
INT-103
26.07.2025
Giovedì 24 Luglio è uscito nelle nostre sale, grazie ad I Wonder Pictures, il secondo lungometraggio di Mehdi M. Barsaoui, una delle voci più promettenti del cinema nordafricano contemporaneo. Dopo l’esordio con Un figlio (2019), premiato a Venezia e accolto con entusiasmo dalla critica internazionale, Barsaoui torna con Una sconosciuta a Tunisi (Aïcha, titolo internazionale del film), un’opera stratificata, che scava nelle ferite di una società in trasformazione. Il film prende ispirazione da un fatto di cronaca realmente accaduto in Tunisia, ma trasfigurato in un racconto di finzione carico di significati simbolici.
Aya è giovane donna che, sopravvissuta a un incidente, decide di fingersi morta per sfuggire dalla propria esistenza., Vedendo in questo evento l’occasione per reinventarsi, fugge a Tunisi con una nuova identità, ma presto tutto vacilla quando si ritrova a essere la principale testimone di un abuso da parte della polizia. Da questa premessa prende forma un dramma personale che si allarga fino a toccare temi cruciali della Tunisia contemporanea, tra cui l’oppressione patriarcale, la violenza istituzionale, la corruzione, ma anche il desiderio, ostinato, di libertà.
Il grande merito del film, e di Barsaoui, è proprio quello di intrecciare tutte queste tematiche senza mai forzare la narrazione. Il percorso che la protagonista compie è prima di tutto umano, emotivo, incarnato in un corpo (quello della strabiliante Fatma Sfar) che cambia, lotta, resiste. La regia, rigorosa ma mai fredda, riesce a tenere insieme visione autoriale e accessibilità, dando vita a un’opera profondamente politica, senza però rinunciare a un’elevata carica emotiva.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Mehdi M. Barsaoui, che ci ha raccontato della genesi del film, del rapporto tra immaginazione e realtà, del lavoro sull’identità della protagonista, della collaborazione con Fatima Sfar ed infine delle scelte visive che accompagnano questo potente racconto di rinascita.

Una sconosciuta a Tunisi (2025)
Vorrei cominciare questa intervista chiedendoti della genesi di Una sconosciuta a Tunisi, da cosa sei partito?
Allora, se devo essere onesto, l’idea del film è nata un po’ per caso, durante la promozione del mio primo lungometraggio, Un figlio. In quel periodo ho sentito parlare di un fatto di cronaca che mi ha colpito moltissimo; una giovane ragazza, sopravvissuta a un incidente stradale, ha deciso di fingersi morta per un periodo, con l’intento di “mettere alla prova” l’amore dei suoi genitori. All’inizio non pensavo che quella storia potesse diventare il mio secondo film, ma mi era rimasta dentro. Poi, qualche mese dopo, insieme a mia moglie abbiamo scoperto che saremmo diventati genitori di una bambina. E lì, non so esattamente cosa sia scattato nella mia mente, ma ho iniziato a pensare a quella ragazza... e a quel padre. E se un giorno mia figlia facesse una cosa simile? Come reagirei? Da lì è cominciato un processo immaginativo che ha trasformato quella storia iniziale; Aya è diventata Amira, poi Aïcha. È così che ha preso forma il personaggio e con esso anche la riflessione più ampia su cosa significhi oggi, per una giovane donna, cercare emancipazione e la libertà in Tunisia.
Davvero interessante, più che altro non sapevo che fosse tratto da un fatto di cronaca reale.
Sì. Quando ho sentito parlare di questa storia mi ha davvero colpito. Si trattava di una ragazza poco più che ventenne. Era uno scherzo, certo, è durato solo un paio d’ore, ma io l’ho trovato profondamente significativo. Da un lato, era un gesto disperato, fingere la propria morte per testare l’amore dei genitori. Dall’altro, l’ho trovato anche incredibilmente coraggioso. Questa dualità mi ha interessato molto, ma ciò che mi ha colpito ancora di più è stato il desiderio di vita che passa attraverso la morte. È un’idea fortissima, che ho trovato immediatamente cinematografica. Mi sono chiesto perché, nel mondo arabo e musulmano, spesso bisogna "morire" per poter finalmente vivere. Quando ho capito che questo sarebbe stato il mio secondo film, ho provato a cercare di più sul personaggio reale, ma molto presto ho capito che non mi interessava raccontare quel fatto così com’era accaduto. Non volevo girare il fedele adattamento di una storia vera. Quello che mi interessava davvero era trasformare quel gesto iniziale in un racconto più ampio, simbolico, che parlasse di libertà, di identità, di rottura. Per onestà, ho sentito il bisogno di dire che il film è ispirato a un fatto di cronaca, anche se poi tutto il resto, i personaggi, la narrazione, il contesto, è frutto di pura finzione. Ma quell’atto iniziale, quella scintilla, è stata la chiave che ha aperto tutto.
Esatto, anche perché l'incidente stradale avviene durante l’apertura del lungometraggio, e tu parti da questa premessa per poi sviluppare una riflessione molto ampia sul ruolo e sulla condizione della donna nella società, fino a toccare temi più politici come la corruzione e il ruolo della polizia. Come sei arrivato a intrecciare così tante tematiche? Era tua intenzione fin dall'inizio realizzare anche una riflessione sul ruolo della donna nella società tunisina?
Allora, per essere ancora una volta completamente onesto, no, la mia intenzione iniziale non era quella di realizzare una dichiarazione diretta o uno statement sulla condizione femminile in Tunisia. Però c’è una verità più profonda che si è imposta durante la scrittura. All’inizio, infatti, ho avuto un vero problema di legittimità, mi chiedevo se fossi la persona giusta per raccontare questa storia. La protagonista è molto distante da me, è una donna, viene dal sud della Tunisia, ha un vissuto completamente diverso dal mio. E io sono uno di quegli autori che ha bisogno di sentire una connessione autentica con i propri personaggi per poterli scrivere. Ogni volta che mi bloccavo nella scrittura, che non riuscivo ad andare avanti o a trovare la direzione giusta, pensavo a mia figlia. E, poco a poco, ho capito che Una sconosciuta a Tunisi era anche un modo per parlare del paese in cui vorrei che lei crescesse. Non è un film autobiografico, né una testimonianza diretta, ma sicuramente è un gesto personale e, in un certo senso, è un dono che faccio a mia figlia, un film che parla di libertà, di coraggio, di emancipazione. Un modo per dire: "Non restare zitta. Dì le cose. Sii libera." Forse è per questo che emerge con tanta forza la dimensione legata alla condizione femminile. Perché Una sconosciuta a Tunisi è, prima di tutto, un percorso di emancipazione. E anche se la donna tunisina è tra le più libere del mondo arabo, c’è ancora molto lavoro da fare per raggiungere una vera parità, una vera libertà. Il film, in fondo, è anche una riflessione su questo.

Sono molto belle le parole e il messaggio che vuoi trasmettere a tua figlia. Il film poi diventa estremamente politico, ma allo stesso tempo tutto appare perfettamente integrato nella storia. In fondo, si potrebbe dire che ogni film è politico. In Una sconosciuta a Tunisi, ad esempio, c’è un discorso forte sulla polizia, sulla corruzione, che però non sembra mai qualcosa di esterno o appiccicato alla trama, è tutto ben amalgamato con il percorso della protagonista.
Purtroppo, nel mondo in cui viviamo, che si parli degli Stati Uniti, della Francia, o, soprattutto, della Tunisia, il rapporto con la polizia è un tema inevitabilmente politico. In Tunisia dobbiamo ricordare che veniamo da una dittatura poliziesca durata ventitré anni, sotto l’ex presidente Ben Ali. Questo ha lasciato un’eredità molto pesante, oggi il rapporto tra il cittadino tunisino e la polizia è profondamente conflittuale. Per questo, nel mio film, l’antagonista non è una persona specifica ma qualcosa di più ampio; è lo Stato, la polizia, la corruzione sistemica. Sono loro a rappresentare l’ostacolo più grande che Aïcha deve affrontare. E in Tunisia, purtroppo, non esiste ostacolo più concreto e quotidiano del potere della polizia. Era importante per me che questa ragazza, che ha preso una decisione estrema per provare a sopravvivere, si trovasse improvvisamente davanti a una macchina più grande di lei, una forza che la sovrasta. Ed è proprio da lì che comincia il suo vero percorso di emancipazione. Non solo personale, ma anche civile, politico, umano. È attraverso lo scontro con quel sistema che Aïcha inizia davvero a diventare se stessa, a liberarsi. E questo processo culmina in una rinascita. Non è un caso che il suo nome sia Aïcha, che in arabo significa “vivente”, o “colei che è viva”. Il film, in fondo, è proprio il racconto della sua lotta per diventare viva, veramente viva.
Interessante, e poi tutto questo discorso si chiude con un finale che, di fatto, è piuttosto positivo.
Capisco cosa intendi… però, se devo essere sincero, non lo definirei davvero un “finale positivo”. Preferisco dire che è un finale dove entra un po’ di luce. In mezzo a tutto il buio, alla corruzione, al pessimismo, sì, c’è una fessura da cui passa una piccola speranza. È una luce fragile, ma c’è. E forse è proprio lì che si trova il mio commento politico più profondo, io, da autore, voglio credere che la giustizia possa ancora trionfare sulla corruzione. Forse. Non ne sono sicuro, ma voglio sperarlo. Anche se stiamo vivendo un periodo molto buio, oggi, in Tunisia, a livello democratico, economico, sociale, io voglio credere che ci siano ancora giorni migliori davanti a noi. Voglio restare attaccato a una forma di ottimismo. Credo che, in un modo o nell’altro, sia importante continuare a dire “ci sarà luce”.

L'attrice Fatma Asfar, protagonista del lungometraggio
Lo spero tanto. Uno dei punti di forza del film è l’interpretazione di Fatma Asfar, con cui lo spettatore riesce a trovare l’empatia verso la storia. Volevo chiederti come hai trovato questa attrice, cosa ti ha colpito all’inizio e com’è stato lavorare con lei?
Lavorare con Fatma è stato un vero piacere. Devo dire che è stato quasi un miracolo incontrarla. Adesso sta cominciando a farsi conoscere, sta diventando sempre più visibile, ma quando l’ho vista per la prima volta, a gennaio del 2023, non era conosciuta affatto, veniva dal teatro, non aveva mai fatto cinema né televisione. Quando l’ho incontrata, la prima cosa che mi ha colpito è stato il suo sguardo. Poi, il suo magnetismo, Fatma ha il dono di cambiare la sua espressione ed il suo viso, come se avesse una straordinaria capacità camaleontica nel mutare l’identità del personaggio. Lì ho capito che poteva davvero incarnare le tre facce della mia protagonista. Perché io sono convinto che Aya, Amira e Aïcha non siano tre persone diverse, ma per lo più tre lati di una stessa identità, tre diversi stadi di una trasformazione. Fatma, con il suo volto ed il suo corpo era in grado di attraversare tutte queste evoluzioni senza mai forzare nulla. È stata un’intuizione fortissima, e sono felice di averla seguita.
Infatti è proprio quello che ho apprezzato della sua interpretazione, è riuscita a trovare una grande varietà nel modo in cui rappresenta i tre volti del suo personaggio.
Sì, esatto. C’è una cosa che vorrei sottolineare, Una sconosciuta a Tunisi è un film molto scritto. C’è poco spazio per l’improvvisazione, e tutto il lavoro di trasformazione che si vede sullo schermo è frutto di una lunga preparazione. Con Fatma abbiamo lavorato molto prima delle riprese. Durante le prove, abbiamo definito insieme l’atteggiamento di ogni “volto” del personaggio. Per esempio, Aya non cammina come Amira, e nemmeno come Aïcha. Non si veste come loro, non guarda come loro, non si muove allo stesso modo. Ogni versione di lei ha una fisicità, una voce, una presenza diversa. Questo era fondamentale per me, volevo che il cambiamento fosse percepibile anche nel corpo, nel ritmo, nello sguardo. Questo è stato possibile perché Fatma viene dal teatro e questi interpreti, in genere, non hanno paura di osare, di provare e di mettersi in gioco. Alcuni attori che si dedicano solamente al cinema tendono a voler proteggere un’intimità del personaggio, a non voler “sprecare” nulla prima del ciak. Invece io ho bisogno di lavorare prima, di esplorare, di costruire, per poi arrivare sul set già con una base solida. E con Fatma è stato un vero piacere, perché ha capito perfettamente questo metodo e si è immersa totalmente nel processo.
Vorrei concludere questa conversazione chiedendoti delle scene ambientate nel nightclub. Nella prima colpiscono le luci soffuse, tendenti al blu, mentre nella seconda, quella in cui Amira ha la visione di Karim, domina il colore arancio. Visto quello che mi hai raccontato finora, immagino sia una scelta stilistica pianificata con cura.
Assolutamente sì, tutto è stato pensato nei minimi dettagli. E devo dire che, in particolare, la scelta dell’arancione nella seconda parte rappresenta il senso di colpa che sta letteralmente bruciando Amira dall’interno. Karim, in quella scena, non è tanto una presenza reale quanto una sorta di richiamo, un’eco delle fiamme dell’incidente che si vede all’inizio del film. È come se quel trauma riaffiorasse attraverso questa visione, che per lei è un bad trip, qualcosa che accade solo nella sua mente, non nella realtà. Per questo per me era fondamentale che l’immaginario visivo fosse costruito attorno al fuoco e ho dato precise indicazioni al direttore della fotografia per cercare di ricreare la mia visione.
Il trailer di Una sconosciuta a Tunisi (2025)
INT-103
26.07.2025
Giovedì 24 Luglio è uscito nelle nostre sale, grazie ad I Wonder Pictures, il secondo lungometraggio di Mehdi M. Barsaoui, una delle voci più promettenti del cinema nordafricano contemporaneo. Dopo l’esordio con Un figlio (2019), premiato a Venezia e accolto con entusiasmo dalla critica internazionale, Barsaoui torna con Una sconosciuta a Tunisi (Aïcha, titolo internazionale del film), un’opera stratificata, che scava nelle ferite di una società in trasformazione. Il film prende ispirazione da un fatto di cronaca realmente accaduto in Tunisia, ma trasfigurato in un racconto di finzione carico di significati simbolici.
Aya è giovane donna che, sopravvissuta a un incidente, decide di fingersi morta per sfuggire dalla propria esistenza., Vedendo in questo evento l’occasione per reinventarsi, fugge a Tunisi con una nuova identità, ma presto tutto vacilla quando si ritrova a essere la principale testimone di un abuso da parte della polizia. Da questa premessa prende forma un dramma personale che si allarga fino a toccare temi cruciali della Tunisia contemporanea, tra cui l’oppressione patriarcale, la violenza istituzionale, la corruzione, ma anche il desiderio, ostinato, di libertà.
Il grande merito del film, e di Barsaoui, è proprio quello di intrecciare tutte queste tematiche senza mai forzare la narrazione. Il percorso che la protagonista compie è prima di tutto umano, emotivo, incarnato in un corpo (quello della strabiliante Fatma Sfar) che cambia, lotta, resiste. La regia, rigorosa ma mai fredda, riesce a tenere insieme visione autoriale e accessibilità, dando vita a un’opera profondamente politica, senza però rinunciare a un’elevata carica emotiva.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare Mehdi M. Barsaoui, che ci ha raccontato della genesi del film, del rapporto tra immaginazione e realtà, del lavoro sull’identità della protagonista, della collaborazione con Fatima Sfar ed infine delle scelte visive che accompagnano questo potente racconto di rinascita.

Una sconosciuta a Tunisi (2025)
Vorrei cominciare questa intervista chiedendoti della genesi di Una sconosciuta a Tunisi, da cosa sei partito?
Allora, se devo essere onesto, l’idea del film è nata un po’ per caso, durante la promozione del mio primo lungometraggio, Un figlio. In quel periodo ho sentito parlare di un fatto di cronaca che mi ha colpito moltissimo; una giovane ragazza, sopravvissuta a un incidente stradale, ha deciso di fingersi morta per un periodo, con l’intento di “mettere alla prova” l’amore dei suoi genitori. All’inizio non pensavo che quella storia potesse diventare il mio secondo film, ma mi era rimasta dentro. Poi, qualche mese dopo, insieme a mia moglie abbiamo scoperto che saremmo diventati genitori di una bambina. E lì, non so esattamente cosa sia scattato nella mia mente, ma ho iniziato a pensare a quella ragazza... e a quel padre. E se un giorno mia figlia facesse una cosa simile? Come reagirei? Da lì è cominciato un processo immaginativo che ha trasformato quella storia iniziale; Aya è diventata Amira, poi Aïcha. È così che ha preso forma il personaggio e con esso anche la riflessione più ampia su cosa significhi oggi, per una giovane donna, cercare emancipazione e la libertà in Tunisia.
Davvero interessante, più che altro non sapevo che fosse tratto da un fatto di cronaca reale.
Sì. Quando ho sentito parlare di questa storia mi ha davvero colpito. Si trattava di una ragazza poco più che ventenne. Era uno scherzo, certo, è durato solo un paio d’ore, ma io l’ho trovato profondamente significativo. Da un lato, era un gesto disperato, fingere la propria morte per testare l’amore dei genitori. Dall’altro, l’ho trovato anche incredibilmente coraggioso. Questa dualità mi ha interessato molto, ma ciò che mi ha colpito ancora di più è stato il desiderio di vita che passa attraverso la morte. È un’idea fortissima, che ho trovato immediatamente cinematografica. Mi sono chiesto perché, nel mondo arabo e musulmano, spesso bisogna "morire" per poter finalmente vivere. Quando ho capito che questo sarebbe stato il mio secondo film, ho provato a cercare di più sul personaggio reale, ma molto presto ho capito che non mi interessava raccontare quel fatto così com’era accaduto. Non volevo girare il fedele adattamento di una storia vera. Quello che mi interessava davvero era trasformare quel gesto iniziale in un racconto più ampio, simbolico, che parlasse di libertà, di identità, di rottura. Per onestà, ho sentito il bisogno di dire che il film è ispirato a un fatto di cronaca, anche se poi tutto il resto, i personaggi, la narrazione, il contesto, è frutto di pura finzione. Ma quell’atto iniziale, quella scintilla, è stata la chiave che ha aperto tutto.
Esatto, anche perché l'incidente stradale avviene durante l’apertura del lungometraggio, e tu parti da questa premessa per poi sviluppare una riflessione molto ampia sul ruolo e sulla condizione della donna nella società, fino a toccare temi più politici come la corruzione e il ruolo della polizia. Come sei arrivato a intrecciare così tante tematiche? Era tua intenzione fin dall'inizio realizzare anche una riflessione sul ruolo della donna nella società tunisina?
Allora, per essere ancora una volta completamente onesto, no, la mia intenzione iniziale non era quella di realizzare una dichiarazione diretta o uno statement sulla condizione femminile in Tunisia. Però c’è una verità più profonda che si è imposta durante la scrittura. All’inizio, infatti, ho avuto un vero problema di legittimità, mi chiedevo se fossi la persona giusta per raccontare questa storia. La protagonista è molto distante da me, è una donna, viene dal sud della Tunisia, ha un vissuto completamente diverso dal mio. E io sono uno di quegli autori che ha bisogno di sentire una connessione autentica con i propri personaggi per poterli scrivere. Ogni volta che mi bloccavo nella scrittura, che non riuscivo ad andare avanti o a trovare la direzione giusta, pensavo a mia figlia. E, poco a poco, ho capito che Una sconosciuta a Tunisi era anche un modo per parlare del paese in cui vorrei che lei crescesse. Non è un film autobiografico, né una testimonianza diretta, ma sicuramente è un gesto personale e, in un certo senso, è un dono che faccio a mia figlia, un film che parla di libertà, di coraggio, di emancipazione. Un modo per dire: "Non restare zitta. Dì le cose. Sii libera." Forse è per questo che emerge con tanta forza la dimensione legata alla condizione femminile. Perché Una sconosciuta a Tunisi è, prima di tutto, un percorso di emancipazione. E anche se la donna tunisina è tra le più libere del mondo arabo, c’è ancora molto lavoro da fare per raggiungere una vera parità, una vera libertà. Il film, in fondo, è anche una riflessione su questo.

Sono molto belle le parole e il messaggio che vuoi trasmettere a tua figlia. Il film poi diventa estremamente politico, ma allo stesso tempo tutto appare perfettamente integrato nella storia. In fondo, si potrebbe dire che ogni film è politico. In Una sconosciuta a Tunisi, ad esempio, c’è un discorso forte sulla polizia, sulla corruzione, che però non sembra mai qualcosa di esterno o appiccicato alla trama, è tutto ben amalgamato con il percorso della protagonista.
Purtroppo, nel mondo in cui viviamo, che si parli degli Stati Uniti, della Francia, o, soprattutto, della Tunisia, il rapporto con la polizia è un tema inevitabilmente politico. In Tunisia dobbiamo ricordare che veniamo da una dittatura poliziesca durata ventitré anni, sotto l’ex presidente Ben Ali. Questo ha lasciato un’eredità molto pesante, oggi il rapporto tra il cittadino tunisino e la polizia è profondamente conflittuale. Per questo, nel mio film, l’antagonista non è una persona specifica ma qualcosa di più ampio; è lo Stato, la polizia, la corruzione sistemica. Sono loro a rappresentare l’ostacolo più grande che Aïcha deve affrontare. E in Tunisia, purtroppo, non esiste ostacolo più concreto e quotidiano del potere della polizia. Era importante per me che questa ragazza, che ha preso una decisione estrema per provare a sopravvivere, si trovasse improvvisamente davanti a una macchina più grande di lei, una forza che la sovrasta. Ed è proprio da lì che comincia il suo vero percorso di emancipazione. Non solo personale, ma anche civile, politico, umano. È attraverso lo scontro con quel sistema che Aïcha inizia davvero a diventare se stessa, a liberarsi. E questo processo culmina in una rinascita. Non è un caso che il suo nome sia Aïcha, che in arabo significa “vivente”, o “colei che è viva”. Il film, in fondo, è proprio il racconto della sua lotta per diventare viva, veramente viva.
Interessante, e poi tutto questo discorso si chiude con un finale che, di fatto, è piuttosto positivo.
Capisco cosa intendi… però, se devo essere sincero, non lo definirei davvero un “finale positivo”. Preferisco dire che è un finale dove entra un po’ di luce. In mezzo a tutto il buio, alla corruzione, al pessimismo, sì, c’è una fessura da cui passa una piccola speranza. È una luce fragile, ma c’è. E forse è proprio lì che si trova il mio commento politico più profondo, io, da autore, voglio credere che la giustizia possa ancora trionfare sulla corruzione. Forse. Non ne sono sicuro, ma voglio sperarlo. Anche se stiamo vivendo un periodo molto buio, oggi, in Tunisia, a livello democratico, economico, sociale, io voglio credere che ci siano ancora giorni migliori davanti a noi. Voglio restare attaccato a una forma di ottimismo. Credo che, in un modo o nell’altro, sia importante continuare a dire “ci sarà luce”.

L'attrice Fatma Asfar, protagonista del lungometraggio
Lo spero tanto. Uno dei punti di forza del film è l’interpretazione di Fatma Asfar, con cui lo spettatore riesce a trovare l’empatia verso la storia. Volevo chiederti come hai trovato questa attrice, cosa ti ha colpito all’inizio e com’è stato lavorare con lei?
Lavorare con Fatma è stato un vero piacere. Devo dire che è stato quasi un miracolo incontrarla. Adesso sta cominciando a farsi conoscere, sta diventando sempre più visibile, ma quando l’ho vista per la prima volta, a gennaio del 2023, non era conosciuta affatto, veniva dal teatro, non aveva mai fatto cinema né televisione. Quando l’ho incontrata, la prima cosa che mi ha colpito è stato il suo sguardo. Poi, il suo magnetismo, Fatma ha il dono di cambiare la sua espressione ed il suo viso, come se avesse una straordinaria capacità camaleontica nel mutare l’identità del personaggio. Lì ho capito che poteva davvero incarnare le tre facce della mia protagonista. Perché io sono convinto che Aya, Amira e Aïcha non siano tre persone diverse, ma per lo più tre lati di una stessa identità, tre diversi stadi di una trasformazione. Fatma, con il suo volto ed il suo corpo era in grado di attraversare tutte queste evoluzioni senza mai forzare nulla. È stata un’intuizione fortissima, e sono felice di averla seguita.
Infatti è proprio quello che ho apprezzato della sua interpretazione, è riuscita a trovare una grande varietà nel modo in cui rappresenta i tre volti del suo personaggio.
Sì, esatto. C’è una cosa che vorrei sottolineare, Una sconosciuta a Tunisi è un film molto scritto. C’è poco spazio per l’improvvisazione, e tutto il lavoro di trasformazione che si vede sullo schermo è frutto di una lunga preparazione. Con Fatma abbiamo lavorato molto prima delle riprese. Durante le prove, abbiamo definito insieme l’atteggiamento di ogni “volto” del personaggio. Per esempio, Aya non cammina come Amira, e nemmeno come Aïcha. Non si veste come loro, non guarda come loro, non si muove allo stesso modo. Ogni versione di lei ha una fisicità, una voce, una presenza diversa. Questo era fondamentale per me, volevo che il cambiamento fosse percepibile anche nel corpo, nel ritmo, nello sguardo. Questo è stato possibile perché Fatma viene dal teatro e questi interpreti, in genere, non hanno paura di osare, di provare e di mettersi in gioco. Alcuni attori che si dedicano solamente al cinema tendono a voler proteggere un’intimità del personaggio, a non voler “sprecare” nulla prima del ciak. Invece io ho bisogno di lavorare prima, di esplorare, di costruire, per poi arrivare sul set già con una base solida. E con Fatma è stato un vero piacere, perché ha capito perfettamente questo metodo e si è immersa totalmente nel processo.
Vorrei concludere questa conversazione chiedendoti delle scene ambientate nel nightclub. Nella prima colpiscono le luci soffuse, tendenti al blu, mentre nella seconda, quella in cui Amira ha la visione di Karim, domina il colore arancio. Visto quello che mi hai raccontato finora, immagino sia una scelta stilistica pianificata con cura.
Assolutamente sì, tutto è stato pensato nei minimi dettagli. E devo dire che, in particolare, la scelta dell’arancione nella seconda parte rappresenta il senso di colpa che sta letteralmente bruciando Amira dall’interno. Karim, in quella scena, non è tanto una presenza reale quanto una sorta di richiamo, un’eco delle fiamme dell’incidente che si vede all’inizio del film. È come se quel trauma riaffiorasse attraverso questa visione, che per lei è un bad trip, qualcosa che accade solo nella sua mente, non nella realtà. Per questo per me era fondamentale che l’immaginario visivo fosse costruito attorno al fuoco e ho dato precise indicazioni al direttore della fotografia per cercare di ricreare la mia visione.
Il trailer di Una sconosciuta a Tunisi (2025)