
di Pavel Belli Micati
NC-356
29.10.2025
La scena che chiude il primo atto di Hedda Gabler, una delle opere più note e tarde di Henrik Ibsen, vede l’omonima protagonista, una giovane sposa appena trasferitasi in una casa che il nuovo marito non può pagare, comprendere di aver firmato la condanna a un’esistenza di debiti e sacrifici. «Per ora dovremo vivere soli soletti, Hedda», rammaricato il giovane Tesman fa alla moglie che già si annoia. «Naturalmente, per ora, non potrò più avere il domestico» replica Hedda, che apprende delle ristrettezze economiche in cui si sono tuffati, sottoscrivendo sogni ben più grandi delle loro possibilità. «Be’… Ad ogni modo, mi rimane qualcosa nell’attesa, per consolarmi», conclude, mentre accarezza le amate pistole una volta appartenute al padre, spaventando il coniuge, che le chiede di non giocare con le armi pericolose. Questo sipario sembra racchiudere lo spirito di una delle opere più discusse nella drammaturgia di fine Ottocento - la frustrazione, prodotta da una ricchezza in declino, che si confronta con una angosciante, imminente rovina.
Fin dagli albori, dal 1891 – data della prima assoluta a Monaco di Baviera - la Hedda Gabler del genio norvegese ha diviso il pubblico. Della sua eroina sono state fatte molte diagnosi: una donna isterica, una mente nevrotica, una sintomatologia depressiva, una follia manipolatrice - ma è su questa indefinibilità che Hedda esercita la sua fragile e imperitura universalità. Nel ’71, già in epoca di revisioni culturali, dunque, Pozza osservava come l’unicità del suo personaggio risiedesse nel «senso di follia che minaccia di travolgerla»: è anche per questo che il mistero del suo fascino rimane insondato, nella penombra tra follia e controllo.
La pièce in quattro atti faceva la sua comparsa in un’epoca storica che pretendeva di classificare i comportamenti umani su assetti naturalistici. Ibsen, invece, inscenava un contrasto irriducibile, tanto naturale quanto romantico - quello di un’emozione che rifiutava la logica, una teoria sul dramma borghese che era anche la sua confutazione, una tragedia d’intenti che scadeva nella sua parodia. Un’indagine e insieme ritratto di un sentimento. Tra le ambizioni velleitarie e le possibilità concrete, una sensibilità da poco acquisita drammatizzava la scomparsa di una appena perduta.

Il drammaturgo Henrik Ibsen

Cate Blanchett nei panni di Hedda Gabler
Su Hedda Gabler si sono esercitate non solo le maggiori attrici dell’ultimo secolo e mezzo, ma anche tutte quelle regie che, per ambizione, si sono confrontate con un archetipo drammaturgico tanto universale quanto originale: quello di una mente troppo brillante per la mediocrità del mondo circostante, troppo lucida per vivere solo nella follia, ma anche troppo pigra per credere davvero nelle proprie virtù. «Questa protagonista è per natura passiva», scriveva al secolo scorso Törnqvist, e questa osservazione la riprendeva Slapater, il maggior critico italiano di Ibsen. Eppure, se si fosse trattato di una condizione di passività fattasi tragedia, allora perché il personaggio di quest’opera, in tutti i suoi trattamenti, mostra una determinazione d’intenti così forte, nel dramma stesso da cui tenta di fuggire?
L’ultimo ritorno di Hedda Gabler sul grande schermo non è stato uno dei più chiacchierati, forse perciò in Italia salta la distribuzione al cinema e sbarca direttamente su Prime Video. Ma è certo materiale di discussione sulla potenza dell’aggiornamento semantico dell’eroina ante litteram. Nia DaCosta, dopo il conturbante remake dell’horror metropolitano Candyman (2021), firma una rivisitazione originale nella forma, quanto fedele alla poetica, del grande classico ibseniano. La regista newyorkese, classe ’89, di questa storia ne fa un adattamento d’epoca, scegliendo di giocare con l’ambiguità psicologica della sua eroina, una complessità che è sempre stata il terreno di prova di ogni grande diva - dalla Duse a Cate Blanchett, passando per Glenda Jackson e arrivando alla più recente revisione della cantautrice Lily Allen - da non crederci, già. La nuova Hedda, comunque, non ha bisogno di grandi introduzioni. Sappiamo così che è la figlia del compianto generale Gabler; che è appena convolata a nozze con George Tesman, e che ha organizzato una festa grandiosa - che non si può permettere - per favorire la carriera del neo-sposino, candidato alla cattedra accademica.
Se il suo pubblico ha sempre avuto difficoltà nel definire un personaggio che, per sua natura, non è né vittima né carnefice, ma che è ambiguamente entrambe le cose - pur vero è che la critica è concorde nel definire Hedda Gabler come un’opera figlia dei propri tempi, e la sua protagonista, sintesi delle mire e dei limiti che costruiscono la fine di un impero e il tramonto di una classe dirigenziale. Le abilità manipolatorie, diagnosticate nella sua tendenza al sadismo e alla frigidità, sono sempre state lette come fenomeno di una psicosi, indice di una psiche instabile: e se invece queste coordinate fossero sintomo di una vertigine più profonda? Quelle, forse, di una mente che non trova più equilibrio tra noia e paura, istinto e costume, vita e morte? Nelle parole di Alonge, Hedda oggi più che mai riecheggia come «la tragedia della lucidità in un mondo ottuso».

Candyman (2021) di Nia DaCosta
Per quanto sintomatico di una precisa epoca storica - è di una condizione identitaria ad essa legata - il lavoro di Ibsen rendeva l’epica di una sensibilità che, seppur consapevole, non si arrendeva alla propria idiosincrasia. È su questo crinale, infatti che cammina Hedda. La ragazza, preceduta dalla fama del suo nome, tenta ogni modo possibile e immaginabile, di aiutare la carriera del maritino, un ambizioso eppure mediocre intellettuale. È minacciata dal baratro finanziario sul quale si affaccia il loro matrimonio, ma soprattutto è in pericolo per il ritorno – e l’inaspettata gloria – di una vecchia fiamma, il folle e geniale Ejlert Løvborg, che costringe la giovane donna a misurarsi con l’ennesima ambizione, a filo tra disprezzo e passione che, lenta, si farà catarsi e fiasco del suo stesso disegno.
Nell’introduzione all’edizione Einaudi, Quadri sostiene che l’opera racconta di «un’umanità esaurita dal lavoro febbrile di ogni momento» - questa lettura, se rinnova le sue prerogative didattiche, la condanna anche una didascalia rappresentativa. Per quanto innumerevoli, tutti questi continui spostamenti tropici non sono mai pure operazioni autoriali, né hanno la pretesa di esplorare significati sottratti o sottesi al testo di Ibsen; semplicemente, fungono da esempi che riconfermano l’astoricità del fenomeno Hedda Gabler. Come altre eroine originali partorite dalla letteratura del tardo Ottocento, Hedda condivide, insieme ad Anna Karenina o Emma Bovary, quel contrasto tra coscienza limitata e desiderio illimitato, così come i loro stessi esiti infausti: la morte ultima come soppressione, conclusiva, di questa tensione irriducibile verso l’infinito. Ma c’è una differenza sostanziale tra la figlia del generale e altre ipostasi letterarie dell’epoca - Hedda, contrariamente alla piccolo-borghese Emma o alla tardo-aristocratica Anna, non ha aspirazioni virtuose: l’unica virtù che la muove è il puro e semplice, nudo e crudo, sfrontato desiderio di potere.
È indubbio che, anche per questa complessità di fondo, nessun altro personaggio femminile nella drammaturgia moderna abbia mai attratto così tante interpreti. Dalla divina Eleonora Duse che, al Teatro Niccolini di Firenze ne rendeva una versione tra sogno e follia alla fin de siècle, passando per l’algida e spietata interpretazione di Ingrid Bergman, nell’adattamento televisivo del ‘63, che offriva l’austerità in risposta a un’epoca dai consumi sempre più dilaganti, raggiungendo il parossismo del terrore ritratto da Glenda Jackson in Hedda (1975), per la regia di Trevor Nunn - ogni Hedda ha fatto da rispecchiamento all’epoca in cui è stata drammatizzata e restituita. Non c’è diva che non si sia confrontata con lei. Più recentemente, Ruth Wilson, Fiona Shaw e Rosamund Pike; l’ultima, l’estate passata nel West End di Londra, è stata ritratta, addirittura, da una ferita e sommessa Lily Allen che, secondo la critica, ne avrebbe condensato la sua rabbia e il narcisismo.

Glenda Jackson in Hedda (1975)
Ogni resa di Hedda, per quanto stilizzata, adattata, o ridotta - ovunque soggetta ad esame - sembra però tornare, sempre, al tentativo - estemporaneo, eppure secolare - di liberare la sua protagonista dalle strutture della tragedia in cui è costretta. Redimendo così una generica condizione femminile dal proprio tempo e insieme ricollocando l’originalità della sua condizione in un nuovo disegno, queste regie più contemporanee, se oscillano tra l’aggiornamento ricettivo di un pubblico sempre più esigente e sensibile alle programmatiche borghesi, e la fedeltà alla semantica del testo, d’altra parte non rilevano il fatto unico ed essenziale che non esiste una maniera giusta di rappresentarla; Marber ne fa un dramma minimal tra urbanità e segregazione, Nevin vi esplora la tensione tra il classicismo e la modernità, puntando all’identificazione dell’ethos con il paradigma culturale del suo pubblico. Più di recente, van Hove, al National Theatre, ha diretto una Wilson che si muove con sapienza febbrile nel territorio della follia: una Hedda come una psicosi in latenza, una Ofelia che annega nell’inespressività della sua rabbia.
È su questa eredità, sull’ambiguità di un personaggio che da oltre un secolo sfugge a ogni diagnosi, che DaCosta costruisce la sua versione filmica. Spostando la scena nella ricca campagna inglese degli anni Cinquanta, ne condensa l’azione in una sola notte: è la festa in pompa magna organizzata per facilitare il piano di carriera di George. L’ambiente è sontuoso, la scenografia barocca, le luci si fanno soffuse e i costumi stravaganti. Sono scelte, queste, che rappresentano scelte creative in merito all’estetica della morale rispecchiata dall’epoca – quella falsa emancipazione autorizzata ai soggetti femminili esclusivamente attraverso un matrimonio di convenienza, oppure per via di una fame assoluta di gloria. Fanno però da contrasto a un contesto che riconduce la tensione hegeliana, quella stessa bramosia di assoluto, a una mera prospettiva carrieristica, un’ambizione tra le altre.
Se lo studio del personaggio poi, così come la ricezione storica di Hedda, ne caratterizza, oltre che la vuotezza morale, la totale assenza di sensualità, l’interpretazione di Tessa Thompson dosa con precisione quella tensione in bilico tra attrazione e repulsione che, nel suo costante tentativo di sedurre l’altro, l’interlocutore e il pubblico, finisce invece per travolgere se stessa. La Hedda di Thompson è diversa dalle precedenti, forse per il tentativo, più elaborato, di affascinare piuttosto che presentare lo spettatore nel suo grande dissidio: quello di un’incantevole padrona di casa, circondata da ospiti insipidi.

Nella rielaborazione di DaCosta manca quella chiarezza drammaturgica che ancora il dramma borghese all’intreccio. In alcuni momenti, la linearità della storia – all’epoca in cui Ibsen lo portava in scena esso irrompeva come novità, un dramma di onore che univa ai vecchi destini mitici del femminile, una commedia nera tra costume, equivoci e azione – viene sacrificata in virtù di scelte creative che premiano più le performance che non l’esecuzione degli eventi. Ma questo è anche dovuto al trasferimento dell’ipostasi dal realismo della scena al sentimento della sua protagonista.
Figlia del Generale Gabler, moglie di Tesman, ex-amante di Lovbörg. Lei vive nel flusso delle proprie illusioni, ed è preda delle sue delusioni. Non proprio una reazione all’angoscia dei tempi rappresentati, ma piuttosto un trattamento glamour ed estenuato del sentimento che li percorre. Non più una Medea liberata, né una perfida Lady Macbeth. E neanche una Nora di Casa di Bambola rivisitata da Tennessee Williams -Hedda qui è una femme fatale. Come la Eve di Bette Davis, lei gioca tra ironia e arroganza, ipocrisia e sincerità, sensualità e distacco. DaCosta non maschera il gusto per l’estetica melò della più tarda golden age hollywoodiana, ma esplicita il suo desiderio di superare le letture più classiche di Hedda Gabler che la descrivono come un’eroina delle proprie ambizioni e vittima dei propri impulsi. La rinnovata capacità di agency qui, nell’ideazione della rovina di Lovbörg, di ostacolo alla carriera del marito, è anche e soprattutto una profonda vendetta emotiva di un conflitto irrisolto che inevitabilmente condurrà anche alla sua, di rovina.
L’aggiunta stessa di un quinto atto, oltre ai quattro originali, insieme alla recisione del grandioso, gesto costitutivo - il colpo di pistola sostituito da uno sguardo finale che guarda in camera, tra il giocondo e il perverso - sono diversioni dal modello che segnalano qui, più che una trasformazione formale, uno spostamento sul piano emotivo; il magnetismo provocante di Thompson la rende un personaggio senza età; un po’ troppo adulta per essere una giovane sposa, eppure troppo giovane per riflettere la sua natura languida nel profondo. La modifica stessa di genere del personaggio di Lovbörg in Eileen, interpretata da una fenomenale Nina Hoss, non risponde solamente alla tendenza recente di aprire narrazioni classiche a riletture queer, ma riflette anche il denouement stesso del suo dramma: il desiderio può cambiare forma, ma non mai diminuisce d’intensità, anzi - conserva la stessa, disperata e vitale tensione verso l’assoluto. È questa la chiave di lettura, più ermeneutica, che DaCosta dà all’opera di Ibsen.

Nia DaCosta e Tessa Thompson a lavoro sul set
C’è chi ha visto in questa traduzione un capriccio che indugia troppo nello stile; un esercizio che sacrificherebbe la narrazione, in virtù di una resa più spettacolare, di un effetto più ammaliante. Ma pure in quell’estetica posticcia, in quella vanità di castello costatole una fortuna, Hedda vive ancora una volta la sua vecchia farsa che, più delle precedenti, rivela il confine - sempre meno netto - tra le prerogative personali e le aspirazioni universali della sua protagonista. In definitiva, non importa tanto che questa donna piaccia o meno, così come è irrilevante se lei ami davvero suo marito o lo disprezzi - sinceramente. Così, come pure sarebbe stupido tentare di comprendere se, la rivalità con Lovbörg risulti più da una ferita passata o dal pericolo presente che la sua presenza rappresenta: in questo senso, questa sua tragedia è anche la meno esemplare. In fin dei conti, non sono i suoi vizi che ne sanciscono il fallimento; piuttosto sono le ambizioni - giuste o sbagliate che siano, non ci è dato saperlo. Ma soprattutto, in questi tempi, non ci è dato giudicarlo.
La difficoltà a lungo riservata dalla critica specialistica nel categorizzare come un classico moderno Hedda Gabler non è stata certamente alleviata dall’indolenza di un personaggio che non si mostra quasi mai per quello che è - fatta eccezione giusto per un paio di sincere manifestazioni di sdegno, sempre a occhi bassi però. Ma perché lei mente al suo pubblico, così come mente a se stessa. In fondo, Hedda è preda solo della sua intelligenza, della lucidità con cui guarda un mondo, piccolo piccolo, che tenta di resistere a un cambiamento, una valanga che presto li seppellirà tutti, proprio come quella che travolge Irena e Arnold, alla fine di Quando noi morti ci destiamo (1899), ultima opera del regista norvegese.Anche la Hedda di DaCosta attende che la calamità si abbatta su di lei, ma questa sua riduzione filmica non dà ragione della follia, bensì maschera quell’effetto di paura - quello stesso timore della fine, su cui la regista aveva elaborato il suo debutto, Little Woods (2019), che si trasforma poi nell’angoscia per la forma, sui cui esercita il suo rifacimento di Candyman—e che forse, in Hedda, raggiunge la sua piena maturità e si concede anche qualche libertà poetica.
«Dalla profondità della sua anima», scriveva Ibsen, «la decisione era salita alla luce della coscienza e la liberazione finale si prospettava con quel gesto di bellezza che aveva auspicato invano da Lovbörg ed ora attendeva vittoriosamente da sé». Da questa opera di discernimento, Nia DaCosta personalizza il ritratto di una post-eroina, più che antieroina. Un dramma unico nel suo genere e inesorabile nella sua universalità. Un’altra catartica aspirazione alla bellezza della fine, anche attraverso la distruzione. Un personaggio che, della propria discesa, lenta e inesorabile, ne fa il suo estremo, ultimo atto estetico. In quel gesto sospeso - lo sguardo enigmatico di una Thompson che sprofonda - DaCosta ripercorre tutta la storia di un’eroina della drammaturgia moderna che, per sua natura, continuerà sempre ad attirare e a respingere, confermarsi e smentirsi, farsi amare ma anche odiare. Ogni epoca l’ha reinventata, ogni interprete rivissuta e ogni sensibilità tradita. Hedda convive con la propria ombra, Hedda contro Hedda.
di Pavel Belli Micati
NC-356
29.10.2025

Il drammaturgo Henrik Ibsen
La scena che chiude il primo atto di Hedda Gabler, una delle opere più note e tarde di Henrik Ibsen, vede l’omonima protagonista, una giovane sposa appena trasferitasi in una casa che il nuovo marito non può pagare, comprendere di aver firmato la condanna a un’esistenza di debiti e sacrifici. «Per ora dovremo vivere soli soletti, Hedda», rammaricato il giovane Tesman fa alla moglie che già si annoia. «Naturalmente, per ora, non potrò più avere il domestico» replica Hedda, che apprende delle ristrettezze economiche in cui si sono tuffati, sottoscrivendo sogni ben più grandi delle loro possibilità. «Be’… Ad ogni modo, mi rimane qualcosa nell’attesa, per consolarmi», conclude, mentre accarezza le amate pistole una volta appartenute al padre, spaventando il coniuge, che le chiede di non giocare con le armi pericolose. Questo sipario sembra racchiudere lo spirito di una delle opere più discusse nella drammaturgia di fine Ottocento - la frustrazione, prodotta da una ricchezza in declino, che si confronta con una angosciante, imminente rovina.
Fin dagli albori, dal 1891 – data della prima assoluta a Monaco di Baviera - la Hedda Gabler del genio norvegese ha diviso il pubblico. Della sua eroina sono state fatte molte diagnosi: una donna isterica, una mente nevrotica, una sintomatologia depressiva, una follia manipolatrice - ma è su questa indefinibilità che Hedda esercita la sua fragile e imperitura universalità. Nel ’71, già in epoca di revisioni culturali, dunque, Pozza osservava come l’unicità del suo personaggio risiedesse nel «senso di follia che minaccia di travolgerla»: è anche per questo che il mistero del suo fascino rimane insondato, nella penombra tra follia e controllo.
La pièce in quattro atti faceva la sua comparsa in un’epoca storica che pretendeva di classificare i comportamenti umani su assetti naturalistici. Ibsen, invece, inscenava un contrasto irriducibile, tanto naturale quanto romantico - quello di un’emozione che rifiutava la logica, una teoria sul dramma borghese che era anche la sua confutazione, una tragedia d’intenti che scadeva nella sua parodia. Un’indagine e insieme ritratto di un sentimento. Tra le ambizioni velleitarie e le possibilità concrete, una sensibilità da poco acquisita drammatizzava la scomparsa di una appena perduta.

Cate Blanchett nei panni di Hedda Gabler
Su Hedda Gabler si sono esercitate non solo le maggiori attrici dell’ultimo secolo e mezzo, ma anche tutte quelle regie che, per ambizione, si sono confrontate con un archetipo drammaturgico tanto universale quanto originale: quello di una mente troppo brillante per la mediocrità del mondo circostante, troppo lucida per vivere solo nella follia, ma anche troppo pigra per credere davvero nelle proprie virtù. «Questa protagonista è per natura passiva», scriveva al secolo scorso Törnqvist, e questa osservazione la riprendeva Slapater, il maggior critico italiano di Ibsen. Eppure, se si fosse trattato di una condizione di passività fattasi tragedia, allora perché il personaggio di quest’opera, in tutti i suoi trattamenti, mostra una determinazione d’intenti così forte, nel dramma stesso da cui tenta di fuggire?
L’ultimo ritorno di Hedda Gabler sul grande schermo non è stato uno dei più chiacchierati, forse perciò in Italia salta la distribuzione al cinema e sbarca direttamente su Prime Video. Ma è certo materiale di discussione sulla potenza dell’aggiornamento semantico dell’eroina ante litteram. Nia DaCosta, dopo il conturbante remake dell’horror metropolitano Candyman (2021), firma una rivisitazione originale nella forma, quanto fedele alla poetica, del grande classico ibseniano. La regista newyorkese, classe ’89, di questa storia ne fa un adattamento d’epoca, scegliendo di giocare con l’ambiguità psicologica della sua eroina, una complessità che è sempre stata il terreno di prova di ogni grande diva - dalla Duse a Cate Blanchett, passando per Glenda Jackson e arrivando alla più recente revisione della cantautrice Lily Allen - da non crederci, già. La nuova Hedda, comunque, non ha bisogno di grandi introduzioni. Sappiamo così che è la figlia del compianto generale Gabler; che è appena convolata a nozze con George Tesman, e che ha organizzato una festa grandiosa - che non si può permettere - per favorire la carriera del neo-sposino, candidato alla cattedra accademica.
Se il suo pubblico ha sempre avuto difficoltà nel definire un personaggio che, per sua natura, non è né vittima né carnefice, ma che è ambiguamente entrambe le cose - pur vero è che la critica è concorde nel definire Hedda Gabler come un’opera figlia dei propri tempi, e la sua protagonista, sintesi delle mire e dei limiti che costruiscono la fine di un impero e il tramonto di una classe dirigenziale. Le abilità manipolatorie, diagnosticate nella sua tendenza al sadismo e alla frigidità, sono sempre state lette come fenomeno di una psicosi, indice di una psiche instabile: e se invece queste coordinate fossero sintomo di una vertigine più profonda? Quelle, forse, di una mente che non trova più equilibrio tra noia e paura, istinto e costume, vita e morte? Nelle parole di Alonge, Hedda oggi più che mai riecheggia come «la tragedia della lucidità in un mondo ottuso».

Candyman (2021) di Nia DaCosta
Per quanto sintomatico di una precisa epoca storica - è di una condizione identitaria ad essa legata - il lavoro di Ibsen rendeva l’epica di una sensibilità che, seppur consapevole, non si arrendeva alla propria idiosincrasia. È su questo crinale, infatti che cammina Hedda. La ragazza, preceduta dalla fama del suo nome, tenta ogni modo possibile e immaginabile, di aiutare la carriera del maritino, un ambizioso eppure mediocre intellettuale. È minacciata dal baratro finanziario sul quale si affaccia il loro matrimonio, ma soprattutto è in pericolo per il ritorno – e l’inaspettata gloria – di una vecchia fiamma, il folle e geniale Ejlert Løvborg, che costringe la giovane donna a misurarsi con l’ennesima ambizione, a filo tra disprezzo e passione che, lenta, si farà catarsi e fiasco del suo stesso disegno.
Nell’introduzione all’edizione Einaudi, Quadri sostiene che l’opera racconta di «un’umanità esaurita dal lavoro febbrile di ogni momento» - questa lettura, se rinnova le sue prerogative didattiche, la condanna anche una didascalia rappresentativa. Per quanto innumerevoli, tutti questi continui spostamenti tropici non sono mai pure operazioni autoriali, né hanno la pretesa di esplorare significati sottratti o sottesi al testo di Ibsen; semplicemente, fungono da esempi che riconfermano l’astoricità del fenomeno Hedda Gabler. Come altre eroine originali partorite dalla letteratura del tardo Ottocento, Hedda condivide, insieme ad Anna Karenina o Emma Bovary, quel contrasto tra coscienza limitata e desiderio illimitato, così come i loro stessi esiti infausti: la morte ultima come soppressione, conclusiva, di questa tensione irriducibile verso l’infinito. Ma c’è una differenza sostanziale tra la figlia del generale e altre ipostasi letterarie dell’epoca - Hedda, contrariamente alla piccolo-borghese Emma o alla tardo-aristocratica Anna, non ha aspirazioni virtuose: l’unica virtù che la muove è il puro e semplice, nudo e crudo, sfrontato desiderio di potere.
È indubbio che, anche per questa complessità di fondo, nessun altro personaggio femminile nella drammaturgia moderna abbia mai attratto così tante interpreti. Dalla divina Eleonora Duse che, al Teatro Niccolini di Firenze ne rendeva una versione tra sogno e follia alla fin de siècle, passando per l’algida e spietata interpretazione di Ingrid Bergman, nell’adattamento televisivo del ‘63, che offriva l’austerità in risposta a un’epoca dai consumi sempre più dilaganti, raggiungendo il parossismo del terrore ritratto da Glenda Jackson in Hedda (1975), per la regia di Trevor Nunn - ogni Hedda ha fatto da rispecchiamento all’epoca in cui è stata drammatizzata e restituita. Non c’è diva che non si sia confrontata con lei. Più recentemente, Ruth Wilson, Fiona Shaw e Rosamund Pike; l’ultima, l’estate passata nel West End di Londra, è stata ritratta, addirittura, da una ferita e sommessa Lily Allen che, secondo la critica, ne avrebbe condensato la sua rabbia e il narcisismo.

Glenda Jackson in Hedda (1975)
Ogni resa di Hedda, per quanto stilizzata, adattata, o ridotta - ovunque soggetta ad esame - sembra però tornare, sempre, al tentativo - estemporaneo, eppure secolare - di liberare la sua protagonista dalle strutture della tragedia in cui è costretta. Redimendo così una generica condizione femminile dal proprio tempo e insieme ricollocando l’originalità della sua condizione in un nuovo disegno, queste regie più contemporanee, se oscillano tra l’aggiornamento ricettivo di un pubblico sempre più esigente e sensibile alle programmatiche borghesi, e la fedeltà alla semantica del testo, d’altra parte non rilevano il fatto unico ed essenziale che non esiste una maniera giusta di rappresentarla; Marber ne fa un dramma minimal tra urbanità e segregazione, Nevin vi esplora la tensione tra il classicismo e la modernità, puntando all’identificazione dell’ethos con il paradigma culturale del suo pubblico. Più di recente, van Hove, al National Theatre, ha diretto una Wilson che si muove con sapienza febbrile nel territorio della follia: una Hedda come una psicosi in latenza, una Ofelia che annega nell’inespressività della sua rabbia.
È su questa eredità, sull’ambiguità di un personaggio che da oltre un secolo sfugge a ogni diagnosi, che DaCosta costruisce la sua versione filmica. Spostando la scena nella ricca campagna inglese degli anni Cinquanta, ne condensa l’azione in una sola notte: è la festa in pompa magna organizzata per facilitare il piano di carriera di George. L’ambiente è sontuoso, la scenografia barocca, le luci si fanno soffuse e i costumi stravaganti. Sono scelte, queste, che rappresentano scelte creative in merito all’estetica della morale rispecchiata dall’epoca – quella falsa emancipazione autorizzata ai soggetti femminili esclusivamente attraverso un matrimonio di convenienza, oppure per via di una fame assoluta di gloria. Fanno però da contrasto a un contesto che riconduce la tensione hegeliana, quella stessa bramosia di assoluto, a una mera prospettiva carrieristica, un’ambizione tra le altre.
Se lo studio del personaggio poi, così come la ricezione storica di Hedda, ne caratterizza, oltre che la vuotezza morale, la totale assenza di sensualità, l’interpretazione di Tessa Thompson dosa con precisione quella tensione in bilico tra attrazione e repulsione che, nel suo costante tentativo di sedurre l’altro, l’interlocutore e il pubblico, finisce invece per travolgere se stessa. La Hedda di Thompson è diversa dalle precedenti, forse per il tentativo, più elaborato, di affascinare piuttosto che presentare lo spettatore nel suo grande dissidio: quello di un’incantevole padrona di casa, circondata da ospiti insipidi.

Nella rielaborazione di DaCosta manca quella chiarezza drammaturgica che ancora il dramma borghese all’intreccio. In alcuni momenti, la linearità della storia – all’epoca in cui Ibsen lo portava in scena esso irrompeva come novità, un dramma di onore che univa ai vecchi destini mitici del femminile, una commedia nera tra costume, equivoci e azione – viene sacrificata in virtù di scelte creative che premiano più le performance che non l’esecuzione degli eventi. Ma questo è anche dovuto al trasferimento dell’ipostasi dal realismo della scena al sentimento della sua protagonista.
Figlia del Generale Gabler, moglie di Tesman, ex-amante di Lovbörg. Lei vive nel flusso delle proprie illusioni, ed è preda delle sue delusioni. Non proprio una reazione all’angoscia dei tempi rappresentati, ma piuttosto un trattamento glamour ed estenuato del sentimento che li percorre. Non più una Medea liberata, né una perfida Lady Macbeth. E neanche una Nora di Casa di Bambola rivisitata da Tennessee Williams -Hedda qui è una femme fatale. Come la Eve di Bette Davis, lei gioca tra ironia e arroganza, ipocrisia e sincerità, sensualità e distacco. DaCosta non maschera il gusto per l’estetica melò della più tarda golden age hollywoodiana, ma esplicita il suo desiderio di superare le letture più classiche di Hedda Gabler che la descrivono come un’eroina delle proprie ambizioni e vittima dei propri impulsi. La rinnovata capacità di agency qui, nell’ideazione della rovina di Lovbörg, di ostacolo alla carriera del marito, è anche e soprattutto una profonda vendetta emotiva di un conflitto irrisolto che inevitabilmente condurrà anche alla sua, di rovina.
L’aggiunta stessa di un quinto atto, oltre ai quattro originali, insieme alla recisione del grandioso, gesto costitutivo - il colpo di pistola sostituito da uno sguardo finale che guarda in camera, tra il giocondo e il perverso - sono diversioni dal modello che segnalano qui, più che una trasformazione formale, uno spostamento sul piano emotivo; il magnetismo provocante di Thompson la rende un personaggio senza età; un po’ troppo adulta per essere una giovane sposa, eppure troppo giovane per riflettere la sua natura languida nel profondo. La modifica stessa di genere del personaggio di Lovbörg in Eileen, interpretata da una fenomenale Nina Hoss, non risponde solamente alla tendenza recente di aprire narrazioni classiche a riletture queer, ma riflette anche il denouement stesso del suo dramma: il desiderio può cambiare forma, ma non mai diminuisce d’intensità, anzi - conserva la stessa, disperata e vitale tensione verso l’assoluto. È questa la chiave di lettura, più ermeneutica, che DaCosta dà all’opera di Ibsen.

Nia DaCosta e Tessa Thompson a lavoro sul set
C’è chi ha visto in questa traduzione un capriccio che indugia troppo nello stile; un esercizio che sacrificherebbe la narrazione, in virtù di una resa più spettacolare, di un effetto più ammaliante. Ma pure in quell’estetica posticcia, in quella vanità di castello costatole una fortuna, Hedda vive ancora una volta la sua vecchia farsa che, più delle precedenti, rivela il confine - sempre meno netto - tra le prerogative personali e le aspirazioni universali della sua protagonista. In definitiva, non importa tanto che questa donna piaccia o meno, così come è irrilevante se lei ami davvero suo marito o lo disprezzi - sinceramente. Così, come pure sarebbe stupido tentare di comprendere se, la rivalità con Lovbörg risulti più da una ferita passata o dal pericolo presente che la sua presenza rappresenta: in questo senso, questa sua tragedia è anche la meno esemplare. In fin dei conti, non sono i suoi vizi che ne sanciscono il fallimento; piuttosto sono le ambizioni - giuste o sbagliate che siano, non ci è dato saperlo. Ma soprattutto, in questi tempi, non ci è dato giudicarlo.
La difficoltà a lungo riservata dalla critica specialistica nel categorizzare come un classico moderno Hedda Gabler non è stata certamente alleviata dall’indolenza di un personaggio che non si mostra quasi mai per quello che è - fatta eccezione giusto per un paio di sincere manifestazioni di sdegno, sempre a occhi bassi però. Ma perché lei mente al suo pubblico, così come mente a se stessa. In fondo, Hedda è preda solo della sua intelligenza, della lucidità con cui guarda un mondo, piccolo piccolo, che tenta di resistere a un cambiamento, una valanga che presto li seppellirà tutti, proprio come quella che travolge Irena e Arnold, alla fine di Quando noi morti ci destiamo (1899), ultima opera del regista norvegese.Anche la Hedda di DaCosta attende che la calamità si abbatta su di lei, ma questa sua riduzione filmica non dà ragione della follia, bensì maschera quell’effetto di paura - quello stesso timore della fine, su cui la regista aveva elaborato il suo debutto, Little Woods (2019), che si trasforma poi nell’angoscia per la forma, sui cui esercita il suo rifacimento di Candyman—e che forse, in Hedda, raggiunge la sua piena maturità e si concede anche qualche libertà poetica.
«Dalla profondità della sua anima», scriveva Ibsen, «la decisione era salita alla luce della coscienza e la liberazione finale si prospettava con quel gesto di bellezza che aveva auspicato invano da Lovbörg ed ora attendeva vittoriosamente da sé». Da questa opera di discernimento, Nia DaCosta personalizza il ritratto di una post-eroina, più che antieroina. Un dramma unico nel suo genere e inesorabile nella sua universalità. Un’altra catartica aspirazione alla bellezza della fine, anche attraverso la distruzione. Un personaggio che, della propria discesa, lenta e inesorabile, ne fa il suo estremo, ultimo atto estetico. In quel gesto sospeso - lo sguardo enigmatico di una Thompson che sprofonda - DaCosta ripercorre tutta la storia di un’eroina della drammaturgia moderna che, per sua natura, continuerà sempre ad attirare e a respingere, confermarsi e smentirsi, farsi amare ma anche odiare. Ogni epoca l’ha reinventata, ogni interprete rivissuta e ogni sensibilità tradita. Hedda convive con la propria ombra, Hedda contro Hedda.