INT-96
04.06.2025
Ambientato nella caotica cucina newyorkese del The Grill, Aragoste a Manhattan di Alonso Ruizpalacios segue il duplice punto di vista di due cuochi immigrati; da una parte la nuova arrivata Estela (Anna Díaz) che viene subito “buttata” in questo ambiente frenetico, dall’altra il veterano Pedro (Raúl Briones), cuoco spavaldo ed estroverso, che, grazie a questo impiego, spera di ricevere un giorno la tanto agognata green card. Oltre all’incessante pressione del lavoro, quest’ultimo dovrà cercare di risolvere anche una situazione complicata,emersa per via della sua relazione con la cameriera Julia (Rooney Mara). E se ciò non bastasse, all’interno del The Grill avviene anche un furto, una cospicua somma di denaro è scomparsa e Pedro è l’indiziato numero uno.
Il nuovo film di Alonso Ruizpalacios ci aveva già conquistati in occasione della sua première alla Berlinale 2024, tanto da inserirlo nella lista dei migliori film del festival e nella nostra classifica delle migliori opere dello scorso anno. Dopo essere stato presentato in anteprima nazionale al FESCAAAL, il Festival Cinema Africano, d'Asia e America Latina, che si svolge ogni anno a Milano verso la fine di Marzo, Aragoste a Manhattan arriverà nelle nostre sale, a partire dal 5 Giugno, grazie a Teodora Films.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare il regista Alonso Ruizpalacios, che ci ha raccontato delle principali differenze con la pièce teatrale firmata da Arnold Wesker, di come si è preparato con gli attori prima delle riprese, ed infine di certe scelte stilistiche e alcune sequenze chiave del film.
Julia (Rooney Mara) e Pedro (Raúl Briones), protagonisti di Aragoste a Manhattan
Vorrei cominciare questa conversazione chiedendoti come è andato il recente tour di presentazione del film.
Sono piuttosto soddisfatto, Aragoste a Manhattan è stato mostrato in quasi il tutto il mondo, però devo ammettere che non è stato un percorso facile. La stampa ha acclamato il film, le recensioni sono state per lo più favorevoli ed è stato comprato in quasi tutta Europa. Negli Stati Uniti invece è stato più un mixed bag, è stata dura distribuirlo e renderlo disponibile per un ampio pubblico, anche se bisogna riconoscere che è un problema che riguarda quasi tutto il panorama del cinema indipendente. Ma tutto sommato sono positivo, non posso lamentarmi troppo dei risultati che ho ottenuto.
Cosa ti ha spinto ad adattare una pièce teatrale degli anni ‘50?
Tutto è cominciato quando studiavo recitazione a Londra , per permettermi gli studi, dopo le lezioni andavo a lavorare in questo ristorante che era situato nel centro della città. La cucina ricordava proprio quella che vedi nel film, era un grande spazio che conteneva persone da tutto il mondo, e ovviamente, non era un ristorante Michelin. Era proprio in quel periodo che mi sono avvicinato alla pièce teatrale, leggere il testo di Wesker e poi “vivere” quello stesso mondo la sera ha avuto un forte impatto su di me. Ho sempre avuto il desiderio di dirigere la pièce teatrale, e l’ho fatto in Messico anni fa, ma ero determinato a trarne anche un adattamento cinematografico e ci sono voluti parecchi anni prima di farlo.
Quello che è interessante è che l’opera di Arnold Wesker, andata in scena negli anni ‘50 nel Regno Unito, è stata uno dei cardini del kitchen sink realism. Aragoste a Manhattan, in qualche modo, è come se fosse una reinterpretazione moderna di quella corrente cinematografica, soprattutto per via del personaggio di Pedro, l’ “angry man” della situazione, quel tipo di persona spregevole, ma talmente carismatica che non la si può odiare, proprio come i grandi personaggi portati sullo schermo dai vari Richard Burton, Albert Finney e Tom Courtenay.
Esatto. Questi personaggi sono complessi e quello di Pedro ha lo stesso DNA della generazione dei giovani “angry men”. Sono sempre stato affascinato da questo tipo di personaggio. Credo anche che le origini di quella generazione abbiano influenzato fortemente il cinema di Mike Leigh, come ad esempio Naked (1993) e il Johnny di David Thewlis. Sono personaggi dall'indole autodistruttiva però, come hai detto tu, non riesci a odiarli. Sono come dei giocattoli rotti che vuoi aggiustare a qualsiasi costo.
Una sequenza del film
Al giorno d’oggi, i prodotti audiovisivi sul mondo della cucina sono piuttosto in voga, mi vengono in mente, ad esempio, Boiling Point (2021) di Philip Barantini o la serie televisiva di successo The Bear. Sono tutti dei prodotti accomunati da quella voglia di mostrare il disordine e il casino di una cucina, ma pur sempre feticizzando il cibo. Delle bellissime portate vengono sempre messe al centro delle scene, mentre in Aragoste a Manhattan è l’opposto; raramente vediamo il cibo, l’uso del bianco e nero non da l’occasione di vedere la bellezza dei piatti che vengono serviti. È come se il tuo intento fosse quello di realizzare un anti food porn movie.
Era proprio quello il mio intento. Il cibo è una forma di transizione economica. Uno dei motivi principali per cui ho optato per il bianco e nero era perché volevo porre più enfasi possibile sulle persone che cucinano, non sul prodotto finale. Ovviamente ci sono sempre delle eccezioni alla regola, come nella sequenza dove Pedro prepara un sandwich a Julia, lì è l’unica volta dove ho creato quella sensazione da “food porn”, questo perché è l’unica scena dove il cibo viene fatto “con amore”. Sta creando questo delicato panino, per questo ho usato delle inquadrature piuttosto patinate e luminose per esaltare l’affetto e la cura che Pedro ci sta mettendo. Ma per il resto del film, il cibo è solo una transazione economica.
Si potrebbe dire che c'è anche una seconda eccezione nella scena dove Pedro prepara l'aragosta al senzatetto. Non stiamo parlando dello stesso amore che ha nel fare il panino di Julia, ma allo stesso tempo il cibo non rappresenta quella transizione economica che citavi.
Esatto, hai ragione. Quella è l’altra eccezione. Nel film cerco di fare una forte affermazione attraverso l’allegoria della “gerarchia sociale” della cucina. Pedro prepara il “meglio” per qualcuno che non può assolutamente permetterselo.
Tornando all’uso del bianco e nero, immagino ci siano state altre motiviazioni oltre al discorso di prima. Credo che questa scelta estetica abbia dato una caratteristica di “atemporalità” al film, si sa che è ambientato ai giorni nostri, ma a parte alcuni dettagli specifici che ce lo fanno capire, Aragoste a Manhattan potrebbe essere tranquillamente ambientato vent’anni fa.
Il bianco e nero invita il pubblico ad affrontare il film in maniera diversa. Leggevo che la mente umana è più “impegnata” quando si vedono immagini a colori, quindi raccontare il film usando diverse sfumature di grigio mi ha aiutato ad aggiungere quel “livello narrativo” che va oltre al realismo e sfocia più in un approccio favolistico. Per fare questo era anche importante implementare quella sensazione “senza tempo”, come se appunto stessi raccontando una storia che potrebbe essere successa quaranta o cinquant’anni fa. La citazione all’inizio del film di Henry David Thoreau risale a quasi duecento anni fa, ma risulta comunque moderna perché ci avvertiva dei pericoli del capitalismo incontrollato. Questo mondo non permette ai giovani di sognare un futuro migliore e, se si continua a venerare il mondo del lavoro incontrollato e dell’ iper-produttività, si dovrà pagare un caro prezzo. Questo concetto di Thoreau non si discosta molto dalla nostra realtà, non credi?
Si, certo, concordo soprattutto sulla parte della distruzione dei sogni altrui. Infatti, hai diretto il film dandogli una sorta di “patina onirica”... si potrebbe dire che Aragoste a Manhattan sia, di fatto, un film sui sogni, sulle ambizioni dei giovani immigrati e sulla disillusione del mito dell’American Dream.
I sogni erano una parte importante anche nella pièce di Wesker. Prima mi hai chiesto perché avessi voluto adattare questa opera teatrale e credo che una possibile risposta si possa trovare nella sequenza dove i sei colleghi prendono una pausa dalla dura giornata lavorativa, si siedono e, fumando un paio di sigarette, iniziano a parlare dei propri sogni ed aspirazioni future. Nell’opera di Wesker c’era una scena simile e l’ho sempre trovata stupenda, è così semplice, ma nasconde una bellezza che raramente si vede al giorno d’oggi. Sentivo davvero il bisogno di dirigere una sequenza del genere. Questi lavoratori che, nel pieno dell’agitata routine lavorativa, riescono a prendersi un po’ di tempo e chiedere ai colleghi quali siano i loro sogni. Noi non lo facciamo mai. Nell’opera teatrale, come nel film, abbiamo questi personaggi che si siedono, si raccontano e capiscono quanto le loro esperienze di vita siano diverse tra loro.
In quella sequenza è anche presente il monologo sul “raggio verde alieno”, era presente anche nella pièce teatrale?
No, non era presente. C’è un monologo di un personaggio che non è presente nel film, ma non è simile a quello che ho scritto io, ho dovuto cambiare il contesto temporale, come puoi immaginare, e ho modificato anche alcuni elementi della prosa che mi sembravano piuttosto datati, più che altro perché non si sposavano con il discorso che volevo fare. La storia che senti è semplicemente frutto della mia immaginazione e ho cercato di racchiudere in maniera favolistica l’essenza del percorso di un immigrato. Ho giocato anche con il concetto degli “alieni” perché, come sai, questo è il modo in cui vengono chiamati gli immigrati, “immigrant aliens”. Ho pensato che poteva essere interessante inserire questo parallelismo e “ridicolizzare” un termine profondamente discriminatorio.
Rivedendo la scena di recente, ho compreso ancora di più la genialità della tua scrittura . Il personaggio continua a citare due raggi verdi e quando gli viene chiesto del secondo risponde con un “non lo so”. Poi arriva il finale e capisci tutto, l’ho trovato molto ingegnoso.
Mi fa piacere che tu l’abbia capito, mi sono reso conto che è un aspetto che la maggior parte degli spettatori non coglie ad un primo colpo.
Il "raggio verde" di La Cocina
Cosa mi puoi dire di Raúl Briones? Ricordo che quando il film fu annunciato al Festival di Berlino l’attenzione mediatica era concentrata su Rooney Mara, ed è brava ovviamente, ma Briones risplende in ogni singolo momento del film. Avevate già lavorato insieme in passato giusto?
Si, avevo già collaborato con lui, l’ho incontrato la prima volta in Messico proprio quando dovevo dirigere la pièce teatrale. L’avevo preso nel cast, ma interpretava un ruolo secondario, non quello del protagonista. In seguito abbiamo iniziato a lavorare insieme a diversi progetti teatrali, avevamo anche una compagnia teatrale insieme. Poi ha interpretato uno dei due ruoli principali in Una película de policías (2021), il mio terzo lungometraggio. Conosco Raúl da molto tempo, conosco bene le sue capacità, è un attore sempre pronto a mettersi alla prova, molto determinato e disciplinato.
Mentre per quanto riguarda Rooney Mara? Come è nata la vostra collaborazione?
Le ho scritto una lettera. Averla in Aragoste a Manhattan per me era una sorta di “fantasy casting”. Volevo un’attrice affermata e conosciuta, una movie star appunto, proprio perché è come Pedro vede il personaggio di Julia. Quindi il mio obiettivo era quello di avere un’attrice famosa che contrastasse con il resto del cast formato da attori sconosciuti. Durante la fase di scrittura avevo rivisto Carol (2015) di Todd Haynes. Rooney Mara è incredibile in quel film, particolarmente nel modo in cui riesce a mostrare la sensibilità e la forza del suo personaggio. Ho pensato fosse perfetta per il ruolo di Julia. Così le scrissi una lettera, come dicevo prima, una sorta di “messaggio in una bottiglia” (il regista ride, n.d.r.), non ero per nulla ottimista ma rispose dopo un paio di giorni. Le spiegai perché ammiro così tanto il suo lavoro e l’importanza di averla nel ruolo di Julia. Lei mi rispose chiedendo di vedere i miei film precedenti…e così, dopo poco, ha accettato.
Come si è svolta la fase di pre-produzione con gli attori? Immagino abbiate avuto una fase di rehearsals piuttosto estensiva.
Esatto, abbiamo cominciato a lavorare con tutto il cast un mese prima delle riprese, il che è atipico poiché, di solito, si comincia solo qualche giorno prima, al massimo un paio di settimane, con le rehearsals. Avevamo affittato un intero teatro per le prove. Durante la mattina, gli attori si esercitavano a cucinare, mentre nel pomeriggio inscenavano le diverse sequenze, alle quali lasciavo libertà per l’improvvisazione. Quel piccolo teatro era diventato, di fatto, il microcosmo del mondo della cucina e credo sia stato essenziale per la buona riuscita del film.
Cosa puoi dirmi del piano sequenza nella fase centrale del film? Suppongo che l’abbiate provato molte volte, principalmente per via della coreografia e dei “momenti coordinati” dei camerieri/cuochi.
Esatto. Ti dirò, girare questi piani sequenza è piuttosto divertente, è la gioia di ogni regista perché può mostrare il proprio estro creativo. Fare dei piani sequenza mi rimanda al periodo in cui ero un regista teatrale, solo che qui, la coreografia coinvolge anche la cinepresa e come gli attori si muovono rapportandosi ad essa. Ciò che ci ha aiutato molto è quella lunga fase di preparazione che citavo prima, gli attori erano riusciti a incapsulare perfettamente i movimenti che i loro personaggi, e “ruoli”, nella gerarchia della cucina, dovevano assumere. Le loro abilità culinarie sono state essenziali nel creare questo “realismo caotico”. Per farti capire meglio, è come se dovessi creare una grossa coreografia di danza, è essenziale che le persone che parteciperanno ad essa sappiano ballare, così non bisogna perdere tempo su elementi base. Gli attori, in questo caso,sapevano già “ballare” sul set, perché erano entrati pienamente nella mentalità della cucina. Poi, è semplicemente bastato costruire e capire i meccanismi di questa coreografia. È stato un processo elaborato, scrupoloso e stressante, ma molto divertente.
Rooney Mara in una sequenza del film
C’è qualche motivazione specifica dietro all’uso dell’ “inondazione” di Coca Cola alla ciliegia in quella scena?
È un’immagine che ho già incontrato in passato in un cinema newyorkese. Mi trovavo nella Grande Mela con mia moglie per le vacanze di Natale, non conoscevamo molte persone e avevamo pochi soldi per celebrare, quindi avevamo deciso di andare al cinema per la Vigilia. Ricordo ancora che, quando stavo comprando i popcorn, mi accorsi che il pavimento era fradicio e appiccicoso. Poco dopo notai che la macchina per la Coca Cola alla ciliegia era rotta, continuava a far fuoriuscire la bibita in maniera incontrollata, ma ciò che mi colpì di più fu l’atteggiamento degli addetti, non gliene fregava nulla. Quest’immagine di uno spreco non controllato cattura perfettamente il capitalismo o il tardo capitalismo. Durante la fase di scrittura mi venne in mente questo episodio e mi sembrò naturale inserirlo per mostrare, metaforicamente, come questa nave, o meglio il sottomarino del capitalismo, stia affondando.
Nel piano sequenza si può vedere anche uno dei molteplici cambi di formato del film per mettere in risalto l’ambiente claustrofobico della cucina rispetto a quello più “aperto” della sala o dell’esterno del ristorante, una scelta stilistica che non risulta mai stucchevole.
La scelta del cambio di formato è stata per lo più dettata dalla volontà di trasportare lo spettatore negli spazi della cucina in una maniera “subconscia”. Lo spettatore medio, a volte, non se ne accorge se fatto in maniera meno vistosa. All’inizio il formato è più largo, poi quando Estela entra dalla porta posteriore dentro il The Grill, il formato si stringe, e rimane così per la maggior parte del film. Poi durante la pausa pranzo, Pedro guarda in alto il cielo e il formato si “apre”, proprio per mostrare quel momento in cui il personaggio può “respirare” di nuovo. Mi piace sperimentare con i cambi di formato, penso che l’intero atto del fare un film sia un’esperienza giocosa nel quale si hanno dei mezzi a disposizione e bisogna creare nuovi linguaggi con essi. I diversi formati sono alcuni di questi mezzi e ho sempre usato i cambi dell’aspect ratio intenzionalmente nel corso della mia carriera.
Visto che hai citato Estela, è arrivato il momento di chiederti di questo personaggio. All’inizio sembra che sia lei il focus di Aragoste a Manhattan, ma questo cambia quando verso il venticinquesimo minuto entra in scena Pedro, la cui presenza inizierà a dominare il film. Ma la presenza di Estela permane comunque, come se volessi mostrare una sorta di alter ego di Pedro, da una parte la sfrontatezza di un veterano dell’ambiente, dall'altra la timidezza di un nuovo arrivato. Questo parallelismo diventa fondamentale anche nella parte finale perché Pedro non è l’unico a vedere il “secondo” raggio verde alieno.
Il rapporto tra i due è piuttosto interessante perché provengono dallo stesso posto, sono parte della stessa “famiglia” e probabilmente lei prenderà il posto di Pedro. Forse un giorno diventerà il nuovo Pedro, oppure imparerà dai suoi errori. La loro connessione è profonda e ciò che succederà ai due “dopo il film” rimane un'incognita, soprattutto per Estela.
Dando spazio anche a diversi personaggi chiave oltre ai protagonisti sei riuscito a trasmettere le molteplici sfaccettature dell’esperienza dell’immigrazione, una tematica che, purtroppo, non viene sempre espressa o sviluppata con la giusta attenzione, come se si volesse sminuire e omogeneizzare il vissuto di tutti gli immigrati.
Se fosse stato un film americano gli immigrati sarebbero apparsi solo sullo sfondo, giusto per dare un po’ più di “colore” al cast. Ma qui la dinamica è invertita, loro sono il centro del film. Era importante vedere i differenti trascorsi dei personaggi e come questi siano accomunati dalle continue battaglie che devono affrontare per realizzare i propri sogni.
Raúl Briones in La Cocina
Volevi fare anche un paragone sull’esperienza dell’immigrazione con quella dei senzatetto?
Si, la premessa di un senzatetto che entra nella cucina era già presente nello spettacolo di Wesker. Una scelta che ho sempre reputato interessante perché questo personaggio è l’unico all’interno della storia che viene trattato con gentilezza da parte di Pedro, lo tratta con una certa dignità. Quest’ultimo aspetto è risultato fondamentale mentre scrivevo la sceneggiatura e ricercavo lo “stile di vita” dei senzatetto. Abbiamo fatto street casting e mentre parlavo con loro, ci siamo resi conto quanto negli Stati Uniti l’esistenza di queste persone sia profondamente triste, molte di esse avevano carriere e lauree alle spalle. Ho scoperto questo ragazzo che su YouTube pubblica dei video nei quali intervista dei senzatetto, cercando di raccontare le loro storie e dare dignità a queste persone. Avevo sentito storie incredibili, quella del senzatetto che lavorava in banca che senti nel film è tratta da uno di questi racconti reali. Avere queste persone nel film è un reminder di quanto la società e il sistema dietro ad essa siano problematici. La macchina del capitalismo è ormai rotta e i senzatetto sono le vittime principali di essa, la loro presenza è stata quindi essenziale all’interno del film.
Vorrei concludere questa piacevole conversazione chiedendoti di un altro aspetto con cui hai sperimentato all’interno del film; un paio di volte hai ripreso delle sequenze utilizzando un frame rate più basso, che regala una sensazione di appannamento.
Sono stato influenzato dai lavori di Masahisa Fukase, fotografo giapponese specializzato nel creare immagini espressioniste in bianco e nero. Sono ossessionato dalle sue fotografie e volevo cercare di catturare la sensazione che emanano, un livello di soggettività e violenza dato proprio da questo offuscamento. Era consono allo stato mentale di Estela e come si sentiva. Inoltre, quando ti trovi in quel preciso “stato di vulnerabilità”, provi una sorta di cecità psichica. Vedi le cose, ma non le guardi. Sei in ansia o in preda al nervoso e non riesci a concentrarti, soprattutto quando sei in un luogo non familiare o straniero appunto. Questa cecità psichica affligge Estela quando arriva per la prima volta a Manhattan, o quando sta per finire il momento più caotico del servizio e tutti iniziano ad urlare contro di lei, quindi mi è sembrato naturale utilizzare un’immagine con un basso frame rate che rispecchiasse i suoi sentimenti di spaesamento.
Il trailer di La Cocina
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04.06.2025
Ambientato nella caotica cucina newyorkese del The Grill, Aragoste a Manhattan di Alonso Ruizpalacios segue il duplice punto di vista di due cuochi immigrati; da una parte la nuova arrivata Estela (Anna Díaz) che viene subito “buttata” in questo ambiente frenetico, dall’altra il veterano Pedro (Raúl Briones), cuoco spavaldo ed estroverso, che, grazie a questo impiego, spera di ricevere un giorno la tanto agognata green card. Oltre all’incessante pressione del lavoro, quest’ultimo dovrà cercare di risolvere anche una situazione complicata,emersa per via della sua relazione con la cameriera Julia (Rooney Mara). E se ciò non bastasse, all’interno del The Grill avviene anche un furto, una cospicua somma di denaro è scomparsa e Pedro è l’indiziato numero uno.
Il nuovo film di Alonso Ruizpalacios ci aveva già conquistati in occasione della sua première alla Berlinale 2024, tanto da inserirlo nella lista dei migliori film del festival e nella nostra classifica delle migliori opere dello scorso anno. Dopo essere stato presentato in anteprima nazionale al FESCAAAL, il Festival Cinema Africano, d'Asia e America Latina, che si svolge ogni anno a Milano verso la fine di Marzo, Aragoste a Manhattan arriverà nelle nostre sale, a partire dal 5 Giugno, grazie a Teodora Films.
Abbiamo avuto il piacere di incontrare il regista Alonso Ruizpalacios, che ci ha raccontato delle principali differenze con la pièce teatrale firmata da Arnold Wesker, di come si è preparato con gli attori prima delle riprese, ed infine di certe scelte stilistiche e alcune sequenze chiave del film.
Julia (Rooney Mara) e Pedro (Raúl Briones), protagonisti di Aragoste a Manhattan
Vorrei cominciare questa conversazione chiedendoti come è andato il recente tour di presentazione del film.
Sono piuttosto soddisfatto, Aragoste a Manhattan è stato mostrato in quasi il tutto il mondo, però devo ammettere che non è stato un percorso facile. La stampa ha acclamato il film, le recensioni sono state per lo più favorevoli ed è stato comprato in quasi tutta Europa. Negli Stati Uniti invece è stato più un mixed bag, è stata dura distribuirlo e renderlo disponibile per un ampio pubblico, anche se bisogna riconoscere che è un problema che riguarda quasi tutto il panorama del cinema indipendente. Ma tutto sommato sono positivo, non posso lamentarmi troppo dei risultati che ho ottenuto.
Cosa ti ha spinto ad adattare una pièce teatrale degli anni ‘50?
Tutto è cominciato quando studiavo recitazione a Londra , per permettermi gli studi, dopo le lezioni andavo a lavorare in questo ristorante che era situato nel centro della città. La cucina ricordava proprio quella che vedi nel film, era un grande spazio che conteneva persone da tutto il mondo, e ovviamente, non era un ristorante Michelin. Era proprio in quel periodo che mi sono avvicinato alla pièce teatrale, leggere il testo di Wesker e poi “vivere” quello stesso mondo la sera ha avuto un forte impatto su di me. Ho sempre avuto il desiderio di dirigere la pièce teatrale, e l’ho fatto in Messico anni fa, ma ero determinato a trarne anche un adattamento cinematografico e ci sono voluti parecchi anni prima di farlo.
Quello che è interessante è che l’opera di Arnold Wesker, andata in scena negli anni ‘50 nel Regno Unito, è stata uno dei cardini del kitchen sink realism. Aragoste a Manhattan, in qualche modo, è come se fosse una reinterpretazione moderna di quella corrente cinematografica, soprattutto per via del personaggio di Pedro, l’ “angry man” della situazione, quel tipo di persona spregevole, ma talmente carismatica che non la si può odiare, proprio come i grandi personaggi portati sullo schermo dai vari Richard Burton, Albert Finney e Tom Courtenay.
Esatto. Questi personaggi sono complessi e quello di Pedro ha lo stesso DNA della generazione dei giovani “angry men”. Sono sempre stato affascinato da questo tipo di personaggio. Credo anche che le origini di quella generazione abbiano influenzato fortemente il cinema di Mike Leigh, come ad esempio Naked (1993) e il Johnny di David Thewlis. Sono personaggi dall'indole autodistruttiva però, come hai detto tu, non riesci a odiarli. Sono come dei giocattoli rotti che vuoi aggiustare a qualsiasi costo.
Una sequenza del film
Al giorno d’oggi, i prodotti audiovisivi sul mondo della cucina sono piuttosto in voga, mi vengono in mente, ad esempio, Boiling Point (2021) di Philip Barantini o la serie televisiva di successo The Bear. Sono tutti dei prodotti accomunati da quella voglia di mostrare il disordine e il casino di una cucina, ma pur sempre feticizzando il cibo. Delle bellissime portate vengono sempre messe al centro delle scene, mentre in Aragoste a Manhattan è l’opposto; raramente vediamo il cibo, l’uso del bianco e nero non da l’occasione di vedere la bellezza dei piatti che vengono serviti. È come se il tuo intento fosse quello di realizzare un anti food porn movie.
Era proprio quello il mio intento. Il cibo è una forma di transizione economica. Uno dei motivi principali per cui ho optato per il bianco e nero era perché volevo porre più enfasi possibile sulle persone che cucinano, non sul prodotto finale. Ovviamente ci sono sempre delle eccezioni alla regola, come nella sequenza dove Pedro prepara un sandwich a Julia, lì è l’unica volta dove ho creato quella sensazione da “food porn”, questo perché è l’unica scena dove il cibo viene fatto “con amore”. Sta creando questo delicato panino, per questo ho usato delle inquadrature piuttosto patinate e luminose per esaltare l’affetto e la cura che Pedro ci sta mettendo. Ma per il resto del film, il cibo è solo una transazione economica.
Si potrebbe dire che c'è anche una seconda eccezione nella scena dove Pedro prepara l'aragosta al senzatetto. Non stiamo parlando dello stesso amore che ha nel fare il panino di Julia, ma allo stesso tempo il cibo non rappresenta quella transizione economica che citavi.
Esatto, hai ragione. Quella è l’altra eccezione. Nel film cerco di fare una forte affermazione attraverso l’allegoria della “gerarchia sociale” della cucina. Pedro prepara il “meglio” per qualcuno che non può assolutamente permetterselo.
Tornando all’uso del bianco e nero, immagino ci siano state altre motiviazioni oltre al discorso di prima. Credo che questa scelta estetica abbia dato una caratteristica di “atemporalità” al film, si sa che è ambientato ai giorni nostri, ma a parte alcuni dettagli specifici che ce lo fanno capire, Aragoste a Manhattan potrebbe essere tranquillamente ambientato vent’anni fa.
Il bianco e nero invita il pubblico ad affrontare il film in maniera diversa. Leggevo che la mente umana è più “impegnata” quando si vedono immagini a colori, quindi raccontare il film usando diverse sfumature di grigio mi ha aiutato ad aggiungere quel “livello narrativo” che va oltre al realismo e sfocia più in un approccio favolistico. Per fare questo era anche importante implementare quella sensazione “senza tempo”, come se appunto stessi raccontando una storia che potrebbe essere successa quaranta o cinquant’anni fa. La citazione all’inizio del film di Henry David Thoreau risale a quasi duecento anni fa, ma risulta comunque moderna perché ci avvertiva dei pericoli del capitalismo incontrollato. Questo mondo non permette ai giovani di sognare un futuro migliore e, se si continua a venerare il mondo del lavoro incontrollato e dell’ iper-produttività, si dovrà pagare un caro prezzo. Questo concetto di Thoreau non si discosta molto dalla nostra realtà, non credi?
Si, certo, concordo soprattutto sulla parte della distruzione dei sogni altrui. Infatti, hai diretto il film dandogli una sorta di “patina onirica”... si potrebbe dire che Aragoste a Manhattan sia, di fatto, un film sui sogni, sulle ambizioni dei giovani immigrati e sulla disillusione del mito dell’American Dream.
I sogni erano una parte importante anche nella pièce di Wesker. Prima mi hai chiesto perché avessi voluto adattare questa opera teatrale e credo che una possibile risposta si possa trovare nella sequenza dove i sei colleghi prendono una pausa dalla dura giornata lavorativa, si siedono e, fumando un paio di sigarette, iniziano a parlare dei propri sogni ed aspirazioni future. Nell’opera di Wesker c’era una scena simile e l’ho sempre trovata stupenda, è così semplice, ma nasconde una bellezza che raramente si vede al giorno d’oggi. Sentivo davvero il bisogno di dirigere una sequenza del genere. Questi lavoratori che, nel pieno dell’agitata routine lavorativa, riescono a prendersi un po’ di tempo e chiedere ai colleghi quali siano i loro sogni. Noi non lo facciamo mai. Nell’opera teatrale, come nel film, abbiamo questi personaggi che si siedono, si raccontano e capiscono quanto le loro esperienze di vita siano diverse tra loro.
In quella sequenza è anche presente il monologo sul “raggio verde alieno”, era presente anche nella pièce teatrale?
No, non era presente. C’è un monologo di un personaggio che non è presente nel film, ma non è simile a quello che ho scritto io, ho dovuto cambiare il contesto temporale, come puoi immaginare, e ho modificato anche alcuni elementi della prosa che mi sembravano piuttosto datati, più che altro perché non si sposavano con il discorso che volevo fare. La storia che senti è semplicemente frutto della mia immaginazione e ho cercato di racchiudere in maniera favolistica l’essenza del percorso di un immigrato. Ho giocato anche con il concetto degli “alieni” perché, come sai, questo è il modo in cui vengono chiamati gli immigrati, “immigrant aliens”. Ho pensato che poteva essere interessante inserire questo parallelismo e “ridicolizzare” un termine profondamente discriminatorio.
Rivedendo la scena di recente, ho compreso ancora di più la genialità della tua scrittura . Il personaggio continua a citare due raggi verdi e quando gli viene chiesto del secondo risponde con un “non lo so”. Poi arriva il finale e capisci tutto, l’ho trovato molto ingegnoso.
Mi fa piacere che tu l’abbia capito, mi sono reso conto che è un aspetto che la maggior parte degli spettatori non coglie ad un primo colpo.
Il "raggio verde" di La Cocina
Cosa mi puoi dire di Raúl Briones? Ricordo che quando il film fu annunciato al Festival di Berlino l’attenzione mediatica era concentrata su Rooney Mara, ed è brava ovviamente, ma Briones risplende in ogni singolo momento del film. Avevate già lavorato insieme in passato giusto?
Si, avevo già collaborato con lui, l’ho incontrato la prima volta in Messico proprio quando dovevo dirigere la pièce teatrale. L’avevo preso nel cast, ma interpretava un ruolo secondario, non quello del protagonista. In seguito abbiamo iniziato a lavorare insieme a diversi progetti teatrali, avevamo anche una compagnia teatrale insieme. Poi ha interpretato uno dei due ruoli principali in Una película de policías (2021), il mio terzo lungometraggio. Conosco Raúl da molto tempo, conosco bene le sue capacità, è un attore sempre pronto a mettersi alla prova, molto determinato e disciplinato.
Mentre per quanto riguarda Rooney Mara? Come è nata la vostra collaborazione?
Le ho scritto una lettera. Averla in Aragoste a Manhattan per me era una sorta di “fantasy casting”. Volevo un’attrice affermata e conosciuta, una movie star appunto, proprio perché è come Pedro vede il personaggio di Julia. Quindi il mio obiettivo era quello di avere un’attrice famosa che contrastasse con il resto del cast formato da attori sconosciuti. Durante la fase di scrittura avevo rivisto Carol (2015) di Todd Haynes. Rooney Mara è incredibile in quel film, particolarmente nel modo in cui riesce a mostrare la sensibilità e la forza del suo personaggio. Ho pensato fosse perfetta per il ruolo di Julia. Così le scrissi una lettera, come dicevo prima, una sorta di “messaggio in una bottiglia” (il regista ride, n.d.r.), non ero per nulla ottimista ma rispose dopo un paio di giorni. Le spiegai perché ammiro così tanto il suo lavoro e l’importanza di averla nel ruolo di Julia. Lei mi rispose chiedendo di vedere i miei film precedenti…e così, dopo poco, ha accettato.
Come si è svolta la fase di pre-produzione con gli attori? Immagino abbiate avuto una fase di rehearsals piuttosto estensiva.
Esatto, abbiamo cominciato a lavorare con tutto il cast un mese prima delle riprese, il che è atipico poiché, di solito, si comincia solo qualche giorno prima, al massimo un paio di settimane, con le rehearsals. Avevamo affittato un intero teatro per le prove. Durante la mattina, gli attori si esercitavano a cucinare, mentre nel pomeriggio inscenavano le diverse sequenze, alle quali lasciavo libertà per l’improvvisazione. Quel piccolo teatro era diventato, di fatto, il microcosmo del mondo della cucina e credo sia stato essenziale per la buona riuscita del film.
Cosa puoi dirmi del piano sequenza nella fase centrale del film? Suppongo che l’abbiate provato molte volte, principalmente per via della coreografia e dei “momenti coordinati” dei camerieri/cuochi.
Esatto. Ti dirò, girare questi piani sequenza è piuttosto divertente, è la gioia di ogni regista perché può mostrare il proprio estro creativo. Fare dei piani sequenza mi rimanda al periodo in cui ero un regista teatrale, solo che qui, la coreografia coinvolge anche la cinepresa e come gli attori si muovono rapportandosi ad essa. Ciò che ci ha aiutato molto è quella lunga fase di preparazione che citavo prima, gli attori erano riusciti a incapsulare perfettamente i movimenti che i loro personaggi, e “ruoli”, nella gerarchia della cucina, dovevano assumere. Le loro abilità culinarie sono state essenziali nel creare questo “realismo caotico”. Per farti capire meglio, è come se dovessi creare una grossa coreografia di danza, è essenziale che le persone che parteciperanno ad essa sappiano ballare, così non bisogna perdere tempo su elementi base. Gli attori, in questo caso,sapevano già “ballare” sul set, perché erano entrati pienamente nella mentalità della cucina. Poi, è semplicemente bastato costruire e capire i meccanismi di questa coreografia. È stato un processo elaborato, scrupoloso e stressante, ma molto divertente.
Rooney Mara in una sequenza del film
C’è qualche motivazione specifica dietro all’uso dell’ “inondazione” di Coca Cola alla ciliegia in quella scena?
È un’immagine che ho già incontrato in passato in un cinema newyorkese. Mi trovavo nella Grande Mela con mia moglie per le vacanze di Natale, non conoscevamo molte persone e avevamo pochi soldi per celebrare, quindi avevamo deciso di andare al cinema per la Vigilia. Ricordo ancora che, quando stavo comprando i popcorn, mi accorsi che il pavimento era fradicio e appiccicoso. Poco dopo notai che la macchina per la Coca Cola alla ciliegia era rotta, continuava a far fuoriuscire la bibita in maniera incontrollata, ma ciò che mi colpì di più fu l’atteggiamento degli addetti, non gliene fregava nulla. Quest’immagine di uno spreco non controllato cattura perfettamente il capitalismo o il tardo capitalismo. Durante la fase di scrittura mi venne in mente questo episodio e mi sembrò naturale inserirlo per mostrare, metaforicamente, come questa nave, o meglio il sottomarino del capitalismo, stia affondando.
Nel piano sequenza si può vedere anche uno dei molteplici cambi di formato del film per mettere in risalto l’ambiente claustrofobico della cucina rispetto a quello più “aperto” della sala o dell’esterno del ristorante, una scelta stilistica che non risulta mai stucchevole.
La scelta del cambio di formato è stata per lo più dettata dalla volontà di trasportare lo spettatore negli spazi della cucina in una maniera “subconscia”. Lo spettatore medio, a volte, non se ne accorge se fatto in maniera meno vistosa. All’inizio il formato è più largo, poi quando Estela entra dalla porta posteriore dentro il The Grill, il formato si stringe, e rimane così per la maggior parte del film. Poi durante la pausa pranzo, Pedro guarda in alto il cielo e il formato si “apre”, proprio per mostrare quel momento in cui il personaggio può “respirare” di nuovo. Mi piace sperimentare con i cambi di formato, penso che l’intero atto del fare un film sia un’esperienza giocosa nel quale si hanno dei mezzi a disposizione e bisogna creare nuovi linguaggi con essi. I diversi formati sono alcuni di questi mezzi e ho sempre usato i cambi dell’aspect ratio intenzionalmente nel corso della mia carriera.
Visto che hai citato Estela, è arrivato il momento di chiederti di questo personaggio. All’inizio sembra che sia lei il focus di Aragoste a Manhattan, ma questo cambia quando verso il venticinquesimo minuto entra in scena Pedro, la cui presenza inizierà a dominare il film. Ma la presenza di Estela permane comunque, come se volessi mostrare una sorta di alter ego di Pedro, da una parte la sfrontatezza di un veterano dell’ambiente, dall'altra la timidezza di un nuovo arrivato. Questo parallelismo diventa fondamentale anche nella parte finale perché Pedro non è l’unico a vedere il “secondo” raggio verde alieno.
Il rapporto tra i due è piuttosto interessante perché provengono dallo stesso posto, sono parte della stessa “famiglia” e probabilmente lei prenderà il posto di Pedro. Forse un giorno diventerà il nuovo Pedro, oppure imparerà dai suoi errori. La loro connessione è profonda e ciò che succederà ai due “dopo il film” rimane un'incognita, soprattutto per Estela.
Dando spazio anche a diversi personaggi chiave oltre ai protagonisti sei riuscito a trasmettere le molteplici sfaccettature dell’esperienza dell’immigrazione, una tematica che, purtroppo, non viene sempre espressa o sviluppata con la giusta attenzione, come se si volesse sminuire e omogeneizzare il vissuto di tutti gli immigrati.
Se fosse stato un film americano gli immigrati sarebbero apparsi solo sullo sfondo, giusto per dare un po’ più di “colore” al cast. Ma qui la dinamica è invertita, loro sono il centro del film. Era importante vedere i differenti trascorsi dei personaggi e come questi siano accomunati dalle continue battaglie che devono affrontare per realizzare i propri sogni.
Raúl Briones in La Cocina
Volevi fare anche un paragone sull’esperienza dell’immigrazione con quella dei senzatetto?
Si, la premessa di un senzatetto che entra nella cucina era già presente nello spettacolo di Wesker. Una scelta che ho sempre reputato interessante perché questo personaggio è l’unico all’interno della storia che viene trattato con gentilezza da parte di Pedro, lo tratta con una certa dignità. Quest’ultimo aspetto è risultato fondamentale mentre scrivevo la sceneggiatura e ricercavo lo “stile di vita” dei senzatetto. Abbiamo fatto street casting e mentre parlavo con loro, ci siamo resi conto quanto negli Stati Uniti l’esistenza di queste persone sia profondamente triste, molte di esse avevano carriere e lauree alle spalle. Ho scoperto questo ragazzo che su YouTube pubblica dei video nei quali intervista dei senzatetto, cercando di raccontare le loro storie e dare dignità a queste persone. Avevo sentito storie incredibili, quella del senzatetto che lavorava in banca che senti nel film è tratta da uno di questi racconti reali. Avere queste persone nel film è un reminder di quanto la società e il sistema dietro ad essa siano problematici. La macchina del capitalismo è ormai rotta e i senzatetto sono le vittime principali di essa, la loro presenza è stata quindi essenziale all’interno del film.
Vorrei concludere questa piacevole conversazione chiedendoti di un altro aspetto con cui hai sperimentato all’interno del film; un paio di volte hai ripreso delle sequenze utilizzando un frame rate più basso, che regala una sensazione di appannamento.
Sono stato influenzato dai lavori di Masahisa Fukase, fotografo giapponese specializzato nel creare immagini espressioniste in bianco e nero. Sono ossessionato dalle sue fotografie e volevo cercare di catturare la sensazione che emanano, un livello di soggettività e violenza dato proprio da questo offuscamento. Era consono allo stato mentale di Estela e come si sentiva. Inoltre, quando ti trovi in quel preciso “stato di vulnerabilità”, provi una sorta di cecità psichica. Vedi le cose, ma non le guardi. Sei in ansia o in preda al nervoso e non riesci a concentrarti, soprattutto quando sei in un luogo non familiare o straniero appunto. Questa cecità psichica affligge Estela quando arriva per la prima volta a Manhattan, o quando sta per finire il momento più caotico del servizio e tutti iniziano ad urlare contro di lei, quindi mi è sembrato naturale utilizzare un’immagine con un basso frame rate che rispecchiasse i suoi sentimenti di spaesamento.
Il trailer di La Cocina