
di Mattia Pescitelli
NC-358
31.10.2025
Vedere un film di “serie B” alla Festa del Cinema di Roma è come vedere la disintegrazione di una rivoluzione in favore delle regole del mercato. Ma significa che la rivoluzione è riuscita nel suo intento o che, al contrario, è stata complice nella sconfitta dei propri valori? Sono domande che passano per la testa quando in una programmazione selezionata con cura da individui che di cinema dovrebbero conoscerne a pacchi spuntano titoli come The Toxic Avenger (2023) e Queens of the Dead (2025). Anche all'appena trascorsa Festa del Cinema, una cornice solitamente molto laccata, che vive e respira l’aria di Via Veneto e di quel cinema che non c’è più, ma che in molti vorrebbero riesumare, accomodare con la carta straccia e riportare in vita come prova che l’iconografia filmica italiana è ancora rilevante sul piano internazionale, i morti sono usciti dalle loro tombe, ma non quelle del Verano tanto auspicate. I B-movies, termine flessuoso, che vaga tra il dispregiativo e l’elogiativo a seconda della bocca che lo evoca, stanno vivendo un rinascimento inaspettato all’interno delle sale cinematografiche post-pandemiche.
La loro storia è lunga, stratificata ed estremamente legata al luogo nel quale si vuole collocare questa corrente “alternativa” del cinematografico. Di base, però, i film di serie B “nascono” più o meno a partire dagli anni Trenta, poco dopo l’arrivo del sonoro sincronizzato con le immagini in movimento. Erano considerati B-movies (anche se il termine non è contemporaneo alla sua affermazione sul mercato) tutti quei film che riutilizzavano materiali, professionisti e set già realizzati per altre pellicole ad alto budget. Era un modo come un altro (almeno per quanto riguarda il panorama statunitense) per tagliare i costi di produzione in una Hollywood a cavallo tra due guerre, martoriata dalla siccità e dalla crisi economica, in uno stato di proibizione e censura che minava la libertà assaporata dai cineasti durante il primo ventennio del XX secolo. Questi film assemblati come la creatura di Frankenstein, solitamente mediometraggi, venivano ultimati in pochissimo tempo con risorse esigue e gettati in pasto al pubblico come “seconda proiezione” inclusa nel biglietto del film di punta. Molti grandi nomi hanno partecipato a questo tipo di produzioni frenetiche, spesso provenienti dal progetto principale, quello che avrebbe attirato il pubblico in sala.

The Toxic Avenger (2023)
La pratica della doppia proiezione nasceva sempre dallo stesso contesto storico di partenza, quello degli Stati Uniti negli anni della Grande Depressione, un periodo in cui gli spettatori diminuivano sempre più, abituati non solo a uno stile di vita meno dispendioso, ma anche a proiezioni che, prima dell’avvento del sonoro, erano veri e propri spettacoli dal vivo, tra esibizioni, caroselli di cortometraggi e siparietti comici che incorniciavano il vero protagonista: il lungometraggio. Il film di serie B, quindi, è nato come trucco, come ammennicolo di un’offerta che non incontrava le richieste del pubblico pagante.
Dopo quei primi anni passati nell’ombra delle grandi produzioni, il vento cambia quando la censura allenta la morsa e i produttori iniziano a spingere sull’eccesso e sulla stravaganza, puntando alla conquista delle proiezioni di mezzanotte, durante le quali una pellicola a basso budget poteva diventare la regina dello schermo argenteo. Dalle produzioni sotto il segno di Kroger Babb, alla scuola di Roger Corman, fino ad arrivare al vangelo della Troma, i B-movies hanno scolpito le sottoculture mondiali per generazioni, valicando i confini e arrivando a influenzare quasi ogni angolo del globo con la loro esuberanza audiovisiva.
Questo sono i film di serie B: re della notte, cavalieri del nastro magnetico, internauti di prim’ordine. Spregiudicati, cavalcano l’onda del cattivo gusto fino a che non si disperde sulle coste dell’accettazione culturale. Ogni volta sono loro a fissare l’asticella e il cinema “alto” li segue a ruota, smussando dove può, impacchettando il tutto per un pubblico generalista non abituato a un’eccessiva domanda nei confronti dei suoi limiti esperienziali.

Roger Corman, uno dei maestri indiscussi del B-Movies
Quindi, cosa ci fanno questi reietti del cinematografo sullo schermo di un festival che dovrebbe stare a loro troppo stretto? La risposta ci sembrava facile: si sono ammansiti con gli anni; le regole del mercato li hanno, infine, assoggettati ed etichettati come tutto su questo pianeta. Tale ci è parso il caso di The Toxic Avenger, reboot del cult di Lloyd Kaufman e Michael Herz del 1984, volto della Troma Entertainment che pare aver perso tutta la forza espressiva dell’originale, forse per seguire un pubblico più immaturo e meno interessato all’anticonformismo d’antan, non osando mai più di quanto possa apparire consono agli occhi di una società attenta a qualsiasi fronzolo gli venga scosso davanti piuttosto che all’urlo disperato di una generazione il cui problema va molto più in profondità del braccio svisceratore di Toxie conficcato nel deretano di un teppista di strada.
Però c’è anche altro che si aggiunge alla possibile risposta al quesito di poco sopra. Si palesa un senso di reverenzialità nei confronti di un cinema emarginato e ritrovato, rinvenuto nei Blockbuster e sui CD masterizzati nei peggiori bugigattoli. I più influenti cineasti del panorama contemporaneo non hanno mai nascosto il loro amore per le produzioni underground, i grindhouse e simili. Quentin Tarantino, grande figlio di quell’ondata insolente, portò addirittura una retrospettiva da lui curata alla Biennale di Venezia del 2004 che esaltava un altro tipo di cinema di serie B, quello nostrano (tutta un’altra storia; quello sì un encefalogramma piatto).
Da oggetti iconoclasti sono diventati icone sacralizzate a loro volta; l’Anticristo che sveste il Messia e ne ricopre il ruolo. Così, una figlia d’arte come Tina Romero si ritrova sul tappeto rosso della kermesse romana. Una regista di talento che, suo malgrado, dovrà sempre fare i conti con il nome di un padre che difficilmente riuscirà a lavarsi di dosso e a fare suo. La sua presenza è forse più un inchino a chi l’ha preceduta che a lei stessa, il che rattrista e indigna, ma almeno la sua opera è stata in grado di svelare quello spiraglio di speranza tanto decantato.

Queens of the Dead (2025)
Nella sua rilettura dell’apocalisse zombie immaginata e resa celebre dal George Romero di Night of the Living Dead (La Notte dei Morti Viventi, 1968) - al quale viene tirata anche una frecciatina che ha scatenato l’ilarità generale della sala gremita - la regista costruisce un carro dissacrante e intimo alla pari delle performance drag che mette sotto i riflettori con così tanta autoironia e rispetto; non più maschera ma individualità, un po’ come aveva fatto a suo tempo The Rocky Horror Picture Show (1975), altro principe delle tenebre di celluloide. Un progetto che rielabora le qualità dei B-movies senza dimenticarsi di cosa è venuto prima, rendendo la sua esistenza un misto tra pioniere e custode di una scuola filmica che nessun mercato, catena produttiva o festival illustre riuscirà a cancellare, incatenare o domare.
Quindi, cosa ne è stato della rivoluzione? Si è riorganizzata. Qualcuno si è perso per strada, altri sono scesi a compromessi, altri ancora hanno preso le redini e ora, grazie anche alle fondamenta poste da chi è venuto prima, possono sfilare sul loro tappeto rosso sangue a testa alta, spalla a spalla con coloro che vedono nella ghettizzazione dello scomodo, dell’eccessivo e del diverso la via più facile per imporre il proprio pensiero su quello degli altri, svalutando la lettura di un cinema che può essere adombrato, ma mai messo a tacere.

Night of the Living Dead (La Notte dei Morti Viventi, 1968)
di Mattia Pescitelli
NC-358
31.10.2025
Vedere un film di “serie B” alla Festa del Cinema di Roma è come vedere la disintegrazione di una rivoluzione in favore delle regole del mercato. Ma significa che la rivoluzione è riuscita nel suo intento o che, al contrario, è stata complice nella sconfitta dei propri valori? Sono domande che passano per la testa quando in una programmazione selezionata con cura da individui che di cinema dovrebbero conoscerne a pacchi spuntano titoli come The Toxic Avenger (2023) e Queens of the Dead (2025). Anche all'appena trascorsa Festa del Cinema, una cornice solitamente molto laccata, che vive e respira l’aria di Via Veneto e di quel cinema che non c’è più, ma che in molti vorrebbero riesumare, accomodare con la carta straccia e riportare in vita come prova che l’iconografia filmica italiana è ancora rilevante sul piano internazionale, i morti sono usciti dalle loro tombe, ma non quelle del Verano tanto auspicate. I B-movies, termine flessuoso, che vaga tra il dispregiativo e l’elogiativo a seconda della bocca che lo evoca, stanno vivendo un rinascimento inaspettato all’interno delle sale cinematografiche post-pandemiche.
La loro storia è lunga, stratificata ed estremamente legata al luogo nel quale si vuole collocare questa corrente “alternativa” del cinematografico. Di base, però, i film di serie B “nascono” più o meno a partire dagli anni Trenta, poco dopo l’arrivo del sonoro sincronizzato con le immagini in movimento. Erano considerati B-movies (anche se il termine non è contemporaneo alla sua affermazione sul mercato) tutti quei film che riutilizzavano materiali, professionisti e set già realizzati per altre pellicole ad alto budget. Era un modo come un altro (almeno per quanto riguarda il panorama statunitense) per tagliare i costi di produzione in una Hollywood a cavallo tra due guerre, martoriata dalla siccità e dalla crisi economica, in uno stato di proibizione e censura che minava la libertà assaporata dai cineasti durante il primo ventennio del XX secolo. Questi film assemblati come la creatura di Frankenstein, solitamente mediometraggi, venivano ultimati in pochissimo tempo con risorse esigue e gettati in pasto al pubblico come “seconda proiezione” inclusa nel biglietto del film di punta. Molti grandi nomi hanno partecipato a questo tipo di produzioni frenetiche, spesso provenienti dal progetto principale, quello che avrebbe attirato il pubblico in sala.

The Toxic Avenger (2023)
La pratica della doppia proiezione nasceva sempre dallo stesso contesto storico di partenza, quello degli Stati Uniti negli anni della Grande Depressione, un periodo in cui gli spettatori diminuivano sempre più, abituati non solo a uno stile di vita meno dispendioso, ma anche a proiezioni che, prima dell’avvento del sonoro, erano veri e propri spettacoli dal vivo, tra esibizioni, caroselli di cortometraggi e siparietti comici che incorniciavano il vero protagonista: il lungometraggio. Il film di serie B, quindi, è nato come trucco, come ammennicolo di un’offerta che non incontrava le richieste del pubblico pagante.
Dopo quei primi anni passati nell’ombra delle grandi produzioni, il vento cambia quando la censura allenta la morsa e i produttori iniziano a spingere sull’eccesso e sulla stravaganza, puntando alla conquista delle proiezioni di mezzanotte, durante le quali una pellicola a basso budget poteva diventare la regina dello schermo argenteo. Dalle produzioni sotto il segno di Kroger Babb, alla scuola di Roger Corman, fino ad arrivare al vangelo della Troma, i B-movies hanno scolpito le sottoculture mondiali per generazioni, valicando i confini e arrivando a influenzare quasi ogni angolo del globo con la loro esuberanza audiovisiva.
Questo sono i film di serie B: re della notte, cavalieri del nastro magnetico, internauti di prim’ordine. Spregiudicati, cavalcano l’onda del cattivo gusto fino a che non si disperde sulle coste dell’accettazione culturale. Ogni volta sono loro a fissare l’asticella e il cinema “alto” li segue a ruota, smussando dove può, impacchettando il tutto per un pubblico generalista non abituato a un’eccessiva domanda nei confronti dei suoi limiti esperienziali.

Roger Corman, uno dei maestri indiscussi del B-Movies
Quindi, cosa ci fanno questi reietti del cinematografo sullo schermo di un festival che dovrebbe stare a loro troppo stretto? La risposta ci sembrava facile: si sono ammansiti con gli anni; le regole del mercato li hanno, infine, assoggettati ed etichettati come tutto su questo pianeta. Tale ci è parso il caso di The Toxic Avenger, reboot del cult di Lloyd Kaufman e Michael Herz del 1984, volto della Troma Entertainment che pare aver perso tutta la forza espressiva dell’originale, forse per seguire un pubblico più immaturo e meno interessato all’anticonformismo d’antan, non osando mai più di quanto possa apparire consono agli occhi di una società attenta a qualsiasi fronzolo gli venga scosso davanti piuttosto che all’urlo disperato di una generazione il cui problema va molto più in profondità del braccio svisceratore di Toxie conficcato nel deretano di un teppista di strada.
Però c’è anche altro che si aggiunge alla possibile risposta al quesito di poco sopra. Si palesa un senso di reverenzialità nei confronti di un cinema emarginato e ritrovato, rinvenuto nei Blockbuster e sui CD masterizzati nei peggiori bugigattoli. I più influenti cineasti del panorama contemporaneo non hanno mai nascosto il loro amore per le produzioni underground, i grindhouse e simili. Quentin Tarantino, grande figlio di quell’ondata insolente, portò addirittura una retrospettiva da lui curata alla Biennale di Venezia del 2004 che esaltava un altro tipo di cinema di serie B, quello nostrano (tutta un’altra storia; quello sì un encefalogramma piatto).
Da oggetti iconoclasti sono diventati icone sacralizzate a loro volta; l’Anticristo che sveste il Messia e ne ricopre il ruolo. Così, una figlia d’arte come Tina Romero si ritrova sul tappeto rosso della kermesse romana. Una regista di talento che, suo malgrado, dovrà sempre fare i conti con il nome di un padre che difficilmente riuscirà a lavarsi di dosso e a fare suo. La sua presenza è forse più un inchino a chi l’ha preceduta che a lei stessa, il che rattrista e indigna, ma almeno la sua opera è stata in grado di svelare quello spiraglio di speranza tanto decantato.

Queens of the Dead (2025)
Nella sua rilettura dell’apocalisse zombie immaginata e resa celebre dal George Romero di Night of the Living Dead (La Notte dei Morti Viventi, 1968) - al quale viene tirata anche una frecciatina che ha scatenato l’ilarità generale della sala gremita - la regista costruisce un carro dissacrante e intimo alla pari delle performance drag che mette sotto i riflettori con così tanta autoironia e rispetto; non più maschera ma individualità, un po’ come aveva fatto a suo tempo The Rocky Horror Picture Show (1975), altro principe delle tenebre di celluloide. Un progetto che rielabora le qualità dei B-movies senza dimenticarsi di cosa è venuto prima, rendendo la sua esistenza un misto tra pioniere e custode di una scuola filmica che nessun mercato, catena produttiva o festival illustre riuscirà a cancellare, incatenare o domare.
Quindi, cosa ne è stato della rivoluzione? Si è riorganizzata. Qualcuno si è perso per strada, altri sono scesi a compromessi, altri ancora hanno preso le redini e ora, grazie anche alle fondamenta poste da chi è venuto prima, possono sfilare sul loro tappeto rosso sangue a testa alta, spalla a spalla con coloro che vedono nella ghettizzazione dello scomodo, dell’eccessivo e del diverso la via più facile per imporre il proprio pensiero su quello degli altri, svalutando la lettura di un cinema che può essere adombrato, ma mai messo a tacere.

Night of the Living Dead (La Notte dei Morti Viventi, 1968)