di Omar Franini
NC-195
15.03.2024
Dopo aver compiuto una panoramica su quella che è stata la 74ª edizione del Festival di Berlino, e cercato di analizzare le scelte della giuria e i vari vincitori, è arrivato il momento di approfondire le pellicole che ci hanno maggiormente colpito. Vi proponiamo quindi una selezione dei migliori film presentati durante la Berlinale che vi consigliamo, assolutamente, di recuperare.
Comme le feu, di Philippe Lesage
© Balthazar Lab
Il cinema di Philippe Lesage è sempre stato caratterizzato da storie che ruotano attorno all’universo giovanile. Nei suoi tre lungometraggi, ha raccontato dei coming of age estremamente originali, dando spazio a differenti punti di vista a seconda dell’età dei protagonisti e mettendo in mostra una crescita spesso dovuta a determinate situazioni che li circondano. Comme le feu, film vincitore della sezione Generation 14plus, narra le vicende di Jeff, un diciassettenne che viene invitato dall' amico Max ad unirsi alla sua famiglia per passare le vacanze nell’isolata residenza del celebre regista Blake Cadieux. Una volta arrivati all’abitazione insieme ad altri ospiti, quel posto, all’apparenza paradisiaco, diventerà un microcosmo caotico dominato da tensione, astio reciproco e rancori passati mai venuti a galla. A differenza delle opere precedenti di Lesage, dove gli adulti ricoprivano un ruolo piuttosto secondario, se non marginale, in Comme le feu essi diventano protagonisti allo stesso livello dei giovani, una scelta piuttosto interessante visto il discorso portato avanti dal regista nei suoi film. Infatti, lo scopo di Lesage è quello di contrapporre gli adulti, che regrediscono a un livello quasi infantile pur di ottenere la ragione, agli adolescenti, che invece devono maturare in fretta per sostituirsi ai più anziani. Oltre all’approccio sincero ed umanista con cui il cineasta affronta certe tematiche, quello che stupisce di più è l’abilità con cui riesce a trasportare lo spettatore all’interno della storia attraverso la posizione della macchina da presa, come nelle sequenze dei dibattiti a tavola.
Direct Action, di Guillaume Cailleau e Ben Russell
© Caskfilms
Nel 2009, il governo francese commissionò l’edificazione di un aeroporto in un pezzo di terra nel nord-ovest della Francia, una decisione che non fu presa bene dalla popolazione e che scatenò per anni forti manifestazione da parte della ZAD (Zone À Défendre) de Notre-Dams-des-Landes, organizzazione attivista che occupa e blocca i progetti urbani. Formata da allevatori, agricoltori ed ecologisti e dopo anni di “battaglia”, la ZAD riuscì a bloccare definitivamente la costruzione dell’aeroporto. Al Festival di Berlino è stato presentato Direct Action, vincitore della sezione Encounters, un documentario che esplora la vita di alcuni membri della ZAD qualche anno dopo questa storica vittoria. Negli scorsi anni, film e documentari vari hanno provato a raccontare la storia di questo gruppo di attivisti con risultati altalenanti. I cineasti Ben Russell e Guillaume Cailleau hanno optato per un approccio opposto e a tratti radicale, nel quale regalano una panoramica a 360 gradi sulla vita quotidiana dei componenti del gruppo. Direct Action omaggia la vita rurale, mettendo in evidenza l’importanza di certi gesti e lavori manuali, come ad esempio, l’allenamento dei cavalli, la forgiatura del ferro o il semplice gesto di impastare una pagnotta di pane. L’ambizione narrativa del documentario trova riscontro anche attraverso una forma stilistica ricercata, nel quale i registi utilizzano per lo più dei tableaux vivants per raccontare la quotidianità delle persone coinvolte nella storia, una scelta coerente e azzeccata poiché dona una sensazione quasi magnetica e ipnotica. La durata di tre ore e mezza mette alla prova la pazienza dello spettatore, ma alla fine la visione risulta piuttosto gratificante, soprattutto nell’ultima parte, dove i cineasti si focalizzano maggiormente sulle proteste.
Dormir de olhos abertos, di Nehe Wolhatz
© Victor Juca
Il vissuto di Nele Wholatz a Buenos Aires é stata una fase fondamentale durante la sua formazione cinematografica. In questo periodo la regista tedesca iniziò a chiedersi quale fosse il suo “luogo di appartenenza”, da questa riflessione nacquero degli affascinanti esperimenti cinematografici che approfondivano il senso di adattamento ad una diversa cultura . Questi leitmotifs si possono ritrovare anche in Dormir de olhos abertos, il suo terzo lungometraggio presentato nella sezione Encounters. Ambientato a Recife, metropoli tanto celebrata dal produttore e cineasta Kleber Mendonça Filho, il film segue le vicende di Kai - una giovane ragazza taiwanese trasferitasi in quel luogo per ricominciare una nuova vita - e le varie difficoltà che dovrà affrontare. Wohlatz dirige un’opera affascinante, un mix tra finzione e documentario (aspetto messo in risalto per lo più da attori non professionisti), nella quale mostra il contrasto culturale tra la popolazione locale e quella straniera. Ciò che stupisce dell’opera non è solo il modo in cui la regista riesce a descrivere il senso di comunità tra persone di diverse culture, ma anche come la storia acquisisca una certa universalità, come se Wohlatz avesse potuto raccontare questa vicenda in qualsiasi città del mondo.
I Saw the TV Glow, di Jane Schoenbrun
© A24
Dopo aver conquistato il pubblico del Sundance Film Festival, Jane Schoenbrun (They/Them) approdano al Festival di Berlino per presentare I Saw The TV Glow. Il film è un affascinante ed essenziale analisi sull’identità queer. Ambientato nel corso di otto anni, il lungometraggio esplora l’amicizia tra Owen e Maddy, due ragazzi ossessionati da The Pink Opaque, uno show televisivo che narra di due ragazze che devono combattere contro delle forze soprannaturali. Questa fissazione permette ai due protagonisti di distorcere la propria esistenza e di entrare in un “universo” che, a tratti, sembra avere più senso della realtà in cui vivono. Quello che stupisce dell’opera è l’innovativa regia di Schoenbrun e il modo in cui sono in grado di utilizzare la pop culture e le “tecnologie” di un determinato periodo storico. Come in We’re All Going to the World’s Fair, la transizione di genere è al centro dell’opera e per compiere un complesso discorso su questo argomento, Schoenbrun adoperano un approccio body horror che richiama le grandi opere di cineasti come Cronenberg o Lynch. I Saw The Tv Glow è destinato a diventare un cult e conferma l’enorme talento di una delle menti più innovative del panorama cinematografico indipendente americano.
La Cocina, di Alfonso Ruizpalacios
© Juan Pablo Ramírez / Filmadora
Uno dei grandi snobbati dalla serata dei premi è stato sicuramente La Cocina di Alonso Ruizpalacios. Ambientato all’interno di una cucina newyorkese, il film analizza le diverse dinamiche tra i membri della brigata, seguendo vari punti di vista, tra cui quello del cuoco Pedro (Raúl Briones, alla terza collaborazione con il cineasta), della cameriera Julia (Rooney Mara) e infine di Estela (Anna Diaz), una cuoca ventenne appena emigrata a New York. Negli ultimi anni, sono stati realizzati diversi film e serie tv incentrati sul mondo della ristorazione, ma nessuno ha mai utilizzato questo ambiente da un punto di vista metaforico. Infatti, Ruizpalacios utilizza questo microcosmo per rappresentare lo spaccato di una società caratterizzata dalla lotta di classe e di genere. Il punto di forza dell’opera sono le scelte registiche del cineasta; tra cui spicca il cambio di formato per mettere in evidenza il clima claustrofobico della cucina in contrasto con l’ambiente più “disteso” della sala, oppure l’uso del bianco e nero per mostrare una storia senza tempo, che potrebbe essere ambientata in qualsiasi epoca, e infine il brillante uso del freeze frame per rimarcare ancora di più lo spaesamento della giovane Estela. Da segnalare inoltre un piano sequenza, della durata di dodici minuti, durante il momento più caotico del servizio, una scena che si candida già per essere una delle migliori dell’intera annata. Nonostante qualche metafora un po’ troppo ridondante e una rimarcazione piuttosto evidente del concetto di lotta di classe, il quarto lungometraggio di Ruizpalacios rimane una delle migliori visioni del Festival di Berlino 2024.
Shambhala, di Min Bahadur Bham
© Aditya Basnet / Shooney Films
Una delle sorprese più piacevoli dalla Berlinale viene direttamente dalla Competizione e, più nello specifico, dal Nepal, paese che in passato è stato spesso trascurato dalle manifestazioni cinematografiche. Quest’anno c’è stata una svolta e, per la prima volta nella storia, una produzione nepalese si è trovata sotto i riflettori di un rinomato festival europeo. “Shambhala” è un termine sanscrito che significa “luogo di felicità e pace interiore”, un concetto che fa da base al secondo lungometraggio di Min Bahadur Bham. Ambientato in Nepal, il film racconta di Pema, una donna incinta che parte alla ricerca di uno dei suoi mariti. L’uomo ha deciso di abbandonarla poiché crede che il figlio che la donna porta in grembo non sia suo. Con un ritmo lento e contemplativo, risaltato dal continuo uso di piani sequenza per riflettere l’esistenza pacata delle popolazioni autoctone nepalesi, Min Bahadur Bham confeziona un meraviglioso “road movie” che trasporta lo spettatore in una realtà sconosciuta. Nonostante la lunga durata di due ore e mezza, la visione risulta gratificante, soprattutto negli ultimi venti minuti, dove prende una piega più onirica e poetica.
Sterben, di Matthias Glasner
© Jakub Bejnarowicz / Port au Prince, Schwarzweiss, Senator
Sterben, la nuova eccezionale opera di Matthias Glasner vincitrice del premio per la Miglior Sceneggiatura, racconta la storia dei Lunies, una famiglia disfunzionale formata dalla cinica matriarca Lissy (Corinna Harfouch), il marito morente Gerd (Hans-Uwe Bauer) e i due figli Tom (Lars Eidinger), un direttore d’orchestra che sta lavorando su un brano intitolato “Sterben”, ovvero “morire”, e Eileen (Lilith Stangenberg), la pecora nera della famiglia, una donna alcolizzata che ha una relazione tossica con Sebastian (Ronald Zehrfeld), un uomo sposato. La morte del padre Gerd rappresenterà l’occasione per cercare di riunire la famiglia, ma la triste situazione deteriorerà ancora di più dei già fragili legami. Come nei suoi film precedenti, Glasner dirige un’opera che trasmette una sensazione di disagio e fastidio nello spettatore per tutta la sua durata, ma, a differenza di Der freie Wille (2006), l’operazione compiuta dal cineasta sul tono del film è qualcosa di straordinario e raro da trovare. Glasner analizza argomenti tabù, come la dipendenza, l’influenza negativa delle figure genitoriali sui figli, la depressione e il suicidio, senza cadere nel classico moralismo, ma presentandoli come un qualcosa di normale e a tratti ironico. Questo si denota soprattutto in una sequenza fondamentale del film, un confronto tra Lissie e Tom che sembra quasi una reinterpretazione in chiave camp di Autumn Sonata (1978) di Ingmar Bergman. La buona riuscita del film dipende anche dalle eccellenti interpretazioni del cast. Gli interpreti sono infatti riusciti a decifrare alla perfezione il tono peculiare dell’opera, soprattutto Stangenberg e Zehrfeld, che tramite la loro chimica riescono a portare sullo schermo tutte le sfumature di un amore grottesco. Originale ed ironicamente irriverente, provocatorio ed estremamente toccante, Sterben è stata la visione migliore del festival a mani basse, l’opera maestra di uno dei cineasti più sottovalutati del panorama cinematografico tedesco.
Il film uscirà prossimamente nelle sale italiane grazie a Satine Films.
Vogter, di Gustav Möller
© Nikolaj Moeller
Terminiamo questa rassegna con Vogter, l’opera seconda di Gustav Möller, un eccellente thriller psicologico con al centro Eva (Sidse Babett Knudsen), una guardia che lavora nella sezione di una prigione che si occupa di carcerati con un alcuni problemi mentali. La donna conduce una vita quieta, dove tenta di aiutare il più possibile i prigionieri cercando di impartirgli un minimo di istruzione. Il suo equilibrio viene però stravolto quando nota che Mikkel (Sebastian Bull), l’assassino di suo figlio, viene recluso nel carcere in cui lavora. Eva decide quindi di trasferirsi nel ramo della prigione dove sono detenute le persone più pericolose per stare vicino al nuovo arrivato e cercare di rendergli la vita un inferno. Con una durata di soli 100 minuti, Möller costruisce una tensione continua, nel quale mette in mostra, in maniera veramente originale, non solo il trauma e la sete di vendetta della protagonista, ma anche le diverse dinamiche di potere tra guardia e prigioniero con continui cambi di fronte, sovvertendo abilmente quella che poteva diventare facilmente una storia stereotipata. La regia claustrofobia di Möller impressiona sin da subito tramite il competente uso di close up sul volto di Knudsen e la scelta di un aspect ratio leggermente più largo del 4:3. Ma il vero punto di forza sono i due interpreti centrali e la loro incredibile chimica. Sidse Babett Knudsen, una delle grandi snobbate dalla cerimonia dei premi, porta sullo schermo una magistrale interpretazione minimalista, dove i suoi intensi sguardi mostrano una complessa morale dietro a una donna sofferente, le cui spregevoli azioni risultano in qualche modo “giustificate”.
Vogter verrà distribuito prossimamente nelle sale italiane da Movies Inspired.
di Omar Franini
NC-195
15.03.2024
Dopo aver compiuto una panoramica su quella che è stata la 74ª edizione del Festival di Berlino, e cercato di analizzare le scelte della giuria e i vari vincitori, è arrivato il momento di approfondire le pellicole che ci hanno maggiormente colpito. Vi proponiamo quindi una selezione dei migliori film presentati durante la Berlinale che vi consigliamo, assolutamente, di recuperare.
Comme le feu, di Philippe Lesage
© Balthazar Lab
Il cinema di Philippe Lesage è sempre stato caratterizzato da storie che ruotano attorno all’universo giovanile. Nei suoi tre lungometraggi, ha raccontato dei coming of age estremamente originali, dando spazio a differenti punti di vista a seconda dell’età dei protagonisti e mettendo in mostra una crescita spesso dovuta a determinate situazioni che li circondano. Comme le feu, film vincitore della sezione Generation 14plus, narra le vicende di Jeff, un diciassettenne che viene invitato dall' amico Max ad unirsi alla sua famiglia per passare le vacanze nell’isolata residenza del celebre regista Blake Cadieux. Una volta arrivati all’abitazione insieme ad altri ospiti, quel posto, all’apparenza paradisiaco, diventerà un microcosmo caotico dominato da tensione, astio reciproco e rancori passati mai venuti a galla. A differenza delle opere precedenti di Lesage, dove gli adulti ricoprivano un ruolo piuttosto secondario, se non marginale, in Comme le feu essi diventano protagonisti allo stesso livello dei giovani, una scelta piuttosto interessante visto il discorso portato avanti dal regista nei suoi film. Infatti, lo scopo di Lesage è quello di contrapporre gli adulti, che regrediscono a un livello quasi infantile pur di ottenere la ragione, agli adolescenti, che invece devono maturare in fretta per sostituirsi ai più anziani. Oltre all’approccio sincero ed umanista con cui il cineasta affronta certe tematiche, quello che stupisce di più è l’abilità con cui riesce a trasportare lo spettatore all’interno della storia attraverso la posizione della macchina da presa, come nelle sequenze dei dibattiti a tavola.
Direct Action, di Guillaume Cailleau e Ben Russell
© Caskfilms
Nel 2009, il governo francese commissionò l’edificazione di un aeroporto in un pezzo di terra nel nord-ovest della Francia, una decisione che non fu presa bene dalla popolazione e che scatenò per anni forti manifestazione da parte della ZAD (Zone À Défendre) de Notre-Dams-des-Landes, organizzazione attivista che occupa e blocca i progetti urbani. Formata da allevatori, agricoltori ed ecologisti e dopo anni di “battaglia”, la ZAD riuscì a bloccare definitivamente la costruzione dell’aeroporto. Al Festival di Berlino è stato presentato Direct Action, vincitore della sezione Encounters, un documentario che esplora la vita di alcuni membri della ZAD qualche anno dopo questa storica vittoria. Negli scorsi anni, film e documentari vari hanno provato a raccontare la storia di questo gruppo di attivisti con risultati altalenanti. I cineasti Ben Russell e Guillaume Cailleau hanno optato per un approccio opposto e a tratti radicale, nel quale regalano una panoramica a 360 gradi sulla vita quotidiana dei componenti del gruppo. Direct Action omaggia la vita rurale, mettendo in evidenza l’importanza di certi gesti e lavori manuali, come ad esempio, l’allenamento dei cavalli, la forgiatura del ferro o il semplice gesto di impastare una pagnotta di pane. L’ambizione narrativa del documentario trova riscontro anche attraverso una forma stilistica ricercata, nel quale i registi utilizzano per lo più dei tableaux vivants per raccontare la quotidianità delle persone coinvolte nella storia, una scelta coerente e azzeccata poiché dona una sensazione quasi magnetica e ipnotica. La durata di tre ore e mezza mette alla prova la pazienza dello spettatore, ma alla fine la visione risulta piuttosto gratificante, soprattutto nell’ultima parte, dove i cineasti si focalizzano maggiormente sulle proteste.
Dormir de olhos abertos, di Nehe Wolhatz
© Victor Juca
Il vissuto di Nele Wholatz a Buenos Aires é stata una fase fondamentale durante la sua formazione cinematografica. In questo periodo la regista tedesca iniziò a chiedersi quale fosse il suo “luogo di appartenenza”, da questa riflessione nacquero degli affascinanti esperimenti cinematografici che approfondivano il senso di adattamento ad una diversa cultura . Questi leitmotifs si possono ritrovare anche in Dormir de olhos abertos, il suo terzo lungometraggio presentato nella sezione Encounters. Ambientato a Recife, metropoli tanto celebrata dal produttore e cineasta Kleber Mendonça Filho, il film segue le vicende di Kai - una giovane ragazza taiwanese trasferitasi in quel luogo per ricominciare una nuova vita - e le varie difficoltà che dovrà affrontare. Wohlatz dirige un’opera affascinante, un mix tra finzione e documentario (aspetto messo in risalto per lo più da attori non professionisti), nella quale mostra il contrasto culturale tra la popolazione locale e quella straniera. Ciò che stupisce dell’opera non è solo il modo in cui la regista riesce a descrivere il senso di comunità tra persone di diverse culture, ma anche come la storia acquisisca una certa universalità, come se Wohlatz avesse potuto raccontare questa vicenda in qualsiasi città del mondo.
I Saw the TV Glow, di Jane Schoenbrun
© A24
Dopo aver conquistato il pubblico del Sundance Film Festival, Jane Schoenbrun (They/Them) approdano al Festival di Berlino per presentare I Saw The TV Glow. Il film è un affascinante ed essenziale analisi sull’identità queer. Ambientato nel corso di otto anni, il lungometraggio esplora l’amicizia tra Owen e Maddy, due ragazzi ossessionati da The Pink Opaque, uno show televisivo che narra di due ragazze che devono combattere contro delle forze soprannaturali. Questa fissazione permette ai due protagonisti di distorcere la propria esistenza e di entrare in un “universo” che, a tratti, sembra avere più senso della realtà in cui vivono. Quello che stupisce dell’opera è l’innovativa regia di Schoenbrun e il modo in cui sono in grado di utilizzare la pop culture e le “tecnologie” di un determinato periodo storico. Come in We’re All Going to the World’s Fair, la transizione di genere è al centro dell’opera e per compiere un complesso discorso su questo argomento, Schoenbrun adoperano un approccio body horror che richiama le grandi opere di cineasti come Cronenberg o Lynch. I Saw The Tv Glow è destinato a diventare un cult e conferma l’enorme talento di una delle menti più innovative del panorama cinematografico indipendente americano.
La Cocina, di Alfonso Ruizpalacios
© Juan Pablo Ramírez / Filmadora
Uno dei grandi snobbati dalla serata dei premi è stato sicuramente La Cocina di Alonso Ruizpalacios. Ambientato all’interno di una cucina newyorkese, il film analizza le diverse dinamiche tra i membri della brigata, seguendo vari punti di vista, tra cui quello del cuoco Pedro (Raúl Briones, alla terza collaborazione con il cineasta), della cameriera Julia (Rooney Mara) e infine di Estela (Anna Diaz), una cuoca ventenne appena emigrata a New York. Negli ultimi anni, sono stati realizzati diversi film e serie tv incentrati sul mondo della ristorazione, ma nessuno ha mai utilizzato questo ambiente da un punto di vista metaforico. Infatti, Ruizpalacios utilizza questo microcosmo per rappresentare lo spaccato di una società caratterizzata dalla lotta di classe e di genere. Il punto di forza dell’opera sono le scelte registiche del cineasta; tra cui spicca il cambio di formato per mettere in evidenza il clima claustrofobico della cucina in contrasto con l’ambiente più “disteso” della sala, oppure l’uso del bianco e nero per mostrare una storia senza tempo, che potrebbe essere ambientata in qualsiasi epoca, e infine il brillante uso del freeze frame per rimarcare ancora di più lo spaesamento della giovane Estela. Da segnalare inoltre un piano sequenza, della durata di dodici minuti, durante il momento più caotico del servizio, una scena che si candida già per essere una delle migliori dell’intera annata. Nonostante qualche metafora un po’ troppo ridondante e una rimarcazione piuttosto evidente del concetto di lotta di classe, il quarto lungometraggio di Ruizpalacios rimane una delle migliori visioni del Festival di Berlino 2024.
Shambhala, di Min Bahadur Bham
© Aditya Basnet / Shooney Films
Una delle sorprese più piacevoli dalla Berlinale viene direttamente dalla Competizione e, più nello specifico, dal Nepal, paese che in passato è stato spesso trascurato dalle manifestazioni cinematografiche. Quest’anno c’è stata una svolta e, per la prima volta nella storia, una produzione nepalese si è trovata sotto i riflettori di un rinomato festival europeo. “Shambhala” è un termine sanscrito che significa “luogo di felicità e pace interiore”, un concetto che fa da base al secondo lungometraggio di Min Bahadur Bham. Ambientato in Nepal, il film racconta di Pema, una donna incinta che parte alla ricerca di uno dei suoi mariti. L’uomo ha deciso di abbandonarla poiché crede che il figlio che la donna porta in grembo non sia suo. Con un ritmo lento e contemplativo, risaltato dal continuo uso di piani sequenza per riflettere l’esistenza pacata delle popolazioni autoctone nepalesi, Min Bahadur Bham confeziona un meraviglioso “road movie” che trasporta lo spettatore in una realtà sconosciuta. Nonostante la lunga durata di due ore e mezza, la visione risulta gratificante, soprattutto negli ultimi venti minuti, dove prende una piega più onirica e poetica.
Sterben, di Matthias Glasner
© Jakub Bejnarowicz / Port au Prince, Schwarzweiss, Senator
Sterben, la nuova eccezionale opera di Matthias Glasner vincitrice del premio per la Miglior Sceneggiatura, racconta la storia dei Lunies, una famiglia disfunzionale formata dalla cinica matriarca Lissy (Corinna Harfouch), il marito morente Gerd (Hans-Uwe Bauer) e i due figli Tom (Lars Eidinger), un direttore d’orchestra che sta lavorando su un brano intitolato “Sterben”, ovvero “morire”, e Eileen (Lilith Stangenberg), la pecora nera della famiglia, una donna alcolizzata che ha una relazione tossica con Sebastian (Ronald Zehrfeld), un uomo sposato. La morte del padre Gerd rappresenterà l’occasione per cercare di riunire la famiglia, ma la triste situazione deteriorerà ancora di più dei già fragili legami. Come nei suoi film precedenti, Glasner dirige un’opera che trasmette una sensazione di disagio e fastidio nello spettatore per tutta la sua durata, ma, a differenza di Der freie Wille (2006), l’operazione compiuta dal cineasta sul tono del film è qualcosa di straordinario e raro da trovare. Glasner analizza argomenti tabù, come la dipendenza, l’influenza negativa delle figure genitoriali sui figli, la depressione e il suicidio, senza cadere nel classico moralismo, ma presentandoli come un qualcosa di normale e a tratti ironico. Questo si denota soprattutto in una sequenza fondamentale del film, un confronto tra Lissie e Tom che sembra quasi una reinterpretazione in chiave camp di Autumn Sonata (1978) di Ingmar Bergman. La buona riuscita del film dipende anche dalle eccellenti interpretazioni del cast. Gli interpreti sono infatti riusciti a decifrare alla perfezione il tono peculiare dell’opera, soprattutto Stangenberg e Zehrfeld, che tramite la loro chimica riescono a portare sullo schermo tutte le sfumature di un amore grottesco. Originale ed ironicamente irriverente, provocatorio ed estremamente toccante, Sterben è stata la visione migliore del festival a mani basse, l’opera maestra di uno dei cineasti più sottovalutati del panorama cinematografico tedesco.
Il film uscirà prossimamente nelle sale italiane grazie a Satine Films.
Vogter, di Gustav Möller
© Nikolaj Moeller
Terminiamo questa rassegna con Vogter, l’opera seconda di Gustav Möller, un eccellente thriller psicologico con al centro Eva (Sidse Babett Knudsen), una guardia che lavora nella sezione di una prigione che si occupa di carcerati con un alcuni problemi mentali. La donna conduce una vita quieta, dove tenta di aiutare il più possibile i prigionieri cercando di impartirgli un minimo di istruzione. Il suo equilibrio viene però stravolto quando nota che Mikkel (Sebastian Bull), l’assassino di suo figlio, viene recluso nel carcere in cui lavora. Eva decide quindi di trasferirsi nel ramo della prigione dove sono detenute le persone più pericolose per stare vicino al nuovo arrivato e cercare di rendergli la vita un inferno. Con una durata di soli 100 minuti, Möller costruisce una tensione continua, nel quale mette in mostra, in maniera veramente originale, non solo il trauma e la sete di vendetta della protagonista, ma anche le diverse dinamiche di potere tra guardia e prigioniero con continui cambi di fronte, sovvertendo abilmente quella che poteva diventare facilmente una storia stereotipata. La regia claustrofobia di Möller impressiona sin da subito tramite il competente uso di close up sul volto di Knudsen e la scelta di un aspect ratio leggermente più largo del 4:3. Ma il vero punto di forza sono i due interpreti centrali e la loro incredibile chimica. Sidse Babett Knudsen, una delle grandi snobbate dalla cerimonia dei premi, porta sullo schermo una magistrale interpretazione minimalista, dove i suoi intensi sguardi mostrano una complessa morale dietro a una donna sofferente, le cui spregevoli azioni risultano in qualche modo “giustificate”.
Vogter verrà distribuito prossimamente nelle sale italiane da Movies Inspired.