: "il cinema è la più darwiniana delle arti" perché "riserva l’avvenire e la felicità soltanto personaggi giovani pieni di fiducia, li nega quelli di una certa età o rovinati dalle letture". A detta dello scrittore, nondimeno i grandi romanzi della letteratura si prestano poco agli adattamenti cinematografici, come dimostrano i fallimenti de I Promessi Sposi (1941) diretto da Mario Camerini e dell’Anna Karenina (1935) diretto da Clarence Brown, prosciugamenti della vera essenza dei due romanzi ridotti alla mera trama. "È il silenzio che fa la musica e sono le bucce del romanzo che fanno il romanzo", scrive Flaiano: "ho idea che il cinema, a forza di romanzi, si rovinerà con le buone letture".
La critica cinematografica durante il Ventennio fascista era per Flaiano e altri giovani l'unico modo per vivere di scrittura e parlare del fascismo, e a più riprese nelle sue prime recensioni lo scrittore aveva esternato il suo disappunto per le rappresentazioni patinate dell’Africa che i film dell’epoca fascista restituivano al pubblico. In un articolo risalente a poco dopo la guerra Flaiano commentava che "tante sono le pellicole che hanno illustrato la guerra che vien voglia di chiedersi se anche in questo campo la Natura non ha sentito il bisogno di copiare l'Arte se non ci siamo trovati - noi di questa generazione - nelle più terribili guerre ma immaginate anche per colpa del Cinema". La Seconda Guerra Mondiale portò a un ripensamento degli stilemi del nostro cinema, suscitando la nascita del Neorealismo, che in un primo momento Flaiano apprezzò appieno: "in un altro paese la sconfitta avrebbe favorito un cinema bassamente romantico, senza dubbio negatore, comunque nazionalista. In Italia, indicò la strada dell'indagine spietata ma senza compiacimenti. La cronaca fornì i pretesti e, se non ad altro, il cinema servì a rivelare l'Italia agli italiani". Quando però anche i film di De Sica, Rossellini, Zavattini e compagni generarono un filone di produzioni analoghe di bassa qualità e scarsa ispirazione, Flaiano arrivò a dire che vedere certi film del neorealismo di maniera metteva a disagio quanto salire su un tram affollato. Nella visione di Flaiano, "la causa dell'enorme fortuna del cinematografo va cercata nel rifugio che ha saputo offrire al naturalismo il giorno che il teatro volle bandirlo", e il Neorealismo diventava così la naturale evoluzione, nel bene e nel male, di certi caratteri del naturalismo francese e del verismo nostrano. Parimenti sferzante era Flaiano nei confronti delle commedie di cassetta italiane, critica a cui non furono risparmiati neanche alcuni titoli di Totò: "in questa inflazione di comicità c'è forse una profonda mancanza di umorismo?".

8½ (1963)
In linea con il temperamento di Flaiano, tra gli articoli di Chiuso per noia serpeggia spesso un sentimento e una consapevolezza dei limiti del cinema, della sua ineluttabile banalità, di una crisi che perennemente aleggiava sulle produzioni. "In poco meno di quarant'anni" - scriveva Flaiano nel 1948 - "il cinema italiano è morto due volte, sempre resuscitando. Il fenomeno non sorprende ormai gli osservatori; si inserisce anzi nelle tradizioni dei grandi fenomeni nazionali che rendono co arduo capire la nostra storia". Se prima si andava a cinema, è la riflessione di Flaiano, adesso si vanno a vedere i film: "quando il medium non è più il messaggio, il medium entra in crisi". Quelle di Flaiano non sono semplici recensioni: nella loro frammentarietà, questi articoli tracciano una sostanziale critica al cinema in quanto tale, e lasciano scorgere, in filigrana, una più ampia critica di costume che ricollega questo Chiuso per noia al resto del corpus delle opere di Flaiano.
NC-331
12.09.2025

Ennio Flaiano
Quella di Ennio Flaiano è una delle figure più affascinanti del Novecento letterario italiano. Nato a Pescara nel 1910, e scomparso prematuramente nel 1972, Flaiano fu nel 1947 il primo vincitore del premio Strega, con il suo romanzo d’esordio Tempo di uccidere, sul colonialismo italiano in Etiopia; nonostante il successo del suo debutto letterario, Flaiano non pubblicò più nessun altro romanzo tradizionale, continuando, come faceva già da prima, una proteiforme attività letteraria tra racconti, bozzetti umoristici, recensioni e altri articoli di giornale, e, soprattutto, un variegato percorso come sceneggiatore. La sua collaborazione più celebre fu quella con Federico Fellini, che lo portò a co-sceneggiare film del calibro di Luci del varietà (1950), La strada (1954), La dolce vita (1960) e 8 e ½ (1963); per tirare le somme della loro collaborazione scherzosamente Flaiano diceva che “Fellini mi ha rubato persino l’infanzia”, il rapporto creativo tra i due si interruppe nella seconda metà degli anni sessanta, secondo la vulgata ufficiale perché Flaiano si era risentito del trattamento impari che Fellini gli aveva riservato su un volo per Los Angels, secondo Goffredo Fofi perché Fellini era oscuramente intimorito dalla figlia di Flaiano, Lelé, nata con un grave handicap mentale. Altri registi con cui Ennio Flaiano collaborò furono Roberto Rossellini, per Dov’è la libertà? (1954), Michelangelo Antonioni, per La Notte (1961), Elio Petri, per il fantascientifico La decima vittima (1965), Dino Risi, Mario Soldati, Mario Monicelli e Luciano Emmer; a questi nomi di spicco si aggiunsero molte altre sceneggiature “di mestiere”, per titoli ormai dimenticati del cinema italiano degli anni sessanta e settanta.
Prima di diventare sceneggiatore, Flaiano fu a lungo recensore cinematografico per varie testate dell’epoca: dapprima Oggi, il settimanale su cui esordì in questa veste nel 1939; poi Storie di ieri e di oggi, Cine illustrato, Il Mediterraneo, Documento, Star, Bis, per poi approdare infine su Il Mondo. Delle circa trecento recensioni cinematografiche vergate da Flaiano, in passato pubblicate in parte per Rizzoli sotto il titolo un po’ fuorviante di Lettere d’amore al cinema, il nuovo volume dell’Adelphi Chiuso per noia, curato da Anna Longoni, ne raccoglie una sessantina; e alle recensioni pubblicate sui vari giornali e riviste tra il 1939 e il 1951 accompagna anche tre testi tardivi, un omaggio a Totò, uno scritto su 2001: Odissea nello Spazio (1968) di Stanley Kubrick e la sua risposta a un’inchiesta sulla crisi del cinema. Flaiano smise di scrivere recensioni sul principio degli anni cinquanta, quando aveva avviato già piuttosto stabilmente la sua carriera di sceneggiatore – già si era ritrovato a recensire Luci del varietà di Fellini e Lattuada, su cui aveva contribuito alla sceneggiatura. Anche se non raggiungono le vette di contenuto e di stile de Lo spettatore addormentato, la sua raccolta di scritti del teatro, un vero e proprio capolavoro di critica edito anch’esso da Adelphi, i pezzi sul cinema raccolti in Chiuso per noia rappresentano un’interessante testimonianza dei gusti di Flaiano, spettatore di cinema tutt’altro che cinefilo, e tracciano sotterraneamente un severo ritratto della cultura e dell’immaginario italiani.

La copertina del volume
"Ogni epoca ha le sue passioni, il cinema è toccato a noi", scriveva Flaiano un po’ sconsolatamente già nel 1951. A differenza del suo interesse per il teatro, quella per il cinema non è mai stata per Flaiano una passione, né come critico né come sceneggiatore: “lo rispetto, me ne servo, ne sono anche un po' schiavo, come di tutti i comforts moderni, telefono, ascensore, termosifone, automobile, eccetera, ma il cinema non è arte, anche nel migliore dei casi", concludeva senza mezzi termini in un'intervista del 1960. Questa sensazione di disagio di Flaiano si accrebbe quando iniziarono ad arrivare i primi adattamenti cinematografici delle su opere: "sono stato a vedere di soppiatto un film tratto da un mio racconto e non l'ho conosciuto", disse nel 1972 dopo aver visto La cagna di Marco Ferreri, ispirato al suo Melampus. Ciò non toglie che Flaiano avesse le idee chiare su come scrivere le recensioni cinematografiche, discostandosi spesso dalle tendenze dominanti della critica: "il pubblico non esiste, o meglio, siamo noi. Tutti credono che si tratti, invece, di altri", era la chiusa intelligente a una delle sue recensioni; e altrettanto lucide erano le sue idee sul culto dei divi, che negli anni cinquanta subì un’esplosione in Italia: "secondo noi discutere di attori del cinema è un poco perdere il proprio tempo: sono le ombre più care ma più deformabili del presente... L'attore cinematografico non è che il risultato momentaneo di parecchi sforzi convergenti. Gli occorrono il regista, il produttore, il soggettista e una pleiade di tecnici senza dei quali rimarrebbe un volto qualsiasi".
Sono molti i film di culto degli anni trenta, quaranta e cinquanta che Flaiano recensisce nelle pagine di Chiuso per noia: c’è Ombre Rosse (1939) di John Ford, "un film in cui l'ombra di de Maupassant si sposa a quella di un Murnau" in cui "per la prima volta in un film americano non si lasciano a Dio le cure della vendetta morale"; c’è Ossessione (1943), il titolo che segnò la nascita del Neorealismo, definito un "antiromanzo" per cui "dobbiamo essere grati a Luchino Visconti non per quanto ha saputo mettere nel suo film ma per quanto ha saputo non metterci"; l’Enrico V (1944) di Laurence Olivier, acclamato da Flaiano, Via col Vento (1939), bistrattato, Il silenzio è d'oro (1947) di René Clair, rivalutato; Miracolo a Milano (1951), apprezzato parzialmente, il Francesco, giullare di Dio (1950) di Rossellini, sostanzialmente stroncato, Viale del tramonto (1950) di Billy Wilder, ampiamente elogiato; Monsieur Verdoux (1947) di Chaplin, uno dei pochissimi film per cui Flaiano scomoda la qualifica di capolavoro. Flaiano apprezza poco i film di (o con) Orson Welles, i cui personaggi a suo dire "appartengono a quella categoria che mangia il pollo con le mani non per maleducazione, ma per eccesso di carattere, per prepotenza di immaginazione di volontà"; critica Quarto potere (1941) e ancor di più Cagliostro (1949), ma apprezza di più Il terzo uomo (1949) e Macbeth (1948). Clamorosa la stroncatura de La terra trema (1949) di Visconti - "nato per essere un ampio affresco il suo film alla fine risulta un sapiente ricamo, forse un ex voto". Interessante anche l’articolo sul kubrickiano 2001: Odissea nello Spazio, intitolato 2001, un’odissea al parallelepipedo, uscito su L’Europeo a inizio 1969: il film di Kubrick, uscito, scrive Flaiano, "in subdola armonia con il progetto Apollo", fa sfoggio di "una certa ironia switftiana sulle sorti umane e progressive in relazione alla conquista dello Spazio" che porta a "conclusioni… scoraggianti, tanto vale dire reazionarie".

Flaiano e Fellini
Attraverso queste recensioni Flaiano fa sfoggio di tutto il suo humour caustico e della sua pungente capacità di osservazione degli italiani: "il giuoco dell'intervallo, che consiste nel voltarsi a guardare il pubblico in un cinematografo quando le luci si riaccendono, è sconsigliabile se non si vuole correre il rischio di cedere alla misantropia. In nessun altro luogo come un cinema l'uomo rivela oggi la sua profonda capacità di accettare il tedio, la melanconica sazietà animale, l'accidia dello scimpanzé che mangia noccioline sapendo che non uscirà dalla gabbia". Parimenti Flaiano è pungente nel rilevare la banalità del tipico intreccio cinematografico: "il cinema è la più darwiniana delle arti" perché "riserva l’avvenire e la felicità soltanto personaggi giovani pieni di fiducia, li nega quelli di una certa età o rovinati dalle letture". A detta dello scrittore, nondimeno i grandi romanzi della letteratura si prestano poco agli adattamenti cinematografici, come dimostrano i fallimenti de I Promessi Sposi (1941) diretto da Mario Camerini e dell’Anna Karenina (1935) diretto da Clarence Brown, prosciugamenti della vera essenza dei due romanzi ridotti alla mera trama. "È il silenzio che fa la musica e sono le bucce del romanzo che fanno il romanzo", scrive Flaiano: "ho idea che il cinema, a forza di romanzi, si rovinerà con le buone letture".
La critica cinematografica durante il Ventennio fascista era per Flaiano e altri giovani l'unico modo per vivere di scrittura e parlare del fascismo, e a più riprese nelle sue prime recensioni lo scrittore aveva esternato il suo disappunto per le rappresentazioni patinate dell’Africa che i film dell’epoca fascista restituivano al pubblico. In un articolo risalente a poco dopo la guerra Flaiano commentava che "tante sono le pellicole che hanno illustrato la guerra che vien voglia di chiedersi se anche in questo campo la Natura non ha sentito il bisogno di copiare l'Arte se non ci siamo trovati - noi di questa generazione - nelle più terribili guerre ma immaginate anche per colpa del Cinema". La Seconda Guerra Mondiale portò a un ripensamento degli stilemi del nostro cinema, suscitando la nascita del Neorealismo, che in un primo momento Flaiano apprezzò appieno: "in un altro paese la sconfitta avrebbe favorito un cinema bassamente romantico, senza dubbio negatore, comunque nazionalista. In Italia, indicò la strada dell'indagine spietata ma senza compiacimenti. La cronaca fornì i pretesti e, se non ad altro, il cinema servì a rivelare l'Italia agli italiani". Quando però anche i film di De Sica, Rossellini, Zavattini e compagni generarono un filone di produzioni analoghe di bassa qualità e scarsa ispirazione, Flaiano arrivò a dire che vedere certi film del neorealismo di maniera metteva a disagio quanto salire su un tram affollato. Nella visione di Flaiano, "la causa dell'enorme fortuna del cinematografo va cercata nel rifugio che ha saputo offrire al naturalismo il giorno che il teatro volle bandirlo", e il Neorealismo diventava così la naturale evoluzione, nel bene e nel male, di certi caratteri del naturalismo francese e del verismo nostrano. Parimenti sferzante era Flaiano nei confronti delle commedie di cassetta italiane, critica a cui non furono risparmiati neanche alcuni titoli di Totò: "in questa inflazione di comicità c'è forse una profonda mancanza di umorismo?".

8½ (1963)
In linea con il temperamento di Flaiano, tra gli articoli di Chiuso per noia serpeggia spesso un sentimento e una consapevolezza dei limiti del cinema, della sua ineluttabile banalità, di una crisi che perennemente aleggiava sulle produzioni. "In poco meno di quarant'anni" - scriveva Flaiano nel 1948 - "il cinema italiano è morto due volte, sempre resuscitando. Il fenomeno non sorprende ormai gli osservatori; si inserisce anzi nelle tradizioni dei grandi fenomeni nazionali che rendono co arduo capire la nostra storia". Se prima si andava a cinema, è la riflessione di Flaiano, adesso si vanno a vedere i film: "quando il medium non è più il messaggio, il medium entra in crisi". Quelle di Flaiano non sono semplici recensioni: nella loro frammentarietà, questi articoli tracciano una sostanziale critica al cinema in quanto tale, e lasciano scorgere, in filigrana, una più ampia critica di costume che ricollega questo Chiuso per noia al resto del corpus delle opere di Flaiano.