NC-100
22.03.2022
Il racconto del protagonista di Flee inizia con pochi segni su uno spazio bianco, un fondale che è al contempo pagina e inquadratura, uno schermo mutevole nella sua identità. Il protagonista sta già parlando, mentre il tratto è colto nel suo divenire animazione. Infatti i segni neri acquistano via via ritmo e significato, diventano i passi disordinati della corsa di Amin, bambino nell'Afghanistan degli anni Ottanta. A raccontare è lui adulto, un uomo omosessuale di poco più di trent’anni con una promettente carriera accademica. La sua voce racconta a noi e al regista Jonas Poher Rasmussen, suo vecchio compagno di liceo, una storia vera, la sua, che di falso conserva protettivamente solo il nome di Amin.
Nel 1979, in Afghanistan il governo comunista rovescia la monarchia e inizia i rastrellamenti tra la popolazione civile. Il padre di Amin verrà arrestato e sparirà nel nulla. Pochi anni più tardi, con l’occupazione sovietica e le lotte dei mujaheddin, Amin e la sua famiglia saranno costretti a scappare in Russia, iniziando così un’odissea lunga anni, che li disperderà nei paesi del Nord Europa.
Flee è un documentario animato che affida a un disegno semplice e netto il racconto del vero, ibridandolo con filmati di repertorio capaci di cogliere la Storia recente da una prospettiva inedita. È il racconto di una fuga ma soprattutto l’operazione di ricostruzione di un’identità ferita. Amin, una volta in salvo, sarà costretto a censurare la sua storia per tutelare la sua vita in Danimarca. Flee racconta quel passato taciuto per sopravvivenza, ma soprattutto coglie Amin nell’atto di riappropriarsi della sua storia. Il disegno animato restituisce un accadimento, il racconto di una vita, che viene colto nell’unità spazio temporale del documentario. L’evento del ricordo è registrato nel suo accadere, ma il suo contenuto è reso immagine dall’animazione, una sinergia che complessifica Flee senza disunirlo. Amin racconta sdraiato come in una seduta di psicoterapia, catturato da un primo piano in plongeè: l’animazione rappresenta l’atto documentato e insieme l’atto documentativo, rendendo il documentario un agente interno all’opera. Il film stesso sprona Amin al ricordo di una storia dimenticata, si fa strumento di indagine personale, mezzo al servizio di una storia.
Amin rievoca il passato con un distacco consapevole, ma è anche capace di sorprendersi dei ricordi che aggallano dalla sua infanzia in Afganistan: l’amicizia col fratello, la scoperta della sua omosessualità, le abitudini domestiche di una famiglia chiassosa e vivace, tratteggiata con rotondità dalla voce del protagonista. Il tono colloquiale dello scambio tra Rasmussen e l’oggetto-soggetto del suo racconto impedisce al dramma vissuto da Amin di epicizzarsi, farsi ennesima parabola di migrazione. Quella che vediamo è la sua storia, universale nel suo essere comune a tante altre, ma comunque intima, propria di una specifica identità culturale, politica e sessuale. L’animazione tornerà ad astrarsi nei tratti più traumatici e violenti dei ricordi di Amin ma questa storia sommersa rifiuta ogni pietismo o eroismo in favore di una resa reportagistica dei fatti narrati. La testimonianza animata di Amin non è infatti che una soggettiva mnemonica sulla sua storia recisa da un trafficante per aggirare le autorità danesi.
È proprio per riportare alla luce questo rimosso che l’animazione soccorre il documentario, laddove questo non può misurarsi con una sua peculiarità, il momento. Gli animatori hanno seguito la voce essenziale del protagonista e ne hanno ricreato lo sguardo in modo sia fedele che evocativo. Il disegno diventa quindi veicolo della ricostruzione di una storia che non solo si nega nel qui e ora, ma è stata impedita anche nella memoria.
Esperienze documentarie precedenti si sono servite dell’animazione per dare forma al ricordo o in generare per restituire ciò che non era filmabile, come ad esempio ne il bellissimo La Strada dei Samouni (2018) di Stefano Savona. Altre opere, come I Racconti di Parvana (2017) di Nora Twomey ma soprattutto Valzer con Bashir (2008) di Ari Folman sono a tutti gli effetti film d’animazione che conservano un più o meno solido impianto documentario per il loro rifarsi con attendibilità e adesione a contesti o fatti storici realmente accaduti. Il dato epocale di un film come Flee è il suo fare un uso poetico di questo dialogo tra linguaggi, mettendo in discussione l’identità del racconto, la sua comodità espressiva. Qui, animazione e documentario si integrano e combaciano proprio come in una graphic novel e al contempo si stratificano nel loro interagire. Se da una parte l’immagine ricreata del disegno animato nega l’immediatezza documentaria, dall’altra la voce sul vero impedisce ogni sorta di resa epica della crudezza del racconto di Amin.
L’animazione quindi, piuttosto che indebolire la vicinanza documentaria, ne espande il raggio di cattura sul reale, ammettendo e al contempo superando i limiti del mezzo. L’ibridazione tra i linguaggi, invece che rendere centrifugo il racconto, lo rende inscindibile dal suo oggetto, onesto come una conversazione tra amici, mediato come un ricordo troppo doloroso. Se le immagini di archivio e di repertorio della Storia collettiva inquadrano il ricordo di Amin in uno spazio-tempo documentario reale, quelle create seguono il flusso di pensiero del suo protagonista rendendo tutto il film una sua emanazione.
Flee indaga con rispetto e commozione una riappropriazione identitaria che avviene attraverso il film stesso. L’immersione epifanica di Amin nei suoi traumi e nella sua storia è il racconto e al contempo, l’oggetto del racconto. Le immagini animate, certe e nitide, non sono che il controcampo visivo di un tipo di storia che l’occidente solitamente rimuove e al contempo la protezione necessaria per attraversare il ricordo, senza renderlo un mero reenactment filmato. L’immagine finale del film, attesta la dualità del racconto e insieme una catartica unità tra Amin e la sua storia, il raggiungimento di un insperato punto di vista sul mondo che sia solido e fisso come una casa. Flee, enorme successo al Sundance e ineditamente candidato a tre premi Oscar, commuove e appassiona attraverso l’indagine di una nuova possibilità di racconto, negli ultimi anni sempre più frequentata, che diviene più attendibile di qualsiasi cattura del vero, laddove il vero è stato impedito dalla crudeltà della Storia.
NC-100
22.03.2022
Il racconto del protagonista di Flee inizia con pochi segni su uno spazio bianco, un fondale che è al contempo pagina e inquadratura, uno schermo mutevole nella sua identità. Il protagonista sta già parlando, mentre il tratto è colto nel suo divenire animazione. Infatti i segni neri acquistano via via ritmo e significato, diventano i passi disordinati della corsa di Amin, bambino nell'Afghanistan degli anni Ottanta. A raccontare è lui adulto, un uomo omosessuale di poco più di trent’anni con una promettente carriera accademica. La sua voce racconta a noi e al regista Jonas Poher Rasmussen, suo vecchio compagno di liceo, una storia vera, la sua, che di falso conserva protettivamente solo il nome di Amin.
Nel 1979, in Afghanistan il governo comunista rovescia la monarchia e inizia i rastrellamenti tra la popolazione civile. Il padre di Amin verrà arrestato e sparirà nel nulla. Pochi anni più tardi, con l’occupazione sovietica e le lotte dei mujaheddin, Amin e la sua famiglia saranno costretti a scappare in Russia, iniziando così un’odissea lunga anni, che li disperderà nei paesi del Nord Europa.
Flee è un documentario animato che affida a un disegno semplice e netto il racconto del vero, ibridandolo con filmati di repertorio capaci di cogliere la Storia recente da una prospettiva inedita. È il racconto di una fuga ma soprattutto l’operazione di ricostruzione di un’identità ferita. Amin, una volta in salvo, sarà costretto a censurare la sua storia per tutelare la sua vita in Danimarca. Flee racconta quel passato taciuto per sopravvivenza, ma soprattutto coglie Amin nell’atto di riappropriarsi della sua storia. Il disegno animato restituisce un accadimento, il racconto di una vita, che viene colto nell’unità spazio temporale del documentario. L’evento del ricordo è registrato nel suo accadere, ma il suo contenuto è reso immagine dall’animazione, una sinergia che complessifica Flee senza disunirlo. Amin racconta sdraiato come in una seduta di psicoterapia, catturato da un primo piano in plongeè: l’animazione rappresenta l’atto documentato e insieme l’atto documentativo, rendendo il documentario un agente interno all’opera. Il film stesso sprona Amin al ricordo di una storia dimenticata, si fa strumento di indagine personale, mezzo al servizio di una storia.
Amin rievoca il passato con un distacco consapevole, ma è anche capace di sorprendersi dei ricordi che aggallano dalla sua infanzia in Afganistan: l’amicizia col fratello, la scoperta della sua omosessualità, le abitudini domestiche di una famiglia chiassosa e vivace, tratteggiata con rotondità dalla voce del protagonista. Il tono colloquiale dello scambio tra Rasmussen e l’oggetto-soggetto del suo racconto impedisce al dramma vissuto da Amin di epicizzarsi, farsi ennesima parabola di migrazione. Quella che vediamo è la sua storia, universale nel suo essere comune a tante altre, ma comunque intima, propria di una specifica identità culturale, politica e sessuale. L’animazione tornerà ad astrarsi nei tratti più traumatici e violenti dei ricordi di Amin ma questa storia sommersa rifiuta ogni pietismo o eroismo in favore di una resa reportagistica dei fatti narrati. La testimonianza animata di Amin non è infatti che una soggettiva mnemonica sulla sua storia recisa da un trafficante per aggirare le autorità danesi.
È proprio per riportare alla luce questo rimosso che l’animazione soccorre il documentario, laddove questo non può misurarsi con una sua peculiarità, il momento. Gli animatori hanno seguito la voce essenziale del protagonista e ne hanno ricreato lo sguardo in modo sia fedele che evocativo. Il disegno diventa quindi veicolo della ricostruzione di una storia che non solo si nega nel qui e ora, ma è stata impedita anche nella memoria.
Esperienze documentarie precedenti si sono servite dell’animazione per dare forma al ricordo o in generare per restituire ciò che non era filmabile, come ad esempio ne il bellissimo La Strada dei Samouni (2018) di Stefano Savona. Altre opere, come I Racconti di Parvana (2017) di Nora Twomey ma soprattutto Valzer con Bashir (2008) di Ari Folman sono a tutti gli effetti film d’animazione che conservano un più o meno solido impianto documentario per il loro rifarsi con attendibilità e adesione a contesti o fatti storici realmente accaduti. Il dato epocale di un film come Flee è il suo fare un uso poetico di questo dialogo tra linguaggi, mettendo in discussione l’identità del racconto, la sua comodità espressiva. Qui, animazione e documentario si integrano e combaciano proprio come in una graphic novel e al contempo si stratificano nel loro interagire. Se da una parte l’immagine ricreata del disegno animato nega l’immediatezza documentaria, dall’altra la voce sul vero impedisce ogni sorta di resa epica della crudezza del racconto di Amin.
L’animazione quindi, piuttosto che indebolire la vicinanza documentaria, ne espande il raggio di cattura sul reale, ammettendo e al contempo superando i limiti del mezzo. L’ibridazione tra i linguaggi, invece che rendere centrifugo il racconto, lo rende inscindibile dal suo oggetto, onesto come una conversazione tra amici, mediato come un ricordo troppo doloroso. Se le immagini di archivio e di repertorio della Storia collettiva inquadrano il ricordo di Amin in uno spazio-tempo documentario reale, quelle create seguono il flusso di pensiero del suo protagonista rendendo tutto il film una sua emanazione.
Flee indaga con rispetto e commozione una riappropriazione identitaria che avviene attraverso il film stesso. L’immersione epifanica di Amin nei suoi traumi e nella sua storia è il racconto e al contempo, l’oggetto del racconto. Le immagini animate, certe e nitide, non sono che il controcampo visivo di un tipo di storia che l’occidente solitamente rimuove e al contempo la protezione necessaria per attraversare il ricordo, senza renderlo un mero reenactment filmato. L’immagine finale del film, attesta la dualità del racconto e insieme una catartica unità tra Amin e la sua storia, il raggiungimento di un insperato punto di vista sul mondo che sia solido e fisso come una casa. Flee, enorme successo al Sundance e ineditamente candidato a tre premi Oscar, commuove e appassiona attraverso l’indagine di una nuova possibilità di racconto, negli ultimi anni sempre più frequentata, che diviene più attendibile di qualsiasi cattura del vero, laddove il vero è stato impedito dalla crudeltà della Storia.