L'orribile (ir)realtà virtuale
di Carne y Arena e Nickel Boys,
di Edoardo Marchetti
TR-130
14.06.2025
(Ir)realtà virtuale
Alla fine degli anni ’80, il termine virtual reality viene coniato dal saggista e informatico Jaron Lanier, fondatore nel 1984 della VPL Research (Virtual Programming Languages Research), la prima azienda a sviluppare e commercializzare dispositivi per la realtà virtuale. Il concetto di realtà virtuale esiste già dagli anni ’50, quando arrivarono esperimenti e idee che già anticipavano l’immersività digitale - seppur limitandosi a simulazioni sensoriali o alla realizzazione di strumenti utili per le esercitazioni militari. Solo dagli anni ’70 si intensificarono le sperimentazioni sulle innumerevoli possibilità degli ambienti virtuali interattivi, anche a fini artistici, finché il termine non poté poi popolarizzarsi grazie a Lanier, e acquisire così una nuova forma e definizione.
Ascoltando l’episodio #218 (del 6 settembre 2021) del celebre podcast di Lex Fridman, ricercatore informatico, professore e podcaster, troviamo un’importante intervista proprio a Jaron Lanier. I due informatici navigano tra i temi più disparati: morte e coscienza, social media (ricordiamo istantaneamente il Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social di Lanier), musica, AI, empatia con i robot, videogiochi e - come poteva mancare! - realtà virtuale (a cui dedicheremo la nostra totale attenzione in questo prologo).
Jaron Lanier
La prima domanda di Fridman a Lanier: “sei considerato il padre fondatore della realtà virtuale. Pensi che un giorno passeremo la maggior parte, o tutta la nostra vita in un mondo in realtà virtuale?”.
La risposta di Lanier a Fridman: “ho sempre trovato il momento più prezioso della realtà virtuale quello in cui togli il visore e i tuoi sensi si rinfrescano e percepisci la tua fisicità, di nuovo, come fossi un neonato, ma con un po’ più di esperienza; così puoi notare quanto incredibilmente strano e delicato e peculiare e impossibile sia il mondo”.
Fridman: “quindi la magia è, e sarà per sempre nel mondo fisico?”.
Lanier: “questa è la mia opinione, non voglio poter dire a tutti gli altri come pensare o come vivere la virtualità [...]”.
Manteniamo l’idea del mondo-altro come mondo-magico idealmente affascinante e attrattivo. Per Lanier (si evince più chiaramente ascoltando la prima parte della conversazione nella sua interezza), l’esistenza di un mondo-altro-mediale aiuta l’individuo che ne usufruisce ad acquisire una più solida consapevolezza sulla tangibilità e bellezza del mondo fisico - quindi più magico di quello virtuale. Fridman semplifica il discorso: “come se viaggiare altrove nello spazio fisico potesse aiutarti ad apprezzare casa tua una volta che torni”.
Immagini promozionali dei primi esperimenti della Realtà Virtuale negli anni '50
Proseguendo, l’intervistatore pone un’altra domanda, nella sezione denominata Simulating our universe (domanda che arriva in seguito a un discorso sull’universo come computer e sulla macchina di Turing - universale, ma che non può esistere, quindi non universale nella pratica): “se stiamo vivendo all’interno di un computer o di una simulazione [...], quanto è difficile costruire una macchina che non si limiti a simulare l’universo, ma che lo renda sufficientemente realistico da non farci distinguere la differenza o, meglio ancora, sufficientemente realistico da farci percepire la differenza, ma spingerci comunque a rimanere nel mondo virtuale?”
Riportiamo la fondamentale risposta di Lanier nella sua (quasi) integralità: “[...] le persone hanno un livello fisso di capacità percettiva della realtà in un dato modo. Le persone imparano sempre, si evolvono, si formano, siamo anche fluidi, siamo anche programmabili, auto-programmabili, cambiamo e ci adattiamo [...]. Un articolo (che ho letto) mostrava il primo registratore a filo che poteva riprodurre la voce di un cantante d’opera. Se nascosto dietro una tenda era indistinguibile da un vero cantante d’opera. Ora, per noi non solo sarebbe distinguibile, ma sarebbe anche molto evidente (la differenza), perché la registrazione sarebbe orribile; ma per le persone dell’epoca, senza l’esperienza, sembrava plausibile [...]. Ci sono molti esempi. Uno dei miei preferiti: durante la Guerra Civile c’erano fotografi itineranti che collezionavano fotografie di persone che assomigliavano a qualche archetipo, così potevi comprare una foto di qualcuno che assomigliava un po’ alla persona amata, per ricordartene, perché fotografarla era inconcepibile e assumere un pittore era troppo costoso [...]. Questi sono tutti grandi esempi di come, nei primi momenti di vita dei diversi media, li percepivamo come davvero grandiosi, per poi evolverci attraverso l’esperienza che essi stessi ci hanno offerto; e questo ci riporta a quello che stavo dicendo: forse il più grande dono della fotografia è che possiamo vederne i difetti, e apprezzare di più la realtà. Lo stesso vale per la registrazione audio. Quindi non dovremmo limitarci con qualche presupposto di stasi, questo è sbagliato”.
Ancora una volta, per Lanier, la speranza - perché si tratta visibilmente e dichiaratamente di una speranza più che di una convinzione - è che l’esperienza virtuale e mediale possa convincere le persone a dedicarsi al mondo fisico, “provare tenerezza nei suoi confronti”, e portare al suo interno delle eventuali migliorie. Le fotografie archetipiche, simili alle persone assenti - quindi realisticamente-irreali - o la voce del cantante d’opera registrata, non sono altro che scarti temporaneamente illusori, almeno nella visione di Lanier, in un mondo che necessita l’intervento materico di un corpo; pause che aiutano ad attenuare una logorante attesa, fino al momento in cui, idealmente, la voce tangibile del cantante d’opera o la persona reale che ricorda quella fotografata non si paleseranno. Ma se quel cantante non arrivasse? E se quel soldato non tornasse dalla guerra?
Sarebbe interessante recuperare tra dieci anni la risposta di Lanier. Considerando, come afferma l’informatico, che l’approccio e la percezione di veridicità delle nuove tecnologie dipendono dall’epoca in cui esse si collocano, come ci interfacceremo con l’intelligenza artificiale dei primi mesi del 2025? Cominciano a sbucare profili social di avatar-cantanti-modelli/e generati con AI. Per ora, sempre considerando che l’intelligenza artificiale è in continua evoluzione, dobbiamo studiare per qualche minuto un profilo “sospetto”, nel tentativo di scoprire se quel corpo sia fisico o generato digitalmente. Forse, tra dieci anni, i profili del presente saranno immediatamente determinabili come “falsi”.
Fotografie risalenti al periodo della Guerra Civile americana
Virtualmente Presente, Fisicamente Invisibile
Avevamo mantenuto, fino a questo momento, l’idea del mondo-altro come ipoteticamente “magico”. Ora, proseguiamo la nostra analisi studiando un’installazione in realtà virtuale scritta e diretta dal cineasta messicano Alejandro González Iñárritu, Carne y Arena, Virtually Present, Physically Invisible (Carne e sabbia, 6 minuti e 30), presentata nel 2017 al Festival di Cannes - il primo progetto in realtà virtuale a partecipare alla cerimonia, - e vincitore, nel 2018, dell’Oscar Special Achievement Award, premio assegnato sporadicamente come riconoscimento per un contributo eccezionale in assenza di una categoria specifica in cui l’opera possa concorrere, con la seguente motivazione: “Un’esperienza narrativa visionaria di grande forza e un viaggio profondamente commovente e fisicamente coinvolgente nel mondo dei migranti”.
Nel volume America oggi II, e più precisamente nel capitolo New Mex- Hollywood. La dorsale transnazionale di Cuarón, Iñárritu, Del Toro, Vito Zagarrio spiega come la premiazione di Iñárritu per un Oscar alla tecnologia si sia trasformata in un’occasione di denuncia politica, dove il cineasta messicano compie un discorso in cui unisce il plauso alla nuova tecnica del VR al suo interesse militante a favore di una problematica cocente come quella dei migranti: “non mi interessa la tecnologia per scappare dalla realtà, mi interessa invece la tecnologia per abbracciare quella realtà”, afferma Iñárritu.
L’installazione inserisce lo spettatore in un gruppo di immigrati guidati da un coyote nel tentativo di passare il confine tra Messico e Stati Uniti (confine che ad oggi Donald Trump ha delineato con un muro), fino a quando non vengono fermati da una pattuglia di frontiera. La storia si basa su interviste realizzate da Iñárritu a dei rifugiati messicani e centroamericani, e trae ispirazione dalle loro storie di vita. Zagarrio ragiona su come l’esperienza di visione, in questo caso, sia personale e privata, a differenza della fruizione cinematografica tradizionale basata sulla collettività. Qui, lo spettatore diventa un attore collocato su un immenso set in cui è libero di scegliere l’azione, di selezionare la prospettiva, la profondità di campo, l’angolazione dello sguardo, adattando il proprio corpo e la propria postura alle situazioni, agendo consapevolmente e diventando definitivamente un voyeur. Il montaggio viene costantemente (ri)creato, rendendo ogni esperienza personale, diversa dalla precedente e dalla successiva.
Il discorso di ringraziamento di Iñárritu agli Oscar 2017
Dobbiamo chiederci: cosa abbiamo davanti (o in cosa siamo immersi)? Un film (neo-neorealista) o un documentario? Un videogioco o un’opera d’arte visiva? O un’ibridazione tra le diverse possibilità audio- video? Zagarrio definisce l’installazione “un incontro tra cinema del Reale e cinema dell’Ir-Reale, un’opera che esiste tra corpo vivo e ologramma, tra fisicità e fantasmaticità” - non a caso il brillante sottotitolo Virtually Present, Physically Invisible. In effetti, come già anticipato, Iñárritu ha incontrato e intervistato molti immigrati e rifugiati messicani e centroamericani, invitandone alcuni a partecipare al progetto, “affinché i loro viaggi personali non fossero solo una statistica per il resto delle persone, ma fossero visti, sentiti, ascoltati e vissuti”. Così, la realtà individuale di alcuni può trasformarsi in esperienza spettatoriale- immersiva per altri.
Parlarne senza aver vissuto l’esperienza è sicuramente complesso, ma abbiamo voluto concentrarci sulle possibilità politiche e militanti della tecnologia VR. Non si tratta più soltanto di creare un mondo-magico spettacolare in realtà virtuale in cui rifugiarsi, o in cui desiderare di vivere per fuggire da quello fisico, né di un progetto concepito come materiale pubblicitario per un film (si pensi a Save Every Breath: the Dunkirk VR Experience, cortometraggio in realtà virtuale disponibile su YouTube, che paradossalmente risulta essere meno immersivo del film stesso). Con Carne y Arena si (ri)propongono stralci di una condizione umana reale e distante, vissuta da altri, ma che ora possono “vivere” tutti, rendendo quest’installazione un’opera indipendente, dotata di caratteristiche proprie, capace di ragionare sulle possibilità della percezione e sulla soggettivazione dello sguardo - nonché sulla personalizzazione dell’esperienza.
Il punto non è che l’opera VR di Iñárritu riesca a restituire anche solo minimamente la paura o la fatica vissuta dagli immigrati, ma piuttosto che l’unione tra l’ampio spazio sabbioso ricostruito in studio, dove potersi muovere liberamente, e la possibilità di scelta rendono, forse, più facile consapevolizzarsi. Così, esperendo l’orrore, gli spettatori possono - non trasferendosi più in un mondo-altro magico, ma nel nostro-mondo (ir)reale (rafforzando inoltre la funzione che la realtà virtuale dovrebbe avere per Lanier), - “dedicarsi al mondo fisico, provare tenerezza nei suoi confronti e portare al suo interno delle migliorie”.
La realtà virtuale di Carne y Arena (2017)
Il mio corpo, gli occhi degli altri
Sono seduto su un muretto scomodo poco rialzato rispetto all’altezza del marciapiede, e tra le gambe, poggiato a terra, ho il mio ingombrante e semi-vuoto zaino nero. Mi chino leggermente per recuperare il libro che ho acquistato questa mattina, e che per almeno una settimana porterò sempre con me, per rendere le dilatate attese dei bus un po’ più sopportabili. Mentre apro la cerniera, mi accorgo di avere le mani. Le avvicino lentamente al viso, fermandomi all’altezza del petto, e le osservo: prima i palmi, poi il dorso, poi di nuovo i palmi. Finché non sento, fuori campo, una voce femminile piuttosto roca che mi domanda: “Mi scusi, sa mica quando passa l’88?”. Le mie mani fuoriescono dal campo visivo concesso dai miei occhi, che con una veloce panoramica verticale cambiano (s)oggetto d’interesse. Vedo controluce una signora con dei capelli ricci grigi che le arrivano fino alle spalle, e a quel punto rispondo sicuro, perché ho controllato sull’applicazione: “dovrebbe passare tra una decina di minuti”, e sorrido. Lei mi ringrazia e si mette in piedi vicino al cartello della fermata. Torno alle mie mani, e poi allo zaino, e poi al libro che prendo e poggio sulle ginocchia per richiudere la cerniera.
Ora, non è che mi fossi dimenticato di avere le mani, è che la visione di Nickel Boys (I ragazzi della Nickel di RaMell Ross, 2024) di due sera prima, mi aveva posto in una condizione di (ri)presa di coscienza nei confronti del mio corpo e del mio sguardo. E il libro, che ora ho poggiato sulle mie ginocchia, The Nickel Boys (I ragazzi della Nickel di Colson Whitehead, 2019), è quello che ha ispirato il film. La frase che più mi ha colpito (influenzato anche dalla visione del lungometraggio, suppongo) è la seguente: “Se tutti guardavano dall’altra parte, allora erano tutti complici. Se lui guardava dall’altra parte, era coinvolto quanto gli altri. Quello era il suo modo di vedere le cose (di Elwood, uno dei due protagonisti), lo era sempre stato”.
È come se tutto il romanzo (come il film, del resto) avesse a che fare con le dinamiche degli sguardi, sguardi che convergono verso un unico fenomeno. A Tallahassee negli anni sessanta, Elwood Curtis, un giovane e promettente afroamericano, con l’accusa (falsa) di aver guidato una macchina rubata, viene condannato a scontare una pena nel riformatorio Nickel Academy, un’accademia nascosta nel verde delle campagne, fuori da occhi indiscreti, fintamente ripulita, di tanto in tanto, quando arrivano i salutari controlli corrotti. Qui, diventa amico del cinico Jack Turner, e insieme tenteranno di sopravvivere in quest’ambiente fondato su soprusi e violenza.
Nickel Boys (I ragazzi della Nickel, 2024)
Partiamo dal libro. Colson Whitehead (vincitore con I ragazzi della Nickel del suo secondo Premio Pulitzer per la narrativa) è partito da premesse reali per sviluppare la trama del romanzo. Nei ringraziamenti dell’autore a fine libro leggiamo: “Questo libro è un’opera di fantasia e nessuno dei suoi personaggi è veramente esistito, ma è ispirato alla storia della Dozier School for Boys di Marianna, in Florida”. La Dozier School for Boys, conosciuta anche come Arthur G. Dozier School for Boys (AGDS), era un riformatorio statale aperto nel 1900, rimasto in funzione per più di un secolo. Nel 2008, un gruppo di ex detenuti, i White House Boys - un gruppo fondato da uomini che, da ragazzi, erano stati internati nella Dozier - cominciò a raccontare pubblicamente le loro esperienze, denunciando gli orrori e gli abusi subiti nella struttura (il nome del gruppo arriva da uno degli edifici della scuola, la White House, una casetta bianca in cui venivano inflitte punizioni brutali e violente, tra cui frustate e stupri).
Le loro testimonianze scossero pesantemente l’opinione pubblica e portarono all’avvio delle indagini. La scuola venne ufficialmente chiusa nel giugno 2011, con motivazioni che facevano riferimento a problemi di bilancio e alla bassa qualità dei programmi educativi, ma era evidente che le crescenti pressioni pubbliche e le testimonianze ebbero un peso fondamentale nella decisione di chiudere definitivamente. Nel 2012, un team di antropologi studenti dell’Università della Florida, guidato dalla dottoressa Erin Kimmerle, fu incaricato di esaminare il terreno dell’ex riformatorio, date le incongruenze tra i registri ufficiali dei decessi e le sepolture effettive (Whitehead sempre nei ringraziamenti sottolinea come le analisi dei luoghi di sepoltura siano raccolte nel volume Report on the Investigation into the Deaths and Burials at the Former Arthur G. Dozier School for Boys in Marianna, Florida, reperibile sul sito internet dell’università). Alcune famiglie segnalavano infatti di non aver mai ricevuto spiegazioni credibili sulla morte dei loro figli.
Nel corso di quell’anno il team scoprì un cimitero nascosto con almeno 31 tombe, molte delle quali non erano mai state registrate o identificate, scoperta che diede il via a ulteriori indagini nei due anni successivi, finché nel 2014 il numero delle sepolture non segnalate salì a 55, distribuite in varie zone del campus (si sospetta che il numero possa essere maggiore). Alcuni scheletri mostrarono segni compatibili con violenze fisiche o trattamenti disumani. In alcuni casi non fu possibile determinare l’identità delle vittime, ma il ritrovamento confermò tutti i dubbi: all’interno della Dozier non solo si verificarono gravi abusi, ma alcuni ragazzi erano morti in circostanze sospette e mai chiarite. Negli anni successivi, lo Stato della Florida riconobbe la responsabilità morale di quanto accaduto e nel 2017 emise una risoluzione ufficiale in cui venivano chieste scuse formali ai sopravvissuti e alle famiglie delle vittime. Per tutte le informazioni officialwhitehouseboys.org è il sito internet dei sopravvissuti della Dozier, dove sono raccolte le storie degli ex detenuti raccontate da loro stessi.
Immagini reli della Dozier School for Boys
Continuando con i ringraziamenti, Whitehead fa notare che Elwood, a un certo punto nel romanzo, legge l’opuscolo della scuola nell’infermeria; in quel passaggio, lo scrittore, sta citando il resoconto sulle attività quotidiane dell’istituto. Inoltre, nel capitolo quattro, scopriamo la vera storia di un ex detenuto, quella di Jack Townsley. Vengono citate le frasi di Martin Luther King Jr.; Elwood menziona La dichiarazione alla marcia della gioventù in favore dell’integrazione nelle scuole (1959); è riportata anche una frase di James Baldwin, “i neri sono americani”, proveniente dal capitolo A migliaia sono scomparsi del libro Appunti americani. Quello che colpisce, e che rende totalmente veritiero un racconto finzionale, è la straordinaria capacità dell’autore di far convergere nella storia immaginata sia le vicende reali e individuali dei detenuti della Dozier, sia la macrostoria sociale e culturale collettiva. Tanti sguardi diversi (anche temporalmente) che convergono in un unico punto, quindi.
È importante riportare la fine del capitolo nove, dove viene descritto l’incontro sul ring tra Griff, un ragazzo nero, e Big Chet, un ragazzo bianco, incontro chiaramente truccato dai dirigenti della Dozier, con Griff che dovrà andare K.O. al terzo round. Turner ed Elwood scoprono casualmente l’imposizione mentre riposano nascosti. L’autore costruisce e descrive l’incontro con un crescendo di tensione e attesa, fin quando Griff, inaspettatamente, al terzo round, sconfigge Big Chet. Le lacrime scorrono sul volto del lottatore, che alcuni interpretano come lacrime di gioia - non Turner ed Elwood -; poi comincia a urlare “credevo che era il secondo!”. Quella fu l’ultima notte in cui gli altri videro Griff. Per alcuni era riuscito a fuggire, ma pareva strano che nessuno avesse suonato l’allarme o sguinzagliato i cani. Poi, Whitehead va un salto avanti nel tempo, cinquant’anni dopo, quando lo stato della Florida riesuma le ossa di Griff. Il medico legale nota le fratture ai polsi - prima di morire era stato incatenato, in aggiunta alle altre violenze attestate dalle ossa rotte.
E il film? Anche RaMell Ross (dopo il documentario Hale County This Morning, This Evening, 2018), sceglie di ragionare e di concentrarsi sull’immagine e sulle dinamiche dello sguardo, tanto che viviamo l’intero film dalla soggettiva di Elwood, dai suoi occhi, dai quali piano piano cominciamo a conoscerlo. Ha uno sguardo timido, incuriosito dai dettagli, spesso rivolto verso il basso (le mani). Una volta dentro la Nickel la soggettiva di Elwood inizia ad alternarsi a quella di Turner, e a quella di un uomo nel nostro presente, presente che progressivamente ci viene rilevato (quella dell’uomo non è propriamente una soggettiva, ma una quasi disorientante semi-soggettiva girata in snorricam, ovvero con la macchina da presa montata su un’imbracatura fissata al corpo dell’attore). Questo scambio di punti di vista scombussola chi guarda: prima siamo Elwood, poi Turner, poi l’uomo, poi ancora Elwood e così via. Quello che prima era il nostro corpo, ora lo vediamo attraverso gli occhi degli altri.
Il regista RaMell Ross sul set di Nickel Boys (I ragazzi della Nickel, 2024)
Ross, in un intervista al The New Yorker, dice di aver chiamato questo POV “prospettiva senziente, il cui obiettivo è quello di esplorare la totalità dei personaggi, in modo che il pubblico sia in grado di vivere un’esperienza simultanea con la loro. C’è qualcosa di fondamentalmente interessante, se penso che nella maggior parte dei film si impara a conoscere i personaggi attraverso l’osservazione, attraverso una sorta di oggettivazione fondamentale, attraverso l’analisi dei comportamenti. In relazione alla black culture e alla macchina da presa, come puoi avvicinare la camera all’interno del corpo per, come mi piace dire, inquadrare DA, e non VERSO? Facendo così, non fai altro che colmare un’altra distanza o un altro divario tra il pubblico e il personaggio. [...] C’era qualcosa di così potente nell’intento del film e nell’intento di portare la camera nei loro corpi, in modo che potessimo vedere il mondo attraverso i loro occhi”.
Questa prospettiva senziente rafforza la veridicità del racconto e lo lega alla storia del presente e alle sue tecnologie, un presente che sta avvenendo mentre guardiamo, che si sviluppa nel qui e ora. Nonostante il POV non è, ovviamente, una vera e propria esperienza in realtà virtuale, considerando che in Carne y Arena potevamo scegliere come muoverci, mentre nel caso di Nickel Boys siamo vincolati a immagini pre-girate, le due opere hanno, probabilmente, gli stessi obiettivi: immergere lo spettatore/attore in un presente passato, per poi permettergli di staccarsi da un corpo e riconnettersi al proprio.
Nella parte introduttiva, intitolata Ma perché io?, del saggio C’era una volta il corpo di Walter Siti, lo scrittore racconta di quando si trovò in un quartiere a lui poco noto, e dovette fermare una ragazza per chiederle se conoscesse la via che stava cercando. Lei risposte: “ora cerco sul cellulare”. Scoprì che si trattava della strada accanto a quella in cui viveva: “mi scusi, faccio fatica a geolocalizzarmi nel mondo”, aggiunse. I corpi contemporanei, afferma Siti, non sanno più con precisione dove si trovano: stanno fisicamente in un luogo, ma col cellulare e la parola sono proiettati in un altro. Questo può essere vero. E se lo scopo della realtà virtuale e del punto di vista in soggettiva fosse proprio quello di farci geolocalizzare nel mondo, di nuovo? Se questo spazio evanescente realisticamente-irreale diventasse necessario per capire dove siamo?
L'attore Brandon Wilson in una sequenza del film
Il futuro documenta(rio)
Mentre studiavo e facevo ricerche per la stesura di questo articolo, il 24 marzo 2025, nel villaggio di Susya, in Cisgiordania, Hamdan Ballal, uno dei quattro registi di No Other Land (Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor e Hamdan Ballal, 2024) è stato prima aggredito da un gruppo di coloni israeliani armati, poi ferito e arrestato dall’esercito israeliano. Il cineasta è stato rilasciato il giorno successivo, il 25 marzo 2025, dopo aver trascorso la notte bendato e ammanettato in una base militare dove ha subito ulteriori violenze da parte dei soldati. Il film racconta la resistenza della comunità palestinese di Masafer Yatta, un’area composta da diciannove villaggi nel sud della Cisgiordania, dichiarata aera militare dalle autorità israeliane. Basel Adra, un attivista palestinese, e Yuval Abraham, giornalista israeliano, documentano la distruzione della comunità da parte dell’esercito israeliano, che costringe gli abitanti a vedersi distruggere davanti agli occhi le proprie case e a vivere in condizioni precarie dentro a delle grotte.
Le controversie che hanno coinvolto il film risalgono già alla sua prima proiezione alla 74ª edizione del Festival di Berlino: Yuval Abraham, accusato in Germania di antisemitismo per avere chiesto un cessate il fuoco, ha ricevuto innumerevoli minacce di morte e, una volta tornato in patria, con i suoi genitori è dovuto scappare dalla propria casa; Steven Meiner, sindaco di Miami Beach, ha tentato di porre fine al contratto di locazione e al sostegno finanziario per O Cinema, un cinema indipendente che aveva proiettato il documentario, accusando il film di antisemitismo (attivisti difensori dei diritti e artisti si sono opposti a questa scelta, così Meiner ha ritirato la minaccia); il ministro della Cultura israeliano, Miki Zohar, ha definito la vittoria agli Oscar del documentario come un “momento triste per il mondo del cinema”, accusando i registi di voler sabotare lo Stato di Israele. Tutto questo per dare una panoramica generale.
No Other Land (2024)
Ripensando al film, Basel Adra (che ricordiamo essere un attivista figlio di attivisti) e gli altri registi corrono costantemente con una telecamera in mano per documentare l’arrivo dei militari, per documentare la distruzione della case, per documentare l’orribile condizione in cui vivono le persone sfrattate. Qualche volta la telecamera cade, e Basel viene preso a calci e picchiato dall’esercito; poi, con l’aiuto di altri membri della comunità, si libera, e fugge recuperando la telecamera e continuando a registrare (si sente l’urgenza testimoniale). Anche qui ci sono più punti di vista, più formati, più macchine da presa con diverse qualità video. Spesso, quando arrivano i miliari con i fucili in mano, la prima cosa che i giornalisti e attivisti dicono è: “ti sto riprendendo”, come se questa frase rappresentasse l’unica arma a loro disposizione: la camera che produce informazione e poi la diffonde.
Cosa c’entra col nostro discorso precedente? Come in Nickel Boys vediamo l’orrore dagli occhi di chi lo vive. Solo che in questo caso non si tratta più di rilettura del reale, ma di realtà effettiva. Così, il documentario, potrebbe diventare il linguaggio del futuro (o lo è già, o forse lo è sempre stato), che ci permette, tornando ancora una volta a Lanier, di acquisire quella consapevolezza tanto necessaria per portare nel mondo urgenti migliorie.
L'orribile (ir)realtà virtuale
di Carne y Arena e Nickel Boys,
di Edoardo Marchetti
TR-130
14.06.2025
(Ir)realtà virtuale
Alla fine degli anni ’80, il termine virtual reality viene coniato dal saggista e informatico Jaron Lanier, fondatore nel 1984 della VPL Research (Virtual Programming Languages Research), la prima azienda a sviluppare e commercializzare dispositivi per la realtà virtuale. Il concetto di realtà virtuale esiste già dagli anni ’50, quando arrivarono esperimenti e idee che già anticipavano l’immersività digitale - seppur limitandosi a simulazioni sensoriali o alla realizzazione di strumenti utili per le esercitazioni militari. Solo dagli anni ’70 si intensificarono le sperimentazioni sulle innumerevoli possibilità degli ambienti virtuali interattivi, anche a fini artistici, finché il termine non poté poi popolarizzarsi grazie a Lanier, e acquisire così una nuova forma e definizione.
Ascoltando l’episodio #218 (del 6 settembre 2021) del celebre podcast di Lex Fridman, ricercatore informatico, professore e podcaster, troviamo un’importante intervista proprio a Jaron Lanier. I due informatici navigano tra i temi più disparati: morte e coscienza, social media (ricordiamo istantaneamente il Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social di Lanier), musica, AI, empatia con i robot, videogiochi e - come poteva mancare! - realtà virtuale (a cui dedicheremo la nostra totale attenzione in questo prologo).
Jaron Lanier
La prima domanda di Fridman a Lanier: “sei considerato il padre fondatore della realtà virtuale. Pensi che un giorno passeremo la maggior parte, o tutta la nostra vita in un mondo in realtà virtuale?”.
La risposta di Lanier a Fridman: “ho sempre trovato il momento più prezioso della realtà virtuale quello in cui togli il visore e i tuoi sensi si rinfrescano e percepisci la tua fisicità, di nuovo, come fossi un neonato, ma con un po’ più di esperienza; così puoi notare quanto incredibilmente strano e delicato e peculiare e impossibile sia il mondo”.
Fridman: “quindi la magia è, e sarà per sempre nel mondo fisico?”.
Lanier: “questa è la mia opinione, non voglio poter dire a tutti gli altri come pensare o come vivere la virtualità [...]”.
Manteniamo l’idea del mondo-altro come mondo-magico idealmente affascinante e attrattivo. Per Lanier (si evince più chiaramente ascoltando la prima parte della conversazione nella sua interezza), l’esistenza di un mondo-altro-mediale aiuta l’individuo che ne usufruisce ad acquisire una più solida consapevolezza sulla tangibilità e bellezza del mondo fisico - quindi più magico di quello virtuale. Fridman semplifica il discorso: “come se viaggiare altrove nello spazio fisico potesse aiutarti ad apprezzare casa tua una volta che torni”.
Immagini promozionali dei primi esperimenti della Realtà Virtuale negli anni '50
Proseguendo, l’intervistatore pone un’altra domanda, nella sezione denominata Simulating our universe (domanda che arriva in seguito a un discorso sull’universo come computer e sulla macchina di Turing - universale, ma che non può esistere, quindi non universale nella pratica): “se stiamo vivendo all’interno di un computer o di una simulazione [...], quanto è difficile costruire una macchina che non si limiti a simulare l’universo, ma che lo renda sufficientemente realistico da non farci distinguere la differenza o, meglio ancora, sufficientemente realistico da farci percepire la differenza, ma spingerci comunque a rimanere nel mondo virtuale?”
Riportiamo la fondamentale risposta di Lanier nella sua (quasi) integralità: “[...] le persone hanno un livello fisso di capacità percettiva della realtà in un dato modo. Le persone imparano sempre, si evolvono, si formano, siamo anche fluidi, siamo anche programmabili, auto-programmabili, cambiamo e ci adattiamo [...]. Un articolo (che ho letto) mostrava il primo registratore a filo che poteva riprodurre la voce di un cantante d’opera. Se nascosto dietro una tenda era indistinguibile da un vero cantante d’opera. Ora, per noi non solo sarebbe distinguibile, ma sarebbe anche molto evidente (la differenza), perché la registrazione sarebbe orribile; ma per le persone dell’epoca, senza l’esperienza, sembrava plausibile [...]. Ci sono molti esempi. Uno dei miei preferiti: durante la Guerra Civile c’erano fotografi itineranti che collezionavano fotografie di persone che assomigliavano a qualche archetipo, così potevi comprare una foto di qualcuno che assomigliava un po’ alla persona amata, per ricordartene, perché fotografarla era inconcepibile e assumere un pittore era troppo costoso [...]. Questi sono tutti grandi esempi di come, nei primi momenti di vita dei diversi media, li percepivamo come davvero grandiosi, per poi evolverci attraverso l’esperienza che essi stessi ci hanno offerto; e questo ci riporta a quello che stavo dicendo: forse il più grande dono della fotografia è che possiamo vederne i difetti, e apprezzare di più la realtà. Lo stesso vale per la registrazione audio. Quindi non dovremmo limitarci con qualche presupposto di stasi, questo è sbagliato”.
Ancora una volta, per Lanier, la speranza - perché si tratta visibilmente e dichiaratamente di una speranza più che di una convinzione - è che l’esperienza virtuale e mediale possa convincere le persone a dedicarsi al mondo fisico, “provare tenerezza nei suoi confronti”, e portare al suo interno delle eventuali migliorie. Le fotografie archetipiche, simili alle persone assenti - quindi realisticamente-irreali - o la voce del cantante d’opera registrata, non sono altro che scarti temporaneamente illusori, almeno nella visione di Lanier, in un mondo che necessita l’intervento materico di un corpo; pause che aiutano ad attenuare una logorante attesa, fino al momento in cui, idealmente, la voce tangibile del cantante d’opera o la persona reale che ricorda quella fotografata non si paleseranno. Ma se quel cantante non arrivasse? E se quel soldato non tornasse dalla guerra?
Sarebbe interessante recuperare tra dieci anni la risposta di Lanier. Considerando, come afferma l’informatico, che l’approccio e la percezione di veridicità delle nuove tecnologie dipendono dall’epoca in cui esse si collocano, come ci interfacceremo con l’intelligenza artificiale dei primi mesi del 2025? Cominciano a sbucare profili social di avatar-cantanti-modelli/e generati con AI. Per ora, sempre considerando che l’intelligenza artificiale è in continua evoluzione, dobbiamo studiare per qualche minuto un profilo “sospetto”, nel tentativo di scoprire se quel corpo sia fisico o generato digitalmente. Forse, tra dieci anni, i profili del presente saranno immediatamente determinabili come “falsi”.
Fotografie risalenti al periodo della Guerra Civile americana
Virtualmente Presente, Fisicamente Invisibile
Avevamo mantenuto, fino a questo momento, l’idea del mondo-altro come ipoteticamente “magico”. Ora, proseguiamo la nostra analisi studiando un’installazione in realtà virtuale scritta e diretta dal cineasta messicano Alejandro González Iñárritu, Carne y Arena, Virtually Present, Physically Invisible (Carne e sabbia, 6 minuti e 30), presentata nel 2017 al Festival di Cannes - il primo progetto in realtà virtuale a partecipare alla cerimonia, - e vincitore, nel 2018, dell’Oscar Special Achievement Award, premio assegnato sporadicamente come riconoscimento per un contributo eccezionale in assenza di una categoria specifica in cui l’opera possa concorrere, con la seguente motivazione: “Un’esperienza narrativa visionaria di grande forza e un viaggio profondamente commovente e fisicamente coinvolgente nel mondo dei migranti”.
Nel volume America oggi II, e più precisamente nel capitolo New Mex- Hollywood. La dorsale transnazionale di Cuarón, Iñárritu, Del Toro, Vito Zagarrio spiega come la premiazione di Iñárritu per un Oscar alla tecnologia si sia trasformata in un’occasione di denuncia politica, dove il cineasta messicano compie un discorso in cui unisce il plauso alla nuova tecnica del VR al suo interesse militante a favore di una problematica cocente come quella dei migranti: “non mi interessa la tecnologia per scappare dalla realtà, mi interessa invece la tecnologia per abbracciare quella realtà”, afferma Iñárritu.
L’installazione inserisce lo spettatore in un gruppo di immigrati guidati da un coyote nel tentativo di passare il confine tra Messico e Stati Uniti (confine che ad oggi Donald Trump ha delineato con un muro), fino a quando non vengono fermati da una pattuglia di frontiera. La storia si basa su interviste realizzate da Iñárritu a dei rifugiati messicani e centroamericani, e trae ispirazione dalle loro storie di vita. Zagarrio ragiona su come l’esperienza di visione, in questo caso, sia personale e privata, a differenza della fruizione cinematografica tradizionale basata sulla collettività. Qui, lo spettatore diventa un attore collocato su un immenso set in cui è libero di scegliere l’azione, di selezionare la prospettiva, la profondità di campo, l’angolazione dello sguardo, adattando il proprio corpo e la propria postura alle situazioni, agendo consapevolmente e diventando definitivamente un voyeur. Il montaggio viene costantemente (ri)creato, rendendo ogni esperienza personale, diversa dalla precedente e dalla successiva.
Il discorso di ringraziamento di Iñárritu agli Oscar 2017
Dobbiamo chiederci: cosa abbiamo davanti (o in cosa siamo immersi)? Un film (neo-neorealista) o un documentario? Un videogioco o un’opera d’arte visiva? O un’ibridazione tra le diverse possibilità audio- video? Zagarrio definisce l’installazione “un incontro tra cinema del Reale e cinema dell’Ir-Reale, un’opera che esiste tra corpo vivo e ologramma, tra fisicità e fantasmaticità” - non a caso il brillante sottotitolo Virtually Present, Physically Invisible. In effetti, come già anticipato, Iñárritu ha incontrato e intervistato molti immigrati e rifugiati messicani e centroamericani, invitandone alcuni a partecipare al progetto, “affinché i loro viaggi personali non fossero solo una statistica per il resto delle persone, ma fossero visti, sentiti, ascoltati e vissuti”. Così, la realtà individuale di alcuni può trasformarsi in esperienza spettatoriale- immersiva per altri.
Parlarne senza aver vissuto l’esperienza è sicuramente complesso, ma abbiamo voluto concentrarci sulle possibilità politiche e militanti della tecnologia VR. Non si tratta più soltanto di creare un mondo-magico spettacolare in realtà virtuale in cui rifugiarsi, o in cui desiderare di vivere per fuggire da quello fisico, né di un progetto concepito come materiale pubblicitario per un film (si pensi a Save Every Breath: the Dunkirk VR Experience, cortometraggio in realtà virtuale disponibile su YouTube, che paradossalmente risulta essere meno immersivo del film stesso). Con Carne y Arena si (ri)propongono stralci di una condizione umana reale e distante, vissuta da altri, ma che ora possono “vivere” tutti, rendendo quest’installazione un’opera indipendente, dotata di caratteristiche proprie, capace di ragionare sulle possibilità della percezione e sulla soggettivazione dello sguardo - nonché sulla personalizzazione dell’esperienza.
Il punto non è che l’opera VR di Iñárritu riesca a restituire anche solo minimamente la paura o la fatica vissuta dagli immigrati, ma piuttosto che l’unione tra l’ampio spazio sabbioso ricostruito in studio, dove potersi muovere liberamente, e la possibilità di scelta rendono, forse, più facile consapevolizzarsi. Così, esperendo l’orrore, gli spettatori possono - non trasferendosi più in un mondo-altro magico, ma nel nostro-mondo (ir)reale (rafforzando inoltre la funzione che la realtà virtuale dovrebbe avere per Lanier), - “dedicarsi al mondo fisico, provare tenerezza nei suoi confronti e portare al suo interno delle migliorie”.
La realtà virtuale di Carne y Arena (2017)
Il mio corpo, gli occhi degli altri
Sono seduto su un muretto scomodo poco rialzato rispetto all’altezza del marciapiede, e tra le gambe, poggiato a terra, ho il mio ingombrante e semi-vuoto zaino nero. Mi chino leggermente per recuperare il libro che ho acquistato questa mattina, e che per almeno una settimana porterò sempre con me, per rendere le dilatate attese dei bus un po’ più sopportabili. Mentre apro la cerniera, mi accorgo di avere le mani. Le avvicino lentamente al viso, fermandomi all’altezza del petto, e le osservo: prima i palmi, poi il dorso, poi di nuovo i palmi. Finché non sento, fuori campo, una voce femminile piuttosto roca che mi domanda: “Mi scusi, sa mica quando passa l’88?”. Le mie mani fuoriescono dal campo visivo concesso dai miei occhi, che con una veloce panoramica verticale cambiano (s)oggetto d’interesse. Vedo controluce una signora con dei capelli ricci grigi che le arrivano fino alle spalle, e a quel punto rispondo sicuro, perché ho controllato sull’applicazione: “dovrebbe passare tra una decina di minuti”, e sorrido. Lei mi ringrazia e si mette in piedi vicino al cartello della fermata. Torno alle mie mani, e poi allo zaino, e poi al libro che prendo e poggio sulle ginocchia per richiudere la cerniera.
Ora, non è che mi fossi dimenticato di avere le mani, è che la visione di Nickel Boys (I ragazzi della Nickel di RaMell Ross, 2024) di due sera prima, mi aveva posto in una condizione di (ri)presa di coscienza nei confronti del mio corpo e del mio sguardo. E il libro, che ora ho poggiato sulle mie ginocchia, The Nickel Boys (I ragazzi della Nickel di Colson Whitehead, 2019), è quello che ha ispirato il film. La frase che più mi ha colpito (influenzato anche dalla visione del lungometraggio, suppongo) è la seguente: “Se tutti guardavano dall’altra parte, allora erano tutti complici. Se lui guardava dall’altra parte, era coinvolto quanto gli altri. Quello era il suo modo di vedere le cose (di Elwood, uno dei due protagonisti), lo era sempre stato”.
È come se tutto il romanzo (come il film, del resto) avesse a che fare con le dinamiche degli sguardi, sguardi che convergono verso un unico fenomeno. A Tallahassee negli anni sessanta, Elwood Curtis, un giovane e promettente afroamericano, con l’accusa (falsa) di aver guidato una macchina rubata, viene condannato a scontare una pena nel riformatorio Nickel Academy, un’accademia nascosta nel verde delle campagne, fuori da occhi indiscreti, fintamente ripulita, di tanto in tanto, quando arrivano i salutari controlli corrotti. Qui, diventa amico del cinico Jack Turner, e insieme tenteranno di sopravvivere in quest’ambiente fondato su soprusi e violenza.
Nickel Boys (I ragazzi della Nickel, 2024)
Partiamo dal libro. Colson Whitehead (vincitore con I ragazzi della Nickel del suo secondo Premio Pulitzer per la narrativa) è partito da premesse reali per sviluppare la trama del romanzo. Nei ringraziamenti dell’autore a fine libro leggiamo: “Questo libro è un’opera di fantasia e nessuno dei suoi personaggi è veramente esistito, ma è ispirato alla storia della Dozier School for Boys di Marianna, in Florida”. La Dozier School for Boys, conosciuta anche come Arthur G. Dozier School for Boys (AGDS), era un riformatorio statale aperto nel 1900, rimasto in funzione per più di un secolo. Nel 2008, un gruppo di ex detenuti, i White House Boys - un gruppo fondato da uomini che, da ragazzi, erano stati internati nella Dozier - cominciò a raccontare pubblicamente le loro esperienze, denunciando gli orrori e gli abusi subiti nella struttura (il nome del gruppo arriva da uno degli edifici della scuola, la White House, una casetta bianca in cui venivano inflitte punizioni brutali e violente, tra cui frustate e stupri).
Le loro testimonianze scossero pesantemente l’opinione pubblica e portarono all’avvio delle indagini. La scuola venne ufficialmente chiusa nel giugno 2011, con motivazioni che facevano riferimento a problemi di bilancio e alla bassa qualità dei programmi educativi, ma era evidente che le crescenti pressioni pubbliche e le testimonianze ebbero un peso fondamentale nella decisione di chiudere definitivamente. Nel 2012, un team di antropologi studenti dell’Università della Florida, guidato dalla dottoressa Erin Kimmerle, fu incaricato di esaminare il terreno dell’ex riformatorio, date le incongruenze tra i registri ufficiali dei decessi e le sepolture effettive (Whitehead sempre nei ringraziamenti sottolinea come le analisi dei luoghi di sepoltura siano raccolte nel volume Report on the Investigation into the Deaths and Burials at the Former Arthur G. Dozier School for Boys in Marianna, Florida, reperibile sul sito internet dell’università). Alcune famiglie segnalavano infatti di non aver mai ricevuto spiegazioni credibili sulla morte dei loro figli.
Nel corso di quell’anno il team scoprì un cimitero nascosto con almeno 31 tombe, molte delle quali non erano mai state registrate o identificate, scoperta che diede il via a ulteriori indagini nei due anni successivi, finché nel 2014 il numero delle sepolture non segnalate salì a 55, distribuite in varie zone del campus (si sospetta che il numero possa essere maggiore). Alcuni scheletri mostrarono segni compatibili con violenze fisiche o trattamenti disumani. In alcuni casi non fu possibile determinare l’identità delle vittime, ma il ritrovamento confermò tutti i dubbi: all’interno della Dozier non solo si verificarono gravi abusi, ma alcuni ragazzi erano morti in circostanze sospette e mai chiarite. Negli anni successivi, lo Stato della Florida riconobbe la responsabilità morale di quanto accaduto e nel 2017 emise una risoluzione ufficiale in cui venivano chieste scuse formali ai sopravvissuti e alle famiglie delle vittime. Per tutte le informazioni officialwhitehouseboys.org è il sito internet dei sopravvissuti della Dozier, dove sono raccolte le storie degli ex detenuti raccontate da loro stessi.
Immagini reli della Dozier School for Boys
Continuando con i ringraziamenti, Whitehead fa notare che Elwood, a un certo punto nel romanzo, legge l’opuscolo della scuola nell’infermeria; in quel passaggio, lo scrittore, sta citando il resoconto sulle attività quotidiane dell’istituto. Inoltre, nel capitolo quattro, scopriamo la vera storia di un ex detenuto, quella di Jack Townsley. Vengono citate le frasi di Martin Luther King Jr.; Elwood menziona La dichiarazione alla marcia della gioventù in favore dell’integrazione nelle scuole (1959); è riportata anche una frase di James Baldwin, “i neri sono americani”, proveniente dal capitolo A migliaia sono scomparsi del libro Appunti americani. Quello che colpisce, e che rende totalmente veritiero un racconto finzionale, è la straordinaria capacità dell’autore di far convergere nella storia immaginata sia le vicende reali e individuali dei detenuti della Dozier, sia la macrostoria sociale e culturale collettiva. Tanti sguardi diversi (anche temporalmente) che convergono in un unico punto, quindi.
È importante riportare la fine del capitolo nove, dove viene descritto l’incontro sul ring tra Griff, un ragazzo nero, e Big Chet, un ragazzo bianco, incontro chiaramente truccato dai dirigenti della Dozier, con Griff che dovrà andare K.O. al terzo round. Turner ed Elwood scoprono casualmente l’imposizione mentre riposano nascosti. L’autore costruisce e descrive l’incontro con un crescendo di tensione e attesa, fin quando Griff, inaspettatamente, al terzo round, sconfigge Big Chet. Le lacrime scorrono sul volto del lottatore, che alcuni interpretano come lacrime di gioia - non Turner ed Elwood -; poi comincia a urlare “credevo che era il secondo!”. Quella fu l’ultima notte in cui gli altri videro Griff. Per alcuni era riuscito a fuggire, ma pareva strano che nessuno avesse suonato l’allarme o sguinzagliato i cani. Poi, Whitehead va un salto avanti nel tempo, cinquant’anni dopo, quando lo stato della Florida riesuma le ossa di Griff. Il medico legale nota le fratture ai polsi - prima di morire era stato incatenato, in aggiunta alle altre violenze attestate dalle ossa rotte.
E il film? Anche RaMell Ross (dopo il documentario Hale County This Morning, This Evening, 2018), sceglie di ragionare e di concentrarsi sull’immagine e sulle dinamiche dello sguardo, tanto che viviamo l’intero film dalla soggettiva di Elwood, dai suoi occhi, dai quali piano piano cominciamo a conoscerlo. Ha uno sguardo timido, incuriosito dai dettagli, spesso rivolto verso il basso (le mani). Una volta dentro la Nickel la soggettiva di Elwood inizia ad alternarsi a quella di Turner, e a quella di un uomo nel nostro presente, presente che progressivamente ci viene rilevato (quella dell’uomo non è propriamente una soggettiva, ma una quasi disorientante semi-soggettiva girata in snorricam, ovvero con la macchina da presa montata su un’imbracatura fissata al corpo dell’attore). Questo scambio di punti di vista scombussola chi guarda: prima siamo Elwood, poi Turner, poi l’uomo, poi ancora Elwood e così via. Quello che prima era il nostro corpo, ora lo vediamo attraverso gli occhi degli altri.
Il regista RaMell Ross sul set di Nickel Boys (I ragazzi della Nickel, 2024)
Ross, in un intervista al The New Yorker, dice di aver chiamato questo POV “prospettiva senziente, il cui obiettivo è quello di esplorare la totalità dei personaggi, in modo che il pubblico sia in grado di vivere un’esperienza simultanea con la loro. C’è qualcosa di fondamentalmente interessante, se penso che nella maggior parte dei film si impara a conoscere i personaggi attraverso l’osservazione, attraverso una sorta di oggettivazione fondamentale, attraverso l’analisi dei comportamenti. In relazione alla black culture e alla macchina da presa, come puoi avvicinare la camera all’interno del corpo per, come mi piace dire, inquadrare DA, e non VERSO? Facendo così, non fai altro che colmare un’altra distanza o un altro divario tra il pubblico e il personaggio. [...] C’era qualcosa di così potente nell’intento del film e nell’intento di portare la camera nei loro corpi, in modo che potessimo vedere il mondo attraverso i loro occhi”.
Questa prospettiva senziente rafforza la veridicità del racconto e lo lega alla storia del presente e alle sue tecnologie, un presente che sta avvenendo mentre guardiamo, che si sviluppa nel qui e ora. Nonostante il POV non è, ovviamente, una vera e propria esperienza in realtà virtuale, considerando che in Carne y Arena potevamo scegliere come muoverci, mentre nel caso di Nickel Boys siamo vincolati a immagini pre-girate, le due opere hanno, probabilmente, gli stessi obiettivi: immergere lo spettatore/attore in un presente passato, per poi permettergli di staccarsi da un corpo e riconnettersi al proprio.
Nella parte introduttiva, intitolata Ma perché io?, del saggio C’era una volta il corpo di Walter Siti, lo scrittore racconta di quando si trovò in un quartiere a lui poco noto, e dovette fermare una ragazza per chiederle se conoscesse la via che stava cercando. Lei risposte: “ora cerco sul cellulare”. Scoprì che si trattava della strada accanto a quella in cui viveva: “mi scusi, faccio fatica a geolocalizzarmi nel mondo”, aggiunse. I corpi contemporanei, afferma Siti, non sanno più con precisione dove si trovano: stanno fisicamente in un luogo, ma col cellulare e la parola sono proiettati in un altro. Questo può essere vero. E se lo scopo della realtà virtuale e del punto di vista in soggettiva fosse proprio quello di farci geolocalizzare nel mondo, di nuovo? Se questo spazio evanescente realisticamente-irreale diventasse necessario per capire dove siamo?
L'attore Brandon Wilson in una sequenza del film
Il futuro documenta(rio)
Mentre studiavo e facevo ricerche per la stesura di questo articolo, il 24 marzo 2025, nel villaggio di Susya, in Cisgiordania, Hamdan Ballal, uno dei quattro registi di No Other Land (Basel Adra, Yuval Abraham, Rachel Szor e Hamdan Ballal, 2024) è stato prima aggredito da un gruppo di coloni israeliani armati, poi ferito e arrestato dall’esercito israeliano. Il cineasta è stato rilasciato il giorno successivo, il 25 marzo 2025, dopo aver trascorso la notte bendato e ammanettato in una base militare dove ha subito ulteriori violenze da parte dei soldati. Il film racconta la resistenza della comunità palestinese di Masafer Yatta, un’area composta da diciannove villaggi nel sud della Cisgiordania, dichiarata aera militare dalle autorità israeliane. Basel Adra, un attivista palestinese, e Yuval Abraham, giornalista israeliano, documentano la distruzione della comunità da parte dell’esercito israeliano, che costringe gli abitanti a vedersi distruggere davanti agli occhi le proprie case e a vivere in condizioni precarie dentro a delle grotte.
Le controversie che hanno coinvolto il film risalgono già alla sua prima proiezione alla 74ª edizione del Festival di Berlino: Yuval Abraham, accusato in Germania di antisemitismo per avere chiesto un cessate il fuoco, ha ricevuto innumerevoli minacce di morte e, una volta tornato in patria, con i suoi genitori è dovuto scappare dalla propria casa; Steven Meiner, sindaco di Miami Beach, ha tentato di porre fine al contratto di locazione e al sostegno finanziario per O Cinema, un cinema indipendente che aveva proiettato il documentario, accusando il film di antisemitismo (attivisti difensori dei diritti e artisti si sono opposti a questa scelta, così Meiner ha ritirato la minaccia); il ministro della Cultura israeliano, Miki Zohar, ha definito la vittoria agli Oscar del documentario come un “momento triste per il mondo del cinema”, accusando i registi di voler sabotare lo Stato di Israele. Tutto questo per dare una panoramica generale.
No Other Land (2024)
Ripensando al film, Basel Adra (che ricordiamo essere un attivista figlio di attivisti) e gli altri registi corrono costantemente con una telecamera in mano per documentare l’arrivo dei militari, per documentare la distruzione della case, per documentare l’orribile condizione in cui vivono le persone sfrattate. Qualche volta la telecamera cade, e Basel viene preso a calci e picchiato dall’esercito; poi, con l’aiuto di altri membri della comunità, si libera, e fugge recuperando la telecamera e continuando a registrare (si sente l’urgenza testimoniale). Anche qui ci sono più punti di vista, più formati, più macchine da presa con diverse qualità video. Spesso, quando arrivano i miliari con i fucili in mano, la prima cosa che i giornalisti e attivisti dicono è: “ti sto riprendendo”, come se questa frase rappresentasse l’unica arma a loro disposizione: la camera che produce informazione e poi la diffonde.
Cosa c’entra col nostro discorso precedente? Come in Nickel Boys vediamo l’orrore dagli occhi di chi lo vive. Solo che in questo caso non si tratta più di rilettura del reale, ma di realtà effettiva. Così, il documentario, potrebbe diventare il linguaggio del futuro (o lo è già, o forse lo è sempre stato), che ci permette, tornando ancora una volta a Lanier, di acquisire quella consapevolezza tanto necessaria per portare nel mondo urgenti migliorie.