Quando i personaggi ed il contesto
si fondono in un unico racconto,
di Edoardo Torraca
TR-25
12.03.2021
Céline Sciamma è uno dei volti più interessanti del cinema francese contemporaneo. Regista e sceneggiatrice affermata, ha raccontato attraverso i suoi film donne che facevano i conti con loro stesse, con chi erano e con chi volevano essere. Film nei quali si possono notare alcune ricorrenze che fanno del cinema della Sciamma un universo chiaro e riconoscibile. Queste strutture si sorreggono su due principi fondamentali. Il primo fattore ha a che fare con i personaggi che abitano questa dimensione. Personaggi che hanno in comune la caratteristica di essere, a detta della stessa Sciamma, incompleti. Il secondo principio, invece, riguarda i mondi nei quali la Sciamma ambienta le sue storie. Per mondo non si intende solo una concezione scenografica ed estetica della realtà, bensì una dimensione all’interno della quale i personaggi si possono muovere liberamente.
Le protagoniste scelte dalla Sciamma per i suoi film sono accomunate da una necessità: quella di dover cambiare. O cercano di scoprire loro stesse, oppure provano ad accettare quello che sono. Il cambiamento per la Sciamma è un evento antecedente al primo fotogramma di ogni suo film. Il vero cambiamento perciò non consiste nell’iniziare un viaggio, ma comincia quando questo viaggio è terminato, e dobbiamo rendere conto del nostro nuovo io al resto del mondo. Ciò che interessa alla Sciamma è quando la vera scoperta di una persona smette di essere un evento personale, e diventa un qualcosa da condividere al di fuori di noi stessi. Se prendiamo per esempio Tomboy e Naissance des pieuvres, scopriamo che le protagoniste di questi film hanno in comune la necessità di dover esteriorizzare una profonda scoperta di se stesse.
Il primo lungometraggio scritto e diretto dalla Sciamma, Naissance des pieuvres (Nascita delle piovre), racconta la storia di una ragazza adolescente, Marie, che si innamora di una nuotatrice, Floriane. In questo film si può apprezzare la cura per il dettaglio e la ricerca di un'atmosfera alternativa che scopriamo insieme a Marie mentre si addentra lentamente nel mondo del nuoto sincronizzato, un mondo al femminile dal quale si sente attratta. La bellezza di questo film sta nella rappresentazione del nuoto sincronizzato come una metafora che racconta l’essenza dell’essere donna. La Sciamma ha raccontato in un’intervista che ciò che più la attraeva del nuoto sincronizzato è il fatto che, primo, è l’unico sport solo al femminile, e secondo che creava questa distinzione visiva tra la superficie e un mondo sott’acqua. Ed è in questa divisione che la regista racchiude la sintesi della figura femminile, dove lo sforzo fisico viene mascherato dalla leggerezza del sorriso e dal trucco sul viso delle atlete.
In questo primo progetto si possono intravedere alcuni elementi che accompagneranno la filmografia della Sciamma. Il più evidente è sicuramente la ricerca di atmosfere che appaiono chiuse e difficili al protagonista. Atmosfere che d’altro canto attraggono prepotentemente i personaggi. In Naissance des pieuvres, Marie si avventura nel mondo del nuoto sincronizzato guidata da Floriane, e se da un lato quel mondo la spaventa, perché appare ai suoi occhi come difficile da decifrare, dall’altro la voglia di sentirsi parte di quel collettivo la rapisce. Grazie a Floriane, riuscirà a varcare la porta degli spogliatoi e vedere dall’interno cosa significa essere parte attiva di una squadra. Le verrà permesso di assistere agli allenamenti dove potrà osservare la durezza fisica di questo sport, la sincronia ma anche la capacità di saper far sembrare ogni gesto leggero ed elegante. Tutto questo però ha un prezzo, perché se da un lato Marie è inconsapevolmente parte di questo nuovo mondo, dall’altro quello che in verità la guida è la sua attrazione fisica per Floriane. Floriane è un personaggio molto sicuro di sé, interpretato da Adele Haenel in uno dei suoi primi ruoli, che vede in Marie un’ingenua adolescente da poter manovrare a suo piacimento. Così tra le due si instaura una dinamica molto contorta, che spinge Marie ad assecondare tutte le sue richieste per poter continuare a far parte della “squadra”.
Nella seconda parte del film Marie decide di interrompere questa dinamica malsana che la legava a Floriane, arrivando a comprendere che il suo desiderio di far parte della squadra non può più sopportare le richieste per certi versi umilianti di Floriane. Questo confronto dà vita a un nuovo lato di Floriane, un lato nel quale la maschera che è tenuta a portare ogni giorno crolla. Smette di essere la ragazza sicura che si destreggia tra molteplici avventure amorose e diventa un’adolescente che teme il giudizio, l’imbarazzo di essere inadeguata. La trasformazione di Floriane la avvicina in un certo senso a Marie, anche se la parte finale del film ci mostra Marie che si riunisce con la sua migliore amica di sempre Anne.
La Sciamma in questo film affronta esplicitamente la scoperta della sessualità e del corpo femminile, che riesce ad inquadrare con grande realismo. Il timore e la vergogna che accompagnano l’età adolescenziale diventano lo sfondo di un trio di amicizie. Forse il film più sobrio e più in linea con il genere, quello dei teen-movie, all’interno del quale si colloca.
Nel secondo lungometraggio scritto e diretto dalla Sciamma, Tomboy, viene raccontata la storia di Laure, una bambina di dieci anni che si è appena trasferita con la sua famiglia in una nuova casa a Parigi. Laure decide di farsi chiamare Michaël dalla nuova comitiva che conosce e vuole far credere così di essere un bambino. Il ruolo dei nomi è un elemento importante per la Sciamma. In La mia vita da zucchina (film d’animazione del 2016 esclusivamente sceneggiato dalla Sciamma), Diamante Nero e Tomboy, il nome diventa identità. Se pur con significati diversi, la scelta dei propri nomi è l’essenza dell’autoaccettazione. Come in Lady Bird di Greta Gerwig e in La città incantata di Miyazaki, il nome diventa espressione di noi stessi, di chi siamo e delle aspettative che gli altri hanno su di noi.
L’inizio del film ci spiega la complicità che esiste tra Laure e sua sorella più piccola Jeanne. La Sciamma riesce nel giro di poche scene a creare un mondo parallelo, ovattato, dove le regole che determinano i confini dentro i quali i personaggi possono muoversi sono chiare. Un inizio ricco di primi piani, dettagli, campi stretti, nei quali la regista ci chiede chiaramente di rimanere su di loro, non importa cosa stia succedendo intorno. Le scene sono arricchite da momenti quotidiani ma intimi che, come nei migliori film di Ken Loach, hanno la capacità di usare il semplice e il superfluo per raccontare qualcosa di molto più profondo. Una volta che la Sciamma ci ha fatto entrare in questo mondo ermetico, chiuso agli adulti, fatto di piccoli attimi, allora si concentra sulla trasformazione di Laure. Non una trasformazione fisica, ma una ricerca di assomigliare a qualcos’altro. Non sappiamo se Laure si è sempre identificata in Michaël o se lo fa per insicurezza, per sentirsi accettata da un gruppo nuovo formato principalmente da maschi. Ma Laure, ora diventata Michaël, osserva gli altri bambini e li imita, gioca a calcio con loro, gioca a torso nudo come loro. Michaël si studia allo specchio, il suo corpo è l’arbitro di questa costante battaglia tra il mondo in cui esiste, quello della comitiva, e quello familiare, nel quale è tenuto ad essere Laure.
Tante volte i bambini, come gli adolescenti, si vergognano della loro verità, di rispettare ciò in cui credono, e perciò si nascondono dietro le bugie per assecondare il gruppo. Il gruppo è sempre formato da persone che seguono e persone che si fanno seguire. Lisa in questo senso, la compagna più fedele di Michaël, è una persona pura, che difende ciò in cui crede, è sicura; è probabilmente tutto ciò quello che Laure vorrebbe essere. Ma la Sciamma ci ricorda come detto in precedenza che il punto centrale del film non si nasconde dietro ai motivi per i quali Laure vuole essere un bambino. La regista, come noi spettatori, rispetta la sua scelta, e siamo partecipi del suo viaggio nel poter esteriorizzare tutto questo. Laure non ci chiede di capire le sue ragioni, ci chiede piuttosto di esserne suoi complici come Jeanne. Il film è molto centrato anche nel saper alternare la dolcezza e la crudeltà della quale i bambini sono capaci. L’intimità perciò diventa anche un arma a doppio taglio. I bambini sono seri, a detta della Sciamma, perché sono consapevoli e artefici della loro dolcezza e della loro crudeltà, che vista da un adulto viene amplificata e distorta.
La sensibilità della cineasta si palesa anche nei momenti in cui riesce a rievocare dalla nostra memoria la visione che avevamo del mondo da bambini. Quando eravamo in grado di subire l’imbarazzo e la timidezza come oggetti misteriosi. Una dinamica che ci spaventava, quella di essere scoperti, che ci faceva rivalutare il mondo, lo sentivamo dentro, fisicamente, e non si poteva scappare. Quando credevi di aver distrutto la normalità con un piccolo gesto, e non c’era albero dietro al quale nascondersi. Sono sentimenti difficili da descrivere a parole, ma che diventano vivi attraverso lo schermo, attraverso questo mondo fantastico che la Sciamma esplora con occhio attento e mai giudice.
Nella parte conclusiva del film, gli adulti e i bambini vengono messi sullo stesso piano. Una volta scoperta la bugia, Michaël smette di esistere ed è Laure a dover subire tutte le conseguenze. Da un lato la madre la porta in giro per le case degli amici a scusarsi e a smascherare la sua bugia, dall’altra i bambini vogliono infierire e sviscerare ogni aspetto della menzogna. Così anche Lisa, la sua compagna più fedele, che si era addirittura innamorata di Michaël, dopo averla inizialmente difesa la umilia davanti a tutti tastandogli i genitali. Laure decide così di isolarsi, di non lasciar entrare più nessuno dentro la sua sfera familiare. Il mondo ermetico sparisce, le pareti crollano.
La scena finale vede Laure e Lisa di fronte, le uniche due persone in grado di capirsi fino in fondo. Oltre i pregiudizi, oltre il rancore, oltre le costruzioni sociali che rendono difficile quel rapporto. È solo con lei che Laure ha il coraggio di confrontarsi dopo le umiliazioni subite. Così in un attimo di nuova intimità Laure si presenta alla sua amica: “Mi chiamo Laure”. Tre semplici parole che racchiudono l’esteriorizzazione di un cambiamento profondo.
Diamante Nero è il terzo film della Sciamma, che come in Tomboy predilige l’uso di attori non professionisti. Il film racconta la storia di Miriame, una sedicenne di colore che vive in un sobborgo di Parigi. Figlia di una madre che lavora tutto il giorno e che non vede mai, ha due sorelle più piccole delle quali si prende cura e un fratello più grande. La figura patriarcale, violenta e maschilista del fratello rappresenta tutto ciò da cui Miriame vuole scappare. Un mondo che sembra già avere un destino scritto per lei. Una vita, quella che la attende, fatta di repressione, di attimi di complicità nascosti sotto un mantello di sofferenza. Tornando un giorno da scuola incontra un gruppo di tre ragazze, più grandi di lei, che le chiedono di far parte della loro “banda”. Questo rappresenta per Miriame uno spiraglio di freschezza, un modo per ridare linfa alla sua quotidianità. Così inizia a liberarsi dalla morsa stretta del fratello, dalle aspettative che la società ha per le ragazze della sua estrazione sociale. Scopre insieme al gruppo cosa la vita ha da offrirle al di fuori del suo contesto. Insieme alle altre tre ragazze combatte, nel senso più letterale della parola, per guadagnare il rispetto del suo quartiere, e in un certo senso di suo fratello. Ma lentamente quello che Miriame credeva fosse un’alternativa diventa inesorabilmente una necessità. E così si ritrova in una spirale che la coinvolge in un organizzazione criminale locale, per la quale inizia a spacciare.
Nell’evoluzione dei personaggi della Sciamma, Miriame si colloca subito dopo la Adèle Haenel di Naissance des pieuvres. In un certo senso raccontano due lati della stessa medaglia, cosa significhi essere delle adolescenti in classi sociali diverse. Miriame è già donna nella prima inquadratura, le riflessioni profonde ed interne che la tormentano non sono proprie di una sedicenne, bensì di una giovane che non ha tempo per attendere che la vita si materializzi davanti a sé. Miriame è una donna che aggredisce la vita, perché questa non le ha mai dato tregua.
Da un punto di vista estetico questo film è una chiara rottura con il passato. I primi film della Sciamma sono minimalisti, attenti alle atmosfere, ai luoghi, ricchi di inquadrature che raccontano nei minimi dettagli ogni aspetto della storia. Diamante Nero invece ha un’estetica più aggressiva, colorata, in un certo senso elettronica come la musica che la guida. Ha l’ambizione di raccontare un’estetica più ribelle, che rispecchi il sobborgo dove la storia è ambientata. Molti piani sequenza che accompagnati da una musica vivace e ritmica ci immergono nella realtà di Miriame. Le varie pause che mantengono lo schermo nero per qualche secondo aiutano a rimarcare i cambiamenti e gli sviluppi della protagonista.
Quello che invece rende questo film parte di una visione più universale della Sciamma è il tema del gruppo, della ricerca di una “squadra” al di fuori del nucleo familiare. Come Icare, Laure e Marie, Miriame ricerca nel gruppo una piccola bolla dentro la quale poter crescere. Il gruppo per la Sciamma è uno strumento fondamentale per far germogliare l’indole delle sue protagoniste. In questo film però il gruppo si manifesta sotto una veste più adulta, più cinica. Non è più la comitiva di bambini o la squadra di nuoto sincronizzato. Il gruppo diventa così necessità per sopravvivere, per poter determinare una vita diversa. L’autodeterminazione di Miriame passa attraverso la ricostruzione di una famiglia nella quale si cancella la figura patriarcale del fratello. L’antagonista alla crescita di Miriame viene racchiuso dalla Sciamma nella figura del fratello, il quale rappresenta a sua volta l’uomo nella società contemporanea. Attraverso la scelta delle inquadrature ci indica che il fratello di Miriame non ha faccia e non ha nome. Per più di quaranta minuti la Sciamma non ci mostra il suo viso; preferisce raccontarci come Miriame lo soffre, come influenzi la sua vita, come non la lasci respirare. Ci mostra il lato più universale della figura fraterna, quella che tende a sotterrare le prospettive sotto la falsa promessa della protezione.
Così quando Miriame ha bisogno di uscire da questo circolo vizioso, nel quale capisce che è probabilmente più il fratello ad avere bisogno di lei, che non lei della protezione del fratello, si avvicina ad un criminale della zona. Abour è una figura conosciuta e rispettata da tutti nella zona, e promette a Miriame protezione da suo fratello in cambio del suo lavoro. La necessità di potersi autodeterminare, anche con risultati catastrofici, è ciò che spinge la protagonista a continuare a credere in una possibilità. La Sciamma ci racconta che le tre ragazze hanno reso Miriame capace di scegliere, le hanno offerto un’alternativa che lei disconosceva totalmente.
Come Laure in Tomboy, Miriame si sente padrona di se stessa anche attraverso la superiorità fisica. Se Laure ostenta la sua virilità attraverso la fisicità, Miriame la usa per manifestare la sua libertà come donna. Miriame combatte con le altre ragazze del quartiere e crede così di aver guadagnato il rispetto del fratello. Sia Laure che Miriame si sentono in dovere di agire in un certo modo, come se la società stesse imponendo su di loro un atteggiamento preciso per stare al mondo. Miriame, infatti, in seguito al “combattimento” vinto contro un'altra ragazza del quartiere, inizia a comportarsi come il fratello nei confronti della sorella più piccola. Assapora per un istante l’onnipotenza che deriva dal suo status. La differenza però sta che mentre Miriame la rifiuta immediatamente, il fratello continua a esercitarla su di lei.
Il film finisce con Miriame che racconta di “non volere quella vita” ad un ragazzo con il quale si frequentava. Il viaggio arriva al punto dal quale era partito, la necessità di volere altro. Nell’ultima scena infatti vediamo Miriame che in lacrime citofona al palazzo dove vive la madre con le sorelle. Il citofono squilla, poi si sente una voce: “Chi è? Chi è?”. Miriame viene fulminata da quel suono, da quella voce, dal passato che le passa veloce davanti agli occhi. La domanda cade nel silenzio, Miriame non risponde. Piange, crede di essere a terra. Prima di tagliare al nero, però, la Sciamma ci mostra un viso pieno di lacrime, ma grintoso, consapevole.
Nell’ultimo film della Sciamma, Ritratto della giovane in fiamme, la regista francese eleva la sua arte e la sua cura per le atmosfere ad un livello superiore. Ci sono quei film nella carriera di una regista che segnano uno spartiacque. Si ha la sensazione infatti che il suo cinema sia stato un percorso in crescendo per arrivare a qualcos’altro, per arrivare ad avere la capacità di riassumere con meno parole un concetto che si esplora da anni. Ritratto della giovane in fiamme è il risultato di un processo iniziato con Naissance des pieuvres, con lo studio attento di un certo tipo di atmosfere intime, raccolte. Il film racconta di una pittrice, Marianne, che viene incaricata di dipingere il ritratto di Héloïse senza che lei se ne accorga. Ambientato nel 1707 su un’isola lontana da tutto, racconta il gioco di rapporti tra la pittrice e il soggetto del quadro. Un film che indaga e sopravvive grazie alla capacità della Sciamma di immergerci in un universo distinto, dove gli spettatori accettano le regole del gioco. Un piano distinto sul quale poter far splendere i rapporti profondi ed intricati che sorreggono la storia.
Un film sicuramente più complesso, perché se da un lato ruba l’occhio per i suoi costumi e la bellezza fotografica, dall’altro rappresenta un ritorno al minimalismo di Tomboy. La maturità della Sciamma sta nel controllare ogni singolo momento del film e far sviluppare con naturalezza il rapporto tra Marianne e Héloïse. In un certo senso rappresenta un riassunto della poetica della Sciamma, che film dopo film ha approfondito e sviluppato. I due pilastri che sorreggono Ritratto della giovane in fiamme sono l’universo ermetico nel quale le protagoniste si immergono e l’incompletezza dei personaggi, che minuto dopo minuto cercano di colmare un vuoto interiore che le spinge a fare sempre un passo in più.
Il 2021 ha in serbo due nuovi progetti per Céline Sciamma, uno in veste di co-sceneggiatrice per il nuovo film di Jacques Audiard (Il profeta, I fratelli Sisters) intitolato Les Olympiades, che sarà basato su una serie di racconti a fumetti di Adrian Tomine, l’altro invece la vedrà nelle vesti di regista e sceneggiatrice. Il suo nuovo film Petite Maman sarà presentato in concorso alla 71ª edizione del Festival di Berlino e sarà un ritorno alle origini per la Sciamma, che si avventurerà di nuovo nel mondo dei bambini. Tra qualche mese perciò potremmo vedere il suo nuovo progetto, pronti più che mai ad immergerci in uno dei tanti mondi di Céline Sciamma.
Quando i personaggi ed il contesto
si fondono in un unico racconto,
di Edoardo Torraca
TR-25
12.03.2021
Céline Sciamma è uno dei volti più interessanti del cinema francese contemporaneo. Regista e sceneggiatrice affermata, ha raccontato attraverso i suoi film donne che facevano i conti con loro stesse, con chi erano e con chi volevano essere. Film nei quali si possono notare alcune ricorrenze che fanno del cinema della Sciamma un universo chiaro e riconoscibile. Queste strutture si sorreggono su due principi fondamentali. Il primo fattore ha a che fare con i personaggi che abitano questa dimensione. Personaggi che hanno in comune la caratteristica di essere, a detta della stessa Sciamma, incompleti. Il secondo principio, invece, riguarda i mondi nei quali la Sciamma ambienta le sue storie. Per mondo non si intende solo una concezione scenografica ed estetica della realtà, bensì una dimensione all’interno della quale i personaggi si possono muovere liberamente.
Le protagoniste scelte dalla Sciamma per i suoi film sono accomunate da una necessità: quella di dover cambiare. O cercano di scoprire loro stesse, oppure provano ad accettare quello che sono. Il cambiamento per la Sciamma è un evento antecedente al primo fotogramma di ogni suo film. Il vero cambiamento perciò non consiste nell’iniziare un viaggio, ma comincia quando questo viaggio è terminato, e dobbiamo rendere conto del nostro nuovo io al resto del mondo. Ciò che interessa alla Sciamma è quando la vera scoperta di una persona smette di essere un evento personale, e diventa un qualcosa da condividere al di fuori di noi stessi. Se prendiamo per esempio Tomboy e Naissance des pieuvres, scopriamo che le protagoniste di questi film hanno in comune la necessità di dover esteriorizzare una profonda scoperta di se stesse.
Il primo lungometraggio scritto e diretto dalla Sciamma, Naissance des pieuvres (Nascita delle piovre), racconta la storia di una ragazza adolescente, Marie, che si innamora di una nuotatrice, Floriane. In questo film si può apprezzare la cura per il dettaglio e la ricerca di un'atmosfera alternativa che scopriamo insieme a Marie mentre si addentra lentamente nel mondo del nuoto sincronizzato, un mondo al femminile dal quale si sente attratta. La bellezza di questo film sta nella rappresentazione del nuoto sincronizzato come una metafora che racconta l’essenza dell’essere donna. La Sciamma ha raccontato in un’intervista che ciò che più la attraeva del nuoto sincronizzato è il fatto che, primo, è l’unico sport solo al femminile, e secondo che creava questa distinzione visiva tra la superficie e un mondo sott’acqua. Ed è in questa divisione che la regista racchiude la sintesi della figura femminile, dove lo sforzo fisico viene mascherato dalla leggerezza del sorriso e dal trucco sul viso delle atlete.
In questo primo progetto si possono intravedere alcuni elementi che accompagneranno la filmografia della Sciamma. Il più evidente è sicuramente la ricerca di atmosfere che appaiono chiuse e difficili al protagonista. Atmosfere che d’altro canto attraggono prepotentemente i personaggi. In Naissance des pieuvres, Marie si avventura nel mondo del nuoto sincronizzato guidata da Floriane, e se da un lato quel mondo la spaventa, perché appare ai suoi occhi come difficile da decifrare, dall’altro la voglia di sentirsi parte di quel collettivo la rapisce. Grazie a Floriane, riuscirà a varcare la porta degli spogliatoi e vedere dall’interno cosa significa essere parte attiva di una squadra. Le verrà permesso di assistere agli allenamenti dove potrà osservare la durezza fisica di questo sport, la sincronia ma anche la capacità di saper far sembrare ogni gesto leggero ed elegante. Tutto questo però ha un prezzo, perché se da un lato Marie è inconsapevolmente parte di questo nuovo mondo, dall’altro quello che in verità la guida è la sua attrazione fisica per Floriane. Floriane è un personaggio molto sicuro di sé, interpretato da Adele Haenel in uno dei suoi primi ruoli, che vede in Marie un’ingenua adolescente da poter manovrare a suo piacimento. Così tra le due si instaura una dinamica molto contorta, che spinge Marie ad assecondare tutte le sue richieste per poter continuare a far parte della “squadra”.
Nella seconda parte del film Marie decide di interrompere questa dinamica malsana che la legava a Floriane, arrivando a comprendere che il suo desiderio di far parte della squadra non può più sopportare le richieste per certi versi umilianti di Floriane. Questo confronto dà vita a un nuovo lato di Floriane, un lato nel quale la maschera che è tenuta a portare ogni giorno crolla. Smette di essere la ragazza sicura che si destreggia tra molteplici avventure amorose e diventa un’adolescente che teme il giudizio, l’imbarazzo di essere inadeguata. La trasformazione di Floriane la avvicina in un certo senso a Marie, anche se la parte finale del film ci mostra Marie che si riunisce con la sua migliore amica di sempre Anne.
La Sciamma in questo film affronta esplicitamente la scoperta della sessualità e del corpo femminile, che riesce ad inquadrare con grande realismo. Il timore e la vergogna che accompagnano l’età adolescenziale diventano lo sfondo di un trio di amicizie. Forse il film più sobrio e più in linea con il genere, quello dei teen-movie, all’interno del quale si colloca.
Nel secondo lungometraggio scritto e diretto dalla Sciamma, Tomboy, viene raccontata la storia di Laure, una bambina di dieci anni che si è appena trasferita con la sua famiglia in una nuova casa a Parigi. Laure decide di farsi chiamare Michaël dalla nuova comitiva che conosce e vuole far credere così di essere un bambino. Il ruolo dei nomi è un elemento importante per la Sciamma. In La mia vita da zucchina (film d’animazione del 2016 esclusivamente sceneggiato dalla Sciamma), Diamante Nero e Tomboy, il nome diventa identità. Se pur con significati diversi, la scelta dei propri nomi è l’essenza dell’autoaccettazione. Come in Lady Bird di Greta Gerwig e in La città incantata di Miyazaki, il nome diventa espressione di noi stessi, di chi siamo e delle aspettative che gli altri hanno su di noi.
L’inizio del film ci spiega la complicità che esiste tra Laure e sua sorella più piccola Jeanne. La Sciamma riesce nel giro di poche scene a creare un mondo parallelo, ovattato, dove le regole che determinano i confini dentro i quali i personaggi possono muoversi sono chiare. Un inizio ricco di primi piani, dettagli, campi stretti, nei quali la regista ci chiede chiaramente di rimanere su di loro, non importa cosa stia succedendo intorno. Le scene sono arricchite da momenti quotidiani ma intimi che, come nei migliori film di Ken Loach, hanno la capacità di usare il semplice e il superfluo per raccontare qualcosa di molto più profondo. Una volta che la Sciamma ci ha fatto entrare in questo mondo ermetico, chiuso agli adulti, fatto di piccoli attimi, allora si concentra sulla trasformazione di Laure. Non una trasformazione fisica, ma una ricerca di assomigliare a qualcos’altro. Non sappiamo se Laure si è sempre identificata in Michaël o se lo fa per insicurezza, per sentirsi accettata da un gruppo nuovo formato principalmente da maschi. Ma Laure, ora diventata Michaël, osserva gli altri bambini e li imita, gioca a calcio con loro, gioca a torso nudo come loro. Michaël si studia allo specchio, il suo corpo è l’arbitro di questa costante battaglia tra il mondo in cui esiste, quello della comitiva, e quello familiare, nel quale è tenuto ad essere Laure.
Tante volte i bambini, come gli adolescenti, si vergognano della loro verità, di rispettare ciò in cui credono, e perciò si nascondono dietro le bugie per assecondare il gruppo. Il gruppo è sempre formato da persone che seguono e persone che si fanno seguire. Lisa in questo senso, la compagna più fedele di Michaël, è una persona pura, che difende ciò in cui crede, è sicura; è probabilmente tutto ciò quello che Laure vorrebbe essere. Ma la Sciamma ci ricorda come detto in precedenza che il punto centrale del film non si nasconde dietro ai motivi per i quali Laure vuole essere un bambino. La regista, come noi spettatori, rispetta la sua scelta, e siamo partecipi del suo viaggio nel poter esteriorizzare tutto questo. Laure non ci chiede di capire le sue ragioni, ci chiede piuttosto di esserne suoi complici come Jeanne. Il film è molto centrato anche nel saper alternare la dolcezza e la crudeltà della quale i bambini sono capaci. L’intimità perciò diventa anche un arma a doppio taglio. I bambini sono seri, a detta della Sciamma, perché sono consapevoli e artefici della loro dolcezza e della loro crudeltà, che vista da un adulto viene amplificata e distorta.
La sensibilità della cineasta si palesa anche nei momenti in cui riesce a rievocare dalla nostra memoria la visione che avevamo del mondo da bambini. Quando eravamo in grado di subire l’imbarazzo e la timidezza come oggetti misteriosi. Una dinamica che ci spaventava, quella di essere scoperti, che ci faceva rivalutare il mondo, lo sentivamo dentro, fisicamente, e non si poteva scappare. Quando credevi di aver distrutto la normalità con un piccolo gesto, e non c’era albero dietro al quale nascondersi. Sono sentimenti difficili da descrivere a parole, ma che diventano vivi attraverso lo schermo, attraverso questo mondo fantastico che la Sciamma esplora con occhio attento e mai giudice.
Nella parte conclusiva del film, gli adulti e i bambini vengono messi sullo stesso piano. Una volta scoperta la bugia, Michaël smette di esistere ed è Laure a dover subire tutte le conseguenze. Da un lato la madre la porta in giro per le case degli amici a scusarsi e a smascherare la sua bugia, dall’altra i bambini vogliono infierire e sviscerare ogni aspetto della menzogna. Così anche Lisa, la sua compagna più fedele, che si era addirittura innamorata di Michaël, dopo averla inizialmente difesa la umilia davanti a tutti tastandogli i genitali. Laure decide così di isolarsi, di non lasciar entrare più nessuno dentro la sua sfera familiare. Il mondo ermetico sparisce, le pareti crollano.
La scena finale vede Laure e Lisa di fronte, le uniche due persone in grado di capirsi fino in fondo. Oltre i pregiudizi, oltre il rancore, oltre le costruzioni sociali che rendono difficile quel rapporto. È solo con lei che Laure ha il coraggio di confrontarsi dopo le umiliazioni subite. Così in un attimo di nuova intimità Laure si presenta alla sua amica: “Mi chiamo Laure”. Tre semplici parole che racchiudono l’esteriorizzazione di un cambiamento profondo.
Diamante Nero è il terzo film della Sciamma, che come in Tomboy predilige l’uso di attori non professionisti. Il film racconta la storia di Miriame, una sedicenne di colore che vive in un sobborgo di Parigi. Figlia di una madre che lavora tutto il giorno e che non vede mai, ha due sorelle più piccole delle quali si prende cura e un fratello più grande. La figura patriarcale, violenta e maschilista del fratello rappresenta tutto ciò da cui Miriame vuole scappare. Un mondo che sembra già avere un destino scritto per lei. Una vita, quella che la attende, fatta di repressione, di attimi di complicità nascosti sotto un mantello di sofferenza. Tornando un giorno da scuola incontra un gruppo di tre ragazze, più grandi di lei, che le chiedono di far parte della loro “banda”. Questo rappresenta per Miriame uno spiraglio di freschezza, un modo per ridare linfa alla sua quotidianità. Così inizia a liberarsi dalla morsa stretta del fratello, dalle aspettative che la società ha per le ragazze della sua estrazione sociale. Scopre insieme al gruppo cosa la vita ha da offrirle al di fuori del suo contesto. Insieme alle altre tre ragazze combatte, nel senso più letterale della parola, per guadagnare il rispetto del suo quartiere, e in un certo senso di suo fratello. Ma lentamente quello che Miriame credeva fosse un’alternativa diventa inesorabilmente una necessità. E così si ritrova in una spirale che la coinvolge in un organizzazione criminale locale, per la quale inizia a spacciare.
Nell’evoluzione dei personaggi della Sciamma, Miriame si colloca subito dopo la Adèle Haenel di Naissance des pieuvres. In un certo senso raccontano due lati della stessa medaglia, cosa significhi essere delle adolescenti in classi sociali diverse. Miriame è già donna nella prima inquadratura, le riflessioni profonde ed interne che la tormentano non sono proprie di una sedicenne, bensì di una giovane che non ha tempo per attendere che la vita si materializzi davanti a sé. Miriame è una donna che aggredisce la vita, perché questa non le ha mai dato tregua.
Da un punto di vista estetico questo film è una chiara rottura con il passato. I primi film della Sciamma sono minimalisti, attenti alle atmosfere, ai luoghi, ricchi di inquadrature che raccontano nei minimi dettagli ogni aspetto della storia. Diamante Nero invece ha un’estetica più aggressiva, colorata, in un certo senso elettronica come la musica che la guida. Ha l’ambizione di raccontare un’estetica più ribelle, che rispecchi il sobborgo dove la storia è ambientata. Molti piani sequenza che accompagnati da una musica vivace e ritmica ci immergono nella realtà di Miriame. Le varie pause che mantengono lo schermo nero per qualche secondo aiutano a rimarcare i cambiamenti e gli sviluppi della protagonista.
Quello che invece rende questo film parte di una visione più universale della Sciamma è il tema del gruppo, della ricerca di una “squadra” al di fuori del nucleo familiare. Come Icare, Laure e Marie, Miriame ricerca nel gruppo una piccola bolla dentro la quale poter crescere. Il gruppo per la Sciamma è uno strumento fondamentale per far germogliare l’indole delle sue protagoniste. In questo film però il gruppo si manifesta sotto una veste più adulta, più cinica. Non è più la comitiva di bambini o la squadra di nuoto sincronizzato. Il gruppo diventa così necessità per sopravvivere, per poter determinare una vita diversa. L’autodeterminazione di Miriame passa attraverso la ricostruzione di una famiglia nella quale si cancella la figura patriarcale del fratello. L’antagonista alla crescita di Miriame viene racchiuso dalla Sciamma nella figura del fratello, il quale rappresenta a sua volta l’uomo nella società contemporanea. Attraverso la scelta delle inquadrature ci indica che il fratello di Miriame non ha faccia e non ha nome. Per più di quaranta minuti la Sciamma non ci mostra il suo viso; preferisce raccontarci come Miriame lo soffre, come influenzi la sua vita, come non la lasci respirare. Ci mostra il lato più universale della figura fraterna, quella che tende a sotterrare le prospettive sotto la falsa promessa della protezione.
Così quando Miriame ha bisogno di uscire da questo circolo vizioso, nel quale capisce che è probabilmente più il fratello ad avere bisogno di lei, che non lei della protezione del fratello, si avvicina ad un criminale della zona. Abour è una figura conosciuta e rispettata da tutti nella zona, e promette a Miriame protezione da suo fratello in cambio del suo lavoro. La necessità di potersi autodeterminare, anche con risultati catastrofici, è ciò che spinge la protagonista a continuare a credere in una possibilità. La Sciamma ci racconta che le tre ragazze hanno reso Miriame capace di scegliere, le hanno offerto un’alternativa che lei disconosceva totalmente.
Come Laure in Tomboy, Miriame si sente padrona di se stessa anche attraverso la superiorità fisica. Se Laure ostenta la sua virilità attraverso la fisicità, Miriame la usa per manifestare la sua libertà come donna. Miriame combatte con le altre ragazze del quartiere e crede così di aver guadagnato il rispetto del fratello. Sia Laure che Miriame si sentono in dovere di agire in un certo modo, come se la società stesse imponendo su di loro un atteggiamento preciso per stare al mondo. Miriame, infatti, in seguito al “combattimento” vinto contro un'altra ragazza del quartiere, inizia a comportarsi come il fratello nei confronti della sorella più piccola. Assapora per un istante l’onnipotenza che deriva dal suo status. La differenza però sta che mentre Miriame la rifiuta immediatamente, il fratello continua a esercitarla su di lei.
Il film finisce con Miriame che racconta di “non volere quella vita” ad un ragazzo con il quale si frequentava. Il viaggio arriva al punto dal quale era partito, la necessità di volere altro. Nell’ultima scena infatti vediamo Miriame che in lacrime citofona al palazzo dove vive la madre con le sorelle. Il citofono squilla, poi si sente una voce: “Chi è? Chi è?”. Miriame viene fulminata da quel suono, da quella voce, dal passato che le passa veloce davanti agli occhi. La domanda cade nel silenzio, Miriame non risponde. Piange, crede di essere a terra. Prima di tagliare al nero, però, la Sciamma ci mostra un viso pieno di lacrime, ma grintoso, consapevole.
Nell’ultimo film della Sciamma, Ritratto della giovane in fiamme, la regista francese eleva la sua arte e la sua cura per le atmosfere ad un livello superiore. Ci sono quei film nella carriera di una regista che segnano uno spartiacque. Si ha la sensazione infatti che il suo cinema sia stato un percorso in crescendo per arrivare a qualcos’altro, per arrivare ad avere la capacità di riassumere con meno parole un concetto che si esplora da anni. Ritratto della giovane in fiamme è il risultato di un processo iniziato con Naissance des pieuvres, con lo studio attento di un certo tipo di atmosfere intime, raccolte. Il film racconta di una pittrice, Marianne, che viene incaricata di dipingere il ritratto di Héloïse senza che lei se ne accorga. Ambientato nel 1707 su un’isola lontana da tutto, racconta il gioco di rapporti tra la pittrice e il soggetto del quadro. Un film che indaga e sopravvive grazie alla capacità della Sciamma di immergerci in un universo distinto, dove gli spettatori accettano le regole del gioco. Un piano distinto sul quale poter far splendere i rapporti profondi ed intricati che sorreggono la storia.
Un film sicuramente più complesso, perché se da un lato ruba l’occhio per i suoi costumi e la bellezza fotografica, dall’altro rappresenta un ritorno al minimalismo di Tomboy. La maturità della Sciamma sta nel controllare ogni singolo momento del film e far sviluppare con naturalezza il rapporto tra Marianne e Héloïse. In un certo senso rappresenta un riassunto della poetica della Sciamma, che film dopo film ha approfondito e sviluppato. I due pilastri che sorreggono Ritratto della giovane in fiamme sono l’universo ermetico nel quale le protagoniste si immergono e l’incompletezza dei personaggi, che minuto dopo minuto cercano di colmare un vuoto interiore che le spinge a fare sempre un passo in più.
Il 2021 ha in serbo due nuovi progetti per Céline Sciamma, uno in veste di co-sceneggiatrice per il nuovo film di Jacques Audiard (Il profeta, I fratelli Sisters) intitolato Les Olympiades, che sarà basato su una serie di racconti a fumetti di Adrian Tomine, l’altro invece la vedrà nelle vesti di regista e sceneggiatrice. Il suo nuovo film Petite Maman sarà presentato in concorso alla 71ª edizione del Festival di Berlino e sarà un ritorno alle origini per la Sciamma, che si avventurerà di nuovo nel mondo dei bambini. Tra qualche mese perciò potremmo vedere il suo nuovo progetto, pronti più che mai ad immergerci in uno dei tanti mondi di Céline Sciamma.