di Martina Di Gesu
NC-254
26.11.2024
Sono più di centocinquanta i film in cui Marcello Mastroianni ha recitato, e già cento gli anni trascorsi da quando l’Italia ha dato i natali ad un attore amato e riconosciuto a livello internazionale. È quasi una figura paradossale: in un Paese colmo di frenesie esibizionistiche, egli, privo di eccessi ma carismatico, elegante ed ironico, ha diffuso nel resto del mondo una certa idea di italianità, fatta di cuore e noncuranza. Accolto e richiamato dal cinema come da una penna alla sua mano, Mastroianni ha dimostrato di saper essere un interprete versatile, aderendo ai suoi personaggi pur riuscendo ad osservarli con distacco.
Nato a Fontana Liri in provincia di Frosinone il 28 settembre 1924, Marcello si stabilisce con la famiglia a Roma nel 1933. Dopo il debutto all’età di 15 anni, come comparsa in Marionette (1939) di Carmine Gallone e pochi anni dopo in I bambini ci guardano (1943) di Vittorio De Sica, ottiene il suo primo, minuscolo, ruolo nel 1948 in I miserabili di Riccardo Freda: un primo piano e una breve scena in cui crolla a terra sotto i colpi di un plotone sono sufficienti per avviare quella che sarà una prolifica carriera cinematografica.
Nella prima metà degli anni Cinquanta, Marcello Mastroianni si autodetermina secondo gli schemi del cinema italiano del periodo: faccia pulita e classico bravo ragazzo, il perfetto interprete di film come Domenica d’agosto (1950) o Le ragazze di Piazza di Spagna (1952), entrambi diretti da Luciano Emmer. La sua recitazione, ancora molto acerba e in piena fase di sperimentazione, comincia a delinearsi qualche anno più tardi, a partire dalla pellicola che segna l’inizio della collaborazione con Sophia Loren. Peccato che sia una canaglia (1956) di Alessandro Blasetti è un lungometraggio decisivo: lancia la costruzione del duo Loren-Mastroianni, formula d’oro del cinema italiano. Lui è il tassista sempliciotto; lei la figura rivoluzionaria che, muovendosi in un mondo esclusivamente maschile, fa di Mastroianni, tra i tanti sguardi, quello più interessante.
Ancora lontano dall’immagine con cui il pubblico lo riconoscerà, in Peccato che sia una canaglia egli è trascurato e disinteressato: camicie dai colletti storti e cinture che pendono dai pantaloni. Un mutamento si delinea invece in Il bigamo (1956), sempre diretto da Luciano Emmer (figura centrale nei primi anni di carriera dell’attore), il cui protagonista è privo di copricapi e ingombranti divise. Emerge un nuovo modello maschile, figlio del consumo di massa, lontano dalla figura dell’umile e ingenuo tassista di Le ragazze di Piazza di Spagna e Peccato che sia una canaglia.
È però in La fortuna di essere donna (1956) di Alessandro Blasetti che si cominciano ad intravedere, nei dettagli, i suoi tratti “tipici”: come la sigaretta poggiata sulle labbra o l’atto di sistemare accuratamente i polsini della camicia. L’incipit, con la schiera di fotografi pronti ad immortalare l’arrivo della diva, appare come una rivelazione e non può che richiamare alla mente la celebre sequenza dell’arrivo di Anita Ekberg in La dolce vita (1960). Pochi anni dopo, proprio nel capolavoro felliniano, Mastroianni non sarà più il voyeur che tenta di richiamare a sé tutta la desiderabilità femminile, ma celerà il suo sguardo: filtrato qui dagli apparecchi fotografici, mentre nell’immortale opera di Federico Fellini dalla famosa montatura scura Persol.
Prima di girare La dolce vita, che all’interno della sua carriera rappresenta un punto di non ritorno da cui dipenderanno le scelte successive, Mastroianni realizza i primi prodotti che lo rendono già ampiamente famoso: Le notti bianche (1957) di Luchino Visconti e I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli. I suoi personaggi evolvono, integrando sfumature e ambiguità fino ad allora ignorate. In ogni caso è con La dolce vita che egli esplora modalità recitative del tutto inconsuete, l’antieroe sullo sfondo della città eterna è un uomo affascinante e sofisticato, contemporaneamente inquieto e disilluso. Se prima Mastroianni era solo sguardo, adesso questo si è potenziato: è sia eterno osservatore che autentica appetibilità. La sua figura seducente ma malinconica, rappresenta perfettamente la crisi dell’uomo moderno. La sua incapacità di scegliere un'esistenza, che sia di dissolutezza o di impegno intellettuale, lo condanna ad una “dolce vita” che tutto è tranne che dolce.
Il film segna l’inizio dell’alchimia creativa con Federico Fellini, con il quale realizza, tra i numerosi capolavori, 8½ (1963). Sono queste le pellicole che lo proiettano in una dimensione di successo internazionale. Nelle mani di Fellini, Mastroianni viene scolpito come suo alter ego, tanto da spingere il regista a dire: «Mastroianni sono io». Ancora oggi l’immagine dell’attore viene plasmata sull’ideale calco di Marcello Rubini, fondando il mito del Latin Lover, contro il quale l’attore si è lungamente scontrato. Il trionfo del giornalista romano, sullo schermo e sulla pelle del suo interprete, è pertanto sia un privilegio che una condanna. Dal momento in cui l’immagine di Rubini coincide con quella di Mastroianni, l’attore diventa corpo-citazione, una materia in cui pubblico e privato non si distinguono più. Gli occhiali, la sigaretta e l’abito nero diventano una metonimia, un simbolo stilizzato, una figura riconoscibilissima.
A partire da questo momento, il percorso dell’attore si distingue per la riproposizione di epoche passate e di richiami reiterati a questo film, in quello che sembra un luogo comune della nostalgia. Uno dei casi più eclatanti è C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola, in cui l’incontro tra Antonio (Nino Manfredi) e Luciana (Stefania Sandrelli) avviene volutamente nei pressi della Fontana di Trevi, all’interno di un set dove vi sono Marcello Mastroianni e Federico Fellini. L’attore è intento a parlare con Luciana ma è pressoché muto perché la voce è sovrastata dal rumore attorno. Non fa praticamente nulla, si limita solo a confermare il suo legame con Marcello Rubini, stando di fronte alla Fontana e indossando gli occhiali Persol, eppure questo basta perché venga immediatamente riconosciuto da Antonio, all’opposto del regista che viene scambiato da un colonnello per Roberto Rossellini.
Trevi torna anche in Stanno tutti bene (1990) di Giuseppe Tornatore, stavolta senz’acqua e circondata da fotografi e operatori, in questo caso la Fontana è però privata del suo tratto seducente e accoglie l’attore ormai anziano. Se in Scola si ha una visione corale e gioiosa, in cui Mastroianni è al centro del meccanismo vitale; in Tornatore la visione è opprimente e nostalgica: l’attore si trova in mezzo a una folla muta ed è l’unica fonte di legame con quel luogo.
Dalla filmografia successiva a La dolce vita, è evidente la scelta, da parte dell’attore, di ruoli che hanno lo scopo di demolire l’immagine della falsa narrazione da seduttore. Ad ogni modo, più Mastroianni tenta di togliersi di dosso questa iconografia, più questa gli aderisce prepotentemente. Lo stesso Fellini smonta questo suo tentativo, giocando con l’affermazione del divo in Block notes di un regista (1969): «riprendilo qui davanti, è il Latin Lover». La commedia nera sul delitto d’onore, Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi, consolida la fama internazionale di Marcello, e rappresenta un tentativo riuscito di dimostrazione della sua malleabile capacità recitativa. Neanche il tic del barone Cefalù - inventato dallo stesso attore - gli permette di far dimenticare la detestata nomina di ruba cuori, e neppure l’aperto disinteresse del suo personaggio alla proiezione in paese proprio de La dolce vita.
Del 1961 è anche La notte di Michelangelo Antonioni, che offre una riflessione sul vuoto della vita borghese e sull’impossibilità di un’autentica connessione tra gli individui. Mastroianni si muove attraverso piccoli gesti e lunghi silenzi, la sua interpretazione sottile e delicata rende Giovanni, il protagonista, un uomo ordinario ma fortemente disorientato. In chiave mesta e articolata, egli finisce per confermare gli elementi tipici di quella figura da uomo affascinante che lo hanno reso celebre. Tanto meno se ne allontana in 8½ : nell’esistenza del regista Guido Anselmi si fa largo una crisi esistenziale e creativa dove l’attore fa trasparire un fascino che travalica le smanie del personaggio.
La sua presenza scenica è magnetica come la fantasia che Guido usa per sfuggire alla realtà. Rubini e Anselmi sono due uomini in crisi in un’epoca di cambiamenti: il primo però si perde nella superficialità del mondo esterno, il secondo nelle profondità della sua mente. Sono personaggi complessi ma magistralmente interpretati da un Mastroianni che non perde neanche qui la sua fisicità e ironia disincantata, rafforzando il fascino dell’amante latino.
É proprio in questo periodo che l’attore inaugura una prolifica collaborazione con Vittorio De Sica - l’ormai rispettato maestro che aveva già, brevemente, incontrato vent’anni prima sul set de I bambini ci guardano. Il primo, grande, risultato di questa “unione artistica” è segnato da un’opera cardine del cinema italiano: l’episodico Ieri, oggi, domani (1963), in coppia con la fedele Sophia Loren. Il regista lavora in una direzione opposta all’affermata aura divistica di Mastroianni e presenta tre personaggi maschili inetti: nel primo (Adelina) è un uomo incapace di gestire un’eredità, nel secondo (Anna) è un intellettuale sul lastrico, mentre nel terzo (Mara) è un goffo bolognese dai modi infantili, morbosamente attaccato alla figura paterna.
Diverso, invece, è il Domenico Soriano di Matrimonio all’italiana (1964), un personaggio perennemente in bilico tra fascino superficiale e mancanza di profondità emotiva. E infine vi è Antonio, il soldato segnato dalla guerra de I girasoli (1970) - ultimo film del sodalizio Loren-Mastroianni-De Sica - che conferma la dedizione dell’attore nell’interpretare personaggi tormentati ma, allo stesso tempo, profondamente umani. Il periodo degli anni Settanta è caratterizzato da un’attività prolifica per la coppia Loren-Mastroianni e si concretizza in pellicole dalle tematiche estremamente delicate. Eccelle, tra questi, il dramma ambientato nell’era fascista Una giornata particolare (1977) di Ettore Scola, i cui protagonisti sono entrambi dei reclusi, isolati da un società estremista e patriarcale a causa della loro “diversità”, di donna e di omosessuale.
Antonietta e Gabriele sono gli unici due inquilini rimasti all’interno del Palazzo Federici di Roma. La solitudine di quella giornata li avvicina, e permette a entrambi di mettere a nudo le loro fragilità. Sono due personalità agli antipodi: lei, donna radicata alla vita monotona di madre, moglie e casalinga, dal corpo magro e dagli abiti malconci; lui, uomo colto e dai modi eleganti, allontanato dal lavoro di annunciatore radiofonico dell’EIAR per via delle sue tendenze sessuali. La chimica dei due attori è qui rinnovata ma declinata in modo più intimo. Particolarmente struggente è proprio Mastroianni che, creando una distanza dai ruoli precedenti e abbandonando il donnaiolo sicuro di sé, diventa un uomo dolce e fragile. Costretto a vivere nell’ombra, non perde la sua umanità che è prima di tutto nell’attore e poi nel personaggio. Egli regala un ritratto profondo che sfida gli stereotipi maschili dell’immaginario culturale dell’epoca.
Marcello Mastroianni si è posto al servizio di un cinema che ha saputo accoglierlo in ogni fase della sua vita. Dalla fine degli anni Settanta fino agli inizi degli anni Ottanta, il suo corpo si presta a una riscrittura che gioca sulla senilità e il decadimento. L’invecchiamento precoce in Ciao Maschio (1978), di Marco Ferreri, si trasforma nella fissazione di personaggi ossessionati dal ricordo delle loro versioni giovanili. In La terrazza (1980), di Ettore Scola, Mastroianni è Luigi, un cinquantenne che va per la sessantina e che non riesce ad accettare gli evidenti cambiamenti fisici che coincidono anche con il mutamento nella gestione dei rapporti interpersonali.
Mentre in Ginger e Fred (1986), di Federico Fellini, l’attore interpreta il ballerino anziano e stempiato Pippo Botticella, e la magrezza che un tempo era segno di vigore giovanile adesso diventa simbolo di deperimento. Fellini tenta di riproporre un personaggio fuori dal tempo, riconducibile al Mastroianni di Rubini ma in Ginger e Fred ciò che si vede è esclusivamente la piena rappresentazione dell’invecchiamento maschile e la vitalità in relazione con l’altro sesso incarnato da Amelia, personaggio interpretato da Giulietta Masina.
Ancora in Prêt-à-Porter (1994) di Robert Altman, Mastroianni appare visibilmente invecchiato e chiude definitivamente la lunga e feconda collaborazione con Sophia Loren. Nel momento fatale di incontro con Sophia, Mastroianni indossa ancora una volta gli stessi Persol, indispensabili come una maschera. Si esorcizza il rifacimento giocoso della sequenza dello spogliarello di Ieri, oggi, domani: «vai sul letto, non ti ricordi più?», dice Isabella a Sergio, ma in realtà è come se lo dicesse a Mastroianni stesso.
«Marcello come here», asserisce Anita Ekberg tra gli scrosci d’acqua della Fontana di Trevi e così lo si ricorda nell’immaginario collettivo, indissolubilmente legato a quella Fontana che, il giorno della sua morte, nel 1996, si è spenta in suo onore per sottolineare la memoria di un incontro che mai sarà dimenticato, così come il patrimonio di sensibilità umana che Marcello Mastroianni ha lasciato dietro di sé. Grazie alla sua straordinaria capacità di incarnare le contraddizioni dell’uomo moderno, quest’anno, a cento anni dalla sua nascita, l'attore è stato celebrato durante la diciannovesima edizione della Festa del Cinema di Roma.
Più di tutti il suo spirito aleggia nella figlia Chiara Mastroianni - avuta con Catherine Deneuve - in Marcello mio (2024) di Christophe Honoré. Chiara vede il riflesso del volto di suo padre nella Fontana di Trevi che di nuovo ritorna come un cimelio, a chiudere un cerchio in un luogo di memoria e celebrazione. In una citazione felliniana, Chiara onora il padre indossando la parrucca e gli abiti maschili: passando dal regista confuso di 8½, al frac di Pippo di Ginger e Fred e all’inconfondibile Marcello Rubini de La dolce vita. Una figlia che incarna le maschere con la stessa disinvolta leggerezza che caratterizzava suo padre.
Marcello Mastroianni è tra gli interpreti italiani ad aver ricevuto più riconoscimenti a livello mondiale: un Golden Globe, il César onorario, due Coppe Volpi e il premio alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia, due premi come miglior interprete maschile al Festival di Cannes e tre candidature agli Oscar.
È stato divo suo malgrado, fortemente attaccato alla vita quotidiana e lontana dai riflettori, ha dovuto scontare le numerose allegorie che gli sono state cucite addosso. L’attore stesso nel documentario - considerato il suo testamento spirituale - Mi ricordo, sì, io mi ricordo (2006) di Anna Maria Tatò, dichiara: «A me l’aspetto fisico mi ha sempre disturbato. Al quale si è poi aggiunto questo ridicolo titolo di Latin Lover, in cui non mi riconosco per niente. E che per di più è anche un limite: perché se ho un incontro, un’avventura, ci si aspetta dal famoso Latin Lover chissà quali prestazioni eccezionali. Io invece sono sempre stato un uomo assolutamente normale, anche nelle mie prestazioni».
Tale osservazione si è davvero verificata in Il bell’Antonio (1960) di Mauro Bolognini, un film coetaneo a La dolce vita, in cui Mastroianni interpreta un giovane siciliano che incarna l’archetipo dell’uomo attraente e desiderato. Tuttavia dopo il matrimonio con Barbara (Claudia Cardinale), egli si rivela impotente. Questa “debolezza” lo porta verso una condizione di disagio e umiliazione a causa delle pressioni sociali che gli gravano addosso in quanto uomo. In questo lungometraggio si gioca sulla biforcazione tra apparenza e realtà, se da un lato si conferma il ruolo del Latin Lover filtrato attraverso lo sguardo altrui, dall’altro emerge un uomo intrappolato in delle convenzioni che fanno emergere tutte le sue volubilità.
È un personaggio che dimostra, ancora una volta, come Mastroianni sia propriamente l’attore delle problematicità della vita: lui che ha avuto la capacità di renderle intrinseche anche sul grande schermo, come sono nella quotidianità. La difficoltà, dunque, di separarsi da quell’aura divistica deriva dal fatto che, perfino quando ha esplorato i ruoli più eterogenei, Marcello Mastroianni rimane l’emblema di una mascolinità affascinante, mai completamente privata del suo appeal seduttivo. A ben guardare, questo aspetto non ha molto a che vedere con il lato estetico bensì con il suo anticonformismo, il suo affidarsi totalmente a chi lo dirigeva e la sua profonda introspezione. Egli ha fatto suoi tanti uomini, equipaggiandoli di una bellezza altra da sé, e questo non diminuisce la potenza delle sue performance, anzi, le rende esclusive e indimenticabili.
di Martina Di Gesu
NC-254
26.11.2024
Sono più di centocinquanta i film in cui Marcello Mastroianni ha recitato, e già cento gli anni trascorsi da quando l’Italia ha dato i natali ad un attore amato e riconosciuto a livello internazionale. È quasi una figura paradossale: in un Paese colmo di frenesie esibizionistiche, egli, privo di eccessi ma carismatico, elegante ed ironico, ha diffuso nel resto del mondo una certa idea di italianità, fatta di cuore e noncuranza. Accolto e richiamato dal cinema come da una penna alla sua mano, Mastroianni ha dimostrato di saper essere un interprete versatile, aderendo ai suoi personaggi pur riuscendo ad osservarli con distacco.
Nato a Fontana Liri in provincia di Frosinone il 28 settembre 1924, Marcello si stabilisce con la famiglia a Roma nel 1933. Dopo il debutto all’età di 15 anni, come comparsa in Marionette (1939) di Carmine Gallone e pochi anni dopo in I bambini ci guardano (1943) di Vittorio De Sica, ottiene il suo primo, minuscolo, ruolo nel 1948 in I miserabili di Riccardo Freda: un primo piano e una breve scena in cui crolla a terra sotto i colpi di un plotone sono sufficienti per avviare quella che sarà una prolifica carriera cinematografica.
Nella prima metà degli anni Cinquanta, Marcello Mastroianni si autodetermina secondo gli schemi del cinema italiano del periodo: faccia pulita e classico bravo ragazzo, il perfetto interprete di film come Domenica d’agosto (1950) o Le ragazze di Piazza di Spagna (1952), entrambi diretti da Luciano Emmer. La sua recitazione, ancora molto acerba e in piena fase di sperimentazione, comincia a delinearsi qualche anno più tardi, a partire dalla pellicola che segna l’inizio della collaborazione con Sophia Loren. Peccato che sia una canaglia (1956) di Alessandro Blasetti è un lungometraggio decisivo: lancia la costruzione del duo Loren-Mastroianni, formula d’oro del cinema italiano. Lui è il tassista sempliciotto; lei la figura rivoluzionaria che, muovendosi in un mondo esclusivamente maschile, fa di Mastroianni, tra i tanti sguardi, quello più interessante.
Ancora lontano dall’immagine con cui il pubblico lo riconoscerà, in Peccato che sia una canaglia egli è trascurato e disinteressato: camicie dai colletti storti e cinture che pendono dai pantaloni. Un mutamento si delinea invece in Il bigamo (1956), sempre diretto da Luciano Emmer (figura centrale nei primi anni di carriera dell’attore), il cui protagonista è privo di copricapi e ingombranti divise. Emerge un nuovo modello maschile, figlio del consumo di massa, lontano dalla figura dell’umile e ingenuo tassista di Le ragazze di Piazza di Spagna e Peccato che sia una canaglia.
È però in La fortuna di essere donna (1956) di Alessandro Blasetti che si cominciano ad intravedere, nei dettagli, i suoi tratti “tipici”: come la sigaretta poggiata sulle labbra o l’atto di sistemare accuratamente i polsini della camicia. L’incipit, con la schiera di fotografi pronti ad immortalare l’arrivo della diva, appare come una rivelazione e non può che richiamare alla mente la celebre sequenza dell’arrivo di Anita Ekberg in La dolce vita (1960). Pochi anni dopo, proprio nel capolavoro felliniano, Mastroianni non sarà più il voyeur che tenta di richiamare a sé tutta la desiderabilità femminile, ma celerà il suo sguardo: filtrato qui dagli apparecchi fotografici, mentre nell’immortale opera di Federico Fellini dalla famosa montatura scura Persol.
Prima di girare La dolce vita, che all’interno della sua carriera rappresenta un punto di non ritorno da cui dipenderanno le scelte successive, Mastroianni realizza i primi prodotti che lo rendono già ampiamente famoso: Le notti bianche (1957) di Luchino Visconti e I soliti ignoti (1958) di Mario Monicelli. I suoi personaggi evolvono, integrando sfumature e ambiguità fino ad allora ignorate. In ogni caso è con La dolce vita che egli esplora modalità recitative del tutto inconsuete, l’antieroe sullo sfondo della città eterna è un uomo affascinante e sofisticato, contemporaneamente inquieto e disilluso. Se prima Mastroianni era solo sguardo, adesso questo si è potenziato: è sia eterno osservatore che autentica appetibilità. La sua figura seducente ma malinconica, rappresenta perfettamente la crisi dell’uomo moderno. La sua incapacità di scegliere un'esistenza, che sia di dissolutezza o di impegno intellettuale, lo condanna ad una “dolce vita” che tutto è tranne che dolce.
Il film segna l’inizio dell’alchimia creativa con Federico Fellini, con il quale realizza, tra i numerosi capolavori, 8½ (1963). Sono queste le pellicole che lo proiettano in una dimensione di successo internazionale. Nelle mani di Fellini, Mastroianni viene scolpito come suo alter ego, tanto da spingere il regista a dire: «Mastroianni sono io». Ancora oggi l’immagine dell’attore viene plasmata sull’ideale calco di Marcello Rubini, fondando il mito del Latin Lover, contro il quale l’attore si è lungamente scontrato. Il trionfo del giornalista romano, sullo schermo e sulla pelle del suo interprete, è pertanto sia un privilegio che una condanna. Dal momento in cui l’immagine di Rubini coincide con quella di Mastroianni, l’attore diventa corpo-citazione, una materia in cui pubblico e privato non si distinguono più. Gli occhiali, la sigaretta e l’abito nero diventano una metonimia, un simbolo stilizzato, una figura riconoscibilissima.
A partire da questo momento, il percorso dell’attore si distingue per la riproposizione di epoche passate e di richiami reiterati a questo film, in quello che sembra un luogo comune della nostalgia. Uno dei casi più eclatanti è C’eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola, in cui l’incontro tra Antonio (Nino Manfredi) e Luciana (Stefania Sandrelli) avviene volutamente nei pressi della Fontana di Trevi, all’interno di un set dove vi sono Marcello Mastroianni e Federico Fellini. L’attore è intento a parlare con Luciana ma è pressoché muto perché la voce è sovrastata dal rumore attorno. Non fa praticamente nulla, si limita solo a confermare il suo legame con Marcello Rubini, stando di fronte alla Fontana e indossando gli occhiali Persol, eppure questo basta perché venga immediatamente riconosciuto da Antonio, all’opposto del regista che viene scambiato da un colonnello per Roberto Rossellini.
Trevi torna anche in Stanno tutti bene (1990) di Giuseppe Tornatore, stavolta senz’acqua e circondata da fotografi e operatori, in questo caso la Fontana è però privata del suo tratto seducente e accoglie l’attore ormai anziano. Se in Scola si ha una visione corale e gioiosa, in cui Mastroianni è al centro del meccanismo vitale; in Tornatore la visione è opprimente e nostalgica: l’attore si trova in mezzo a una folla muta ed è l’unica fonte di legame con quel luogo.
Dalla filmografia successiva a La dolce vita, è evidente la scelta, da parte dell’attore, di ruoli che hanno lo scopo di demolire l’immagine della falsa narrazione da seduttore. Ad ogni modo, più Mastroianni tenta di togliersi di dosso questa iconografia, più questa gli aderisce prepotentemente. Lo stesso Fellini smonta questo suo tentativo, giocando con l’affermazione del divo in Block notes di un regista (1969): «riprendilo qui davanti, è il Latin Lover». La commedia nera sul delitto d’onore, Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi, consolida la fama internazionale di Marcello, e rappresenta un tentativo riuscito di dimostrazione della sua malleabile capacità recitativa. Neanche il tic del barone Cefalù - inventato dallo stesso attore - gli permette di far dimenticare la detestata nomina di ruba cuori, e neppure l’aperto disinteresse del suo personaggio alla proiezione in paese proprio de La dolce vita.
Del 1961 è anche La notte di Michelangelo Antonioni, che offre una riflessione sul vuoto della vita borghese e sull’impossibilità di un’autentica connessione tra gli individui. Mastroianni si muove attraverso piccoli gesti e lunghi silenzi, la sua interpretazione sottile e delicata rende Giovanni, il protagonista, un uomo ordinario ma fortemente disorientato. In chiave mesta e articolata, egli finisce per confermare gli elementi tipici di quella figura da uomo affascinante che lo hanno reso celebre. Tanto meno se ne allontana in 8½ : nell’esistenza del regista Guido Anselmi si fa largo una crisi esistenziale e creativa dove l’attore fa trasparire un fascino che travalica le smanie del personaggio.
La sua presenza scenica è magnetica come la fantasia che Guido usa per sfuggire alla realtà. Rubini e Anselmi sono due uomini in crisi in un’epoca di cambiamenti: il primo però si perde nella superficialità del mondo esterno, il secondo nelle profondità della sua mente. Sono personaggi complessi ma magistralmente interpretati da un Mastroianni che non perde neanche qui la sua fisicità e ironia disincantata, rafforzando il fascino dell’amante latino.
É proprio in questo periodo che l’attore inaugura una prolifica collaborazione con Vittorio De Sica - l’ormai rispettato maestro che aveva già, brevemente, incontrato vent’anni prima sul set de I bambini ci guardano. Il primo, grande, risultato di questa “unione artistica” è segnato da un’opera cardine del cinema italiano: l’episodico Ieri, oggi, domani (1963), in coppia con la fedele Sophia Loren. Il regista lavora in una direzione opposta all’affermata aura divistica di Mastroianni e presenta tre personaggi maschili inetti: nel primo (Adelina) è un uomo incapace di gestire un’eredità, nel secondo (Anna) è un intellettuale sul lastrico, mentre nel terzo (Mara) è un goffo bolognese dai modi infantili, morbosamente attaccato alla figura paterna.
Diverso, invece, è il Domenico Soriano di Matrimonio all’italiana (1964), un personaggio perennemente in bilico tra fascino superficiale e mancanza di profondità emotiva. E infine vi è Antonio, il soldato segnato dalla guerra de I girasoli (1970) - ultimo film del sodalizio Loren-Mastroianni-De Sica - che conferma la dedizione dell’attore nell’interpretare personaggi tormentati ma, allo stesso tempo, profondamente umani. Il periodo degli anni Settanta è caratterizzato da un’attività prolifica per la coppia Loren-Mastroianni e si concretizza in pellicole dalle tematiche estremamente delicate. Eccelle, tra questi, il dramma ambientato nell’era fascista Una giornata particolare (1977) di Ettore Scola, i cui protagonisti sono entrambi dei reclusi, isolati da un società estremista e patriarcale a causa della loro “diversità”, di donna e di omosessuale.
Antonietta e Gabriele sono gli unici due inquilini rimasti all’interno del Palazzo Federici di Roma. La solitudine di quella giornata li avvicina, e permette a entrambi di mettere a nudo le loro fragilità. Sono due personalità agli antipodi: lei, donna radicata alla vita monotona di madre, moglie e casalinga, dal corpo magro e dagli abiti malconci; lui, uomo colto e dai modi eleganti, allontanato dal lavoro di annunciatore radiofonico dell’EIAR per via delle sue tendenze sessuali. La chimica dei due attori è qui rinnovata ma declinata in modo più intimo. Particolarmente struggente è proprio Mastroianni che, creando una distanza dai ruoli precedenti e abbandonando il donnaiolo sicuro di sé, diventa un uomo dolce e fragile. Costretto a vivere nell’ombra, non perde la sua umanità che è prima di tutto nell’attore e poi nel personaggio. Egli regala un ritratto profondo che sfida gli stereotipi maschili dell’immaginario culturale dell’epoca.
Marcello Mastroianni si è posto al servizio di un cinema che ha saputo accoglierlo in ogni fase della sua vita. Dalla fine degli anni Settanta fino agli inizi degli anni Ottanta, il suo corpo si presta a una riscrittura che gioca sulla senilità e il decadimento. L’invecchiamento precoce in Ciao Maschio (1978), di Marco Ferreri, si trasforma nella fissazione di personaggi ossessionati dal ricordo delle loro versioni giovanili. In La terrazza (1980), di Ettore Scola, Mastroianni è Luigi, un cinquantenne che va per la sessantina e che non riesce ad accettare gli evidenti cambiamenti fisici che coincidono anche con il mutamento nella gestione dei rapporti interpersonali.
Mentre in Ginger e Fred (1986), di Federico Fellini, l’attore interpreta il ballerino anziano e stempiato Pippo Botticella, e la magrezza che un tempo era segno di vigore giovanile adesso diventa simbolo di deperimento. Fellini tenta di riproporre un personaggio fuori dal tempo, riconducibile al Mastroianni di Rubini ma in Ginger e Fred ciò che si vede è esclusivamente la piena rappresentazione dell’invecchiamento maschile e la vitalità in relazione con l’altro sesso incarnato da Amelia, personaggio interpretato da Giulietta Masina.
Ancora in Prêt-à-Porter (1994) di Robert Altman, Mastroianni appare visibilmente invecchiato e chiude definitivamente la lunga e feconda collaborazione con Sophia Loren. Nel momento fatale di incontro con Sophia, Mastroianni indossa ancora una volta gli stessi Persol, indispensabili come una maschera. Si esorcizza il rifacimento giocoso della sequenza dello spogliarello di Ieri, oggi, domani: «vai sul letto, non ti ricordi più?», dice Isabella a Sergio, ma in realtà è come se lo dicesse a Mastroianni stesso.
«Marcello come here», asserisce Anita Ekberg tra gli scrosci d’acqua della Fontana di Trevi e così lo si ricorda nell’immaginario collettivo, indissolubilmente legato a quella Fontana che, il giorno della sua morte, nel 1996, si è spenta in suo onore per sottolineare la memoria di un incontro che mai sarà dimenticato, così come il patrimonio di sensibilità umana che Marcello Mastroianni ha lasciato dietro di sé. Grazie alla sua straordinaria capacità di incarnare le contraddizioni dell’uomo moderno, quest’anno, a cento anni dalla sua nascita, l'attore è stato celebrato durante la diciannovesima edizione della Festa del Cinema di Roma.
Più di tutti il suo spirito aleggia nella figlia Chiara Mastroianni - avuta con Catherine Deneuve - in Marcello mio (2024) di Christophe Honoré. Chiara vede il riflesso del volto di suo padre nella Fontana di Trevi che di nuovo ritorna come un cimelio, a chiudere un cerchio in un luogo di memoria e celebrazione. In una citazione felliniana, Chiara onora il padre indossando la parrucca e gli abiti maschili: passando dal regista confuso di 8½, al frac di Pippo di Ginger e Fred e all’inconfondibile Marcello Rubini de La dolce vita. Una figlia che incarna le maschere con la stessa disinvolta leggerezza che caratterizzava suo padre.
Marcello Mastroianni è tra gli interpreti italiani ad aver ricevuto più riconoscimenti a livello mondiale: un Golden Globe, il César onorario, due Coppe Volpi e il premio alla carriera alla Mostra del Cinema di Venezia, due premi come miglior interprete maschile al Festival di Cannes e tre candidature agli Oscar.
È stato divo suo malgrado, fortemente attaccato alla vita quotidiana e lontana dai riflettori, ha dovuto scontare le numerose allegorie che gli sono state cucite addosso. L’attore stesso nel documentario - considerato il suo testamento spirituale - Mi ricordo, sì, io mi ricordo (2006) di Anna Maria Tatò, dichiara: «A me l’aspetto fisico mi ha sempre disturbato. Al quale si è poi aggiunto questo ridicolo titolo di Latin Lover, in cui non mi riconosco per niente. E che per di più è anche un limite: perché se ho un incontro, un’avventura, ci si aspetta dal famoso Latin Lover chissà quali prestazioni eccezionali. Io invece sono sempre stato un uomo assolutamente normale, anche nelle mie prestazioni».
Tale osservazione si è davvero verificata in Il bell’Antonio (1960) di Mauro Bolognini, un film coetaneo a La dolce vita, in cui Mastroianni interpreta un giovane siciliano che incarna l’archetipo dell’uomo attraente e desiderato. Tuttavia dopo il matrimonio con Barbara (Claudia Cardinale), egli si rivela impotente. Questa “debolezza” lo porta verso una condizione di disagio e umiliazione a causa delle pressioni sociali che gli gravano addosso in quanto uomo. In questo lungometraggio si gioca sulla biforcazione tra apparenza e realtà, se da un lato si conferma il ruolo del Latin Lover filtrato attraverso lo sguardo altrui, dall’altro emerge un uomo intrappolato in delle convenzioni che fanno emergere tutte le sue volubilità.
È un personaggio che dimostra, ancora una volta, come Mastroianni sia propriamente l’attore delle problematicità della vita: lui che ha avuto la capacità di renderle intrinseche anche sul grande schermo, come sono nella quotidianità. La difficoltà, dunque, di separarsi da quell’aura divistica deriva dal fatto che, perfino quando ha esplorato i ruoli più eterogenei, Marcello Mastroianni rimane l’emblema di una mascolinità affascinante, mai completamente privata del suo appeal seduttivo. A ben guardare, questo aspetto non ha molto a che vedere con il lato estetico bensì con il suo anticonformismo, il suo affidarsi totalmente a chi lo dirigeva e la sua profonda introspezione. Egli ha fatto suoi tanti uomini, equipaggiandoli di una bellezza altra da sé, e questo non diminuisce la potenza delle sue performance, anzi, le rende esclusive e indimenticabili.