di Lorenzo Messina
NC-300
09.05.2025
Ci sono film che parlano a voce alta, che impongono il proprio messaggio come un urlo. E poi ci sono film come Vermiglio, che sussurrano. Si adagiano dentro di noi, come neve fresca su un paesaggio alpino dominato dal silenzio, chiedendoci una sola cosa: di restare fermi, in ascolto, per capirli senza rovinarne la perfezione.
Negli anni ’70, Ermanno Olmi girò una pellicola per celebrare la pianura bergamasca, a cui era profondamente legato nonostante le sue origini fossero in realtà radicate in città, precisamente nel quartiere Malpensata di Bergamo, dove oggi si trova un parco intitolato a suo nome. Il suo film L'albero degli zoccoli (1978) - vincitore della Palma d'Oro alla 31ª edizione del Festival di Cannes - offriva una visione nostalgica della vita contadina, con immagini che si ponevano di fronte allo spettatore come veri e propri quadri. Era un periodo in cui sembrava improbabile che un'opera tardo-neorealista, che esplorava tematiche preindustriali, potesse riscuotere un tale successo. In tempi recenti, la regista Maura Delpero - già nota per Maternal (2019) e presente questi giorni al Bellaria Film Festival per ritirare il premio BFF43, i film che liberano la testa - ha intrapreso un percorso artistico per certi versi simile, rappresentato appunto da Vermiglio, vincitore di sette David di Donatello e del Leone d'Argento all'81ª edizione della Mostra d'arte cinematografica di Venezia.
Vermiglio, ambientato in un remoto paesino montano nel 1944, è un'opera che si muove tra la realtà storica e la poesia visiva. Racconta senza spiegare, invitando alla riflessione. E lo fa con estrema delicatezza.
Maura Delpero a lavoro sul set di Vermiglio (2024)
L'albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi
Seppur collocato nel cuore del Trentino durante gli sgoccioli del secondo conflitto mondiale, Vermiglio non è un film sulla guerra, ma su ciò che essa lascia intorno a sè. Nessun episodio bellico. Solo case isolate, donne di altri tempi, bambini che crescono in fretta e un paesaggio che osserva, indifferente e solenne. La storia si concentra sulle vicende della numerosa famiglia Graziadei. In particolare, sulle tre sorelle adolescenti - Lucia, Ada e Flavia - ciascuna alle prese con le proprie sfide personali e l'ingresso nell'età adulta. Cesare (interpretato da Tommaso Ragno), è un padre severo e rispettato, un insegnante la cui competenza nella lingua scritta si contrappone alla difficoltà nel comunicare apertamente a voce le emozioni e i pensieri più intimi. La madre, Adele, è una figura solida, ancorata alla terra e invisibile al mondo. Ma è lei la vera colonna portante della casa, anche se il lungometraggio non lo dichiara mai apertamente.
I dialoghi, in lingua autoctona e con sottotitoli, enfatizzano l’isolamento del piccolo borgo di Vermiglio, il cui nome regala il titolo al film. Oltre all'impiego del dialetto locale, vi sono numerose affinità con il lavoro di Olmi: la rappresentazione di una comunità rurale preindustriale ben lontana dai comfort della vita moderna, la quotidianità e le dinamiche comunitarie raccontate con semplicità, una persistente atmosfera invernale che accompagna la narrazione, collocata in periodi di transizione storica tra passato e modernità, e la descrizione di come le piccole comunità reagiscono ai cambiamenti globali.
La fotografia di Vermiglio, a cura di Mikhail Krichman, delinea un cinema fatto di paesaggi e finestre sul nulla, luci e ombre che scolpiscono volti e corpi. La montagna non viene trattata come uno sfondo, ma come un'ulteriore personaggio. La neve diventa quasi una seconda pelle, un simbolo del tempo che passa anche se può sembrare sospeso, e della vita congelata in attesa di qualcosa che forse non arriverà mai.
Il nucleo familiare di Vermiglio (2024)
Il punto di rottura della storia è rappresentato da Pietro, un disertore siciliano. Il suo arrivo sconvolge l'equilibrio della famiglia e del villaggio, portando alla luce tensioni latenti e desideri repressi. La sua presenza è una minaccia nel sistema chiuso della famiglia. Un intruso gentile, ma pur sempre un intruso. Eppure Delpero non indugia mai nella retorica del conflitto. Il dramma è rarefatto, le tensioni diluite. Anche quando le emozioni arrivano, lo fanno con riserbo. La guerra, così come la morte, sebbene non siano mai mostrate direttamente, sono un'ombra che incombe sulle vite dei personaggi.
Il paragone con Olmi non è solo inevitabile, ma necessario. Come in L’albero degli zoccoli, Vermiglio esplora la sacralità del quotidiano. Ma se Olmi costruiva le sue storie con la tenerezza del contadino che conosce la terra, Delpero le guarda da un’altra prospettiva: quella di chi ha vissuto i racconti dei nonni e i loro ricordi. Nella pellicola il tempo scorre seguendo il ritmo delle stagioni, e le parole si adattano ad esse. In questo senso, Vermiglio è anche un film sul linguaggio: quello delle madri, dei padri assenti, dell’amore, dei figli che non trovano spazio, dei bambini ricolmi di curiosità che scoprono per la prima volta le dinamiche della vita.
Ermanno Olmi e Maura Delpero condividono una narrativa in cui i personaggi non hanno il privilegio di essere epici, ma vengono osservati con cura, la stessa cura con cui si guarda un volto dormiente. Non c'è giudizio, non c'è manipolazione. C'è la vita così com'è. In L’albero degli zoccoli, la macchina da presa si faceva terra, si caricava della fatica e della fede contadina, aderendo ai ritmi lenti e ciclici della semina e del raccolto. In Vermiglio, invece, la cinepresa si trasforma in neve e ghiaccio, si fa attesa gelida, privazione, sottrazione, attraversando quel tempo rarefatto e sospeso in cui si consuma il desiderio e si patisce la mancanza.
La vita contadina rappresentata nel capolavoro di Olmi
Delpero sembra dunque raccogliere l'eredità più intima del cinema di Olmi: quella del pudore. Pudore dello sguardo, pudore della parola, pudore persino nel dolore. I suoi personaggi nascondono le proprie ferite in gesti minimi, in sguardi spenti. C'è una sorta di spiritualità che attraversa le due filmografie: l'idea che la salvezza, se esiste, passa per la capacità di restare. Restare nel luogo in cui si è nati, nel corpo che ci è toccato, nell'amore che ci è stato concesso.
La scelta di lavorare con attori non professionisti e l'uso del dialetto sono due scelte coraggiose che pagano. Non c'è nulla di artefatto in Vermiglio: la sua autenticità è quasi documentaristica, ma mai fredda. E anche se a tratti si ha la sensazione di essere esclusi da un mondo che parla un'altro linguaggio, questa distanza si trasforma in rispetto e curiosità. Persino il tempo è trattato con reverenza. Vermiglio non corre, non cerca scorciatoie. Lascia spazio ai silenzi, agli oggetti, agli animali. La sequenza in cui una delle sorelle accarezza la mucca nella stalla vale più di cento dialoghi. Come in Olmi, anche qui l'animale non è decorazione: è presenza, simbolo di vita.
Non è un film facile. Non vuole esserlo. Ma se ci si lascia andare, Vermiglio riesce a insinuarsi dentro come un ricordo d'infanzia, impossibile da scrollarsi di dosso. Ci ricorda che il dolore non sempre urla e che l'amore può scorrere anche in una carezza sfuggita. Un lungometraggio che ascolta il silenzio e non ha paura del vuoto. In un'epoca moderna in cui le tradizioni e la lingua madre vengono sempre più spesso dimenticate, schiavi di una globalizzazione che troppo spesso è sinonimo di omologazione, Vermiglio rappresenta un atto di fiducia nei confronti del passato. E anche questo, forse, è un gesto rivoluzionario.
Vermiglio è una pellicola che richiede attenzione e sensibilità, una storia che parla attraverso i silenzi, gli sguardi e i gesti quotidiani. È il ritratto delicato e profondo di una famiglia, e di una comunità, alle prese con i cambiamenti portati dalla guerra e dal tempo. Un'opera che, come le montagne in cui è ambientata, rivela la sua grandezza nella sua apparente, e disarmante, semplicità.
La splendida fotografia di Vermiglio (2024)
di Lorenzo Messina
NC-300
09.05.2025
Maura Delpero a lavoro sul set di Vermiglio (2024)
Ci sono film che parlano a voce alta, che impongono il proprio messaggio come un urlo. E poi ci sono film come Vermiglio, che sussurrano. Si adagiano dentro di noi, come neve fresca su un paesaggio alpino dominato dal silenzio, chiedendoci una sola cosa: di restare fermi, in ascolto, per capirli senza rovinarne la perfezione.
Negli anni ’70, Ermanno Olmi girò una pellicola per celebrare la pianura bergamasca, a cui era profondamente legato nonostante le sue origini fossero in realtà radicate in città, precisamente nel quartiere Malpensata di Bergamo, dove oggi si trova un parco intitolato a suo nome. Il suo film L'albero degli zoccoli (1978) - vincitore della Palma d'Oro alla 31ª edizione del Festival di Cannes - offriva una visione nostalgica della vita contadina, con immagini che si ponevano di fronte allo spettatore come veri e propri quadri. Era un periodo in cui sembrava improbabile che un'opera tardo-neorealista, che esplorava tematiche preindustriali, potesse riscuotere un tale successo. In tempi recenti, la regista Maura Delpero - già nota per Maternal (2019) e presente questi giorni al Bellaria Film Festival per ritirare il premio BFF43, i film che liberano la testa - ha intrapreso un percorso artistico per certi versi simile, rappresentato appunto da Vermiglio, vincitore di sette David di Donatello e del Leone d'Argento all'81ª edizione della Mostra d'arte cinematografica di Venezia.
Vermiglio, ambientato in un remoto paesino montano nel 1944, è un'opera che si muove tra la realtà storica e la poesia visiva. Racconta senza spiegare, invitando alla riflessione. E lo fa con estrema delicatezza.
L'albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi
Seppur collocato nel cuore del Trentino durante gli sgoccioli del secondo conflitto mondiale, Vermiglio non è un film sulla guerra, ma su ciò che essa lascia intorno a sè. Nessun episodio bellico. Solo case isolate, donne di altri tempi, bambini che crescono in fretta e un paesaggio che osserva, indifferente e solenne. La storia si concentra sulle vicende della numerosa famiglia Graziadei. In particolare, sulle tre sorelle adolescenti - Lucia, Ada e Flavia - ciascuna alle prese con le proprie sfide personali e l'ingresso nell'età adulta. Cesare (interpretato da Tommaso Ragno), è un padre severo e rispettato, un insegnante la cui competenza nella lingua scritta si contrappone alla difficoltà nel comunicare apertamente a voce le emozioni e i pensieri più intimi. La madre, Adele, è una figura solida, ancorata alla terra e invisibile al mondo. Ma è lei la vera colonna portante della casa, anche se il lungometraggio non lo dichiara mai apertamente.
I dialoghi, in lingua autoctona e con sottotitoli, enfatizzano l’isolamento del piccolo borgo di Vermiglio, il cui nome regala il titolo al film. Oltre all'impiego del dialetto locale, vi sono numerose affinità con il lavoro di Olmi: la rappresentazione di una comunità rurale preindustriale ben lontana dai comfort della vita moderna, la quotidianità e le dinamiche comunitarie raccontate con semplicità, una persistente atmosfera invernale che accompagna la narrazione, collocata in periodi di transizione storica tra passato e modernità, e la descrizione di come le piccole comunità reagiscono ai cambiamenti globali.
La fotografia di Vermiglio, a cura di Mikhail Krichman, delinea un cinema fatto di paesaggi e finestre sul nulla, luci e ombre che scolpiscono volti e corpi. La montagna non viene trattata come uno sfondo, ma come un'ulteriore personaggio. La neve diventa quasi una seconda pelle, un simbolo del tempo che passa anche se può sembrare sospeso, e della vita congelata in attesa di qualcosa che forse non arriverà mai.
Il nucleo familiare di Vermiglio (2024)
Il punto di rottura della storia è rappresentato da Pietro, un disertore siciliano. Il suo arrivo sconvolge l'equilibrio della famiglia e del villaggio, portando alla luce tensioni latenti e desideri repressi. La sua presenza è una minaccia nel sistema chiuso della famiglia. Un intruso gentile, ma pur sempre un intruso. Eppure Delpero non indugia mai nella retorica del conflitto. Il dramma è rarefatto, le tensioni diluite. Anche quando le emozioni arrivano, lo fanno con riserbo. La guerra, così come la morte, sebbene non siano mai mostrate direttamente, sono un'ombra che incombe sulle vite dei personaggi.
Il paragone con Olmi non è solo inevitabile, ma necessario. Come in L’albero degli zoccoli, Vermiglio esplora la sacralità del quotidiano. Ma se Olmi costruiva le sue storie con la tenerezza del contadino che conosce la terra, Delpero le guarda da un’altra prospettiva: quella di chi ha vissuto i racconti dei nonni e i loro ricordi. Nella pellicola il tempo scorre seguendo il ritmo delle stagioni, e le parole si adattano ad esse. In questo senso, Vermiglio è anche un film sul linguaggio: quello delle madri, dei padri assenti, dell’amore, dei figli che non trovano spazio, dei bambini ricolmi di curiosità che scoprono per la prima volta le dinamiche della vita.
Ermanno Olmi e Maura Delpero condividono una narrativa in cui i personaggi non hanno il privilegio di essere epici, ma vengono osservati con cura, la stessa cura con cui si guarda un volto dormiente. Non c'è giudizio, non c'è manipolazione. C'è la vita così com'è. In L’albero degli zoccoli, la macchina da presa si faceva terra, si caricava della fatica e della fede contadina, aderendo ai ritmi lenti e ciclici della semina e del raccolto. In Vermiglio, invece, la cinepresa si trasforma in neve e ghiaccio, si fa attesa gelida, privazione, sottrazione, attraversando quel tempo rarefatto e sospeso in cui si consuma il desiderio e si patisce la mancanza.
La vita contadina rappresentata nel capolavoro di Olmi
Delpero sembra dunque raccogliere l'eredità più intima del cinema di Olmi: quella del pudore. Pudore dello sguardo, pudore della parola, pudore persino nel dolore. I suoi personaggi nascondono le proprie ferite in gesti minimi, in sguardi spenti. C'è una sorta di spiritualità che attraversa le due filmografie: l'idea che la salvezza, se esiste, passa per la capacità di restare. Restare nel luogo in cui si è nati, nel corpo che ci è toccato, nell'amore che ci è stato concesso.
La scelta di lavorare con attori non professionisti e l'uso del dialetto sono due scelte coraggiose che pagano. Non c'è nulla di artefatto in Vermiglio: la sua autenticità è quasi documentaristica, ma mai fredda. E anche se a tratti si ha la sensazione di essere esclusi da un mondo che parla un'altro linguaggio, questa distanza si trasforma in rispetto e curiosità. Persino il tempo è trattato con reverenza. Vermiglio non corre, non cerca scorciatoie. Lascia spazio ai silenzi, agli oggetti, agli animali. La sequenza in cui una delle sorelle accarezza la mucca nella stalla vale più di cento dialoghi. Come in Olmi, anche qui l'animale non è decorazione: è presenza, simbolo di vita.
Non è un film facile. Non vuole esserlo. Ma se ci si lascia andare, Vermiglio riesce a insinuarsi dentro come un ricordo d'infanzia, impossibile da scrollarsi di dosso. Ci ricorda che il dolore non sempre urla e che l'amore può scorrere anche in una carezza sfuggita. Un lungometraggio che ascolta il silenzio e non ha paura del vuoto. In un'epoca moderna in cui le tradizioni e la lingua madre vengono sempre più spesso dimenticate, schiavi di una globalizzazione che troppo spesso è sinonimo di omologazione, Vermiglio rappresenta un atto di fiducia nei confronti del passato. E anche questo, forse, è un gesto rivoluzionario.
Vermiglio è una pellicola che richiede attenzione e sensibilità, una storia che parla attraverso i silenzi, gli sguardi e i gesti quotidiani. È il ritratto delicato e profondo di una famiglia, e di una comunità, alle prese con i cambiamenti portati dalla guerra e dal tempo. Un'opera che, come le montagne in cui è ambientata, rivela la sua grandezza nella sua apparente, e disarmante, semplicità.
La splendida fotografia di Vermiglio (2024)