NC-127
16.09.2022
Il clamore intorno a Don’t Worry Darling di Olivia Wilde a Venezia si è creato per i motivi sbagliati. Il film era molto atteso soprattutto per la sua coppia di protagonisti, interpretati da Florence Pugh e Harry Styles: lei bravissima, lui più universalmente popolare. Il red carpet e la conferenza stampa sono stati accompagnati da chiacchericcio e malelingue, circolanti, a dire il vero, già giorni prima dell’evento. Da diverse indiscrezioni pare che l’aria che si respirasse sul set fosse molto pesante. Pugh non ha partecipato alla conferenza stampa della premiere di Venezia e in passerella non ha rivolto neanche uno sguardo alla sua regista. Si dice che c’entri del tempo prezioso che Oliva Wilde avrebbe sottratto alla lavorazione del film per rimanere a più stretto contatto con Harry Styles: sul set tra di loro è nata una relazione e questo avrebbe inficiato sulle riprese. E alla fine, lui ha davvero sputato addosso a Chris Pine? Sembrerebbe di no.
Per quanto ci possano solleticare il gossip e il drama, questo articolo non vuole essere un pezzo da tabloid né tantomeno un thread di twitter. Il caso di Don’t Worry Darling (se di caso si può parlare) permette però un interessante spunto di riflessione: in un’intervista rilasciata ad Harper's Bazaar dopo che l’uscita del trailer del film aveva acceso le prime polemiche riguardo alle sue scene erotiche, Florence Pugh ha affermato che «se tutto è ridotto alle scene di sesso o a guardare l'uomo più famoso del mondo che fa sesso con qualcuno, capisco che non è per questo che facciamo questo lavoro. Non è il motivo per cui sono in questo settore. Ovviamente, ingaggiare la pop star più famosa del mondo comporta situazioni di questo tipo. Ma non è di ciò che parlerò perché questo film è migliore e più grande di questo. E le persone che lo hanno realizzato sono più grandi e più brave di loro».
Ridurre tutto ad ingaggiare la pop star più famosa del mondo.
La storia nasce attorno a questa figura, vive con essa (e con il pettegolezzo che alimenta la sua popolarità e quella del film) e morirà con i titoli di coda. E quando, al di là della qualità finale del film stesso, si finisce per parlare solo del contorno e non di quello che si vede sullo schermo, qualcosa non ha funzionato. Qualcosa si sta rompendo. Harry Styles è un divo, non c’è dubbio, e il culto che lo riguarda non è nulla di nuovo nel mondo del cinema. Esiste dagli anni Venti del Novecento, da quando l’industria hollywoodiana ideava pellicole cucite su misura su un volto o un determinato personaggio. Gli attori e le attrici in questione erano fisicamente attraenti, utilizzati fondamentalmente per la loro bellezza. Il fenomeno del divismo creò icone ancora oggi indimenticabili come Rodolfo Valentino, Greta Garbo, Marlene Dietrich e molte altre. Negli anni il divismo, per sua natura, si è fatto feticismo. Non che questo sia necessariamente un male (anche se si potrebbe tirare in ballo l’alienazione e ragionare su quanto restrittivi fossero i contratti di quegli attori), ma, più di cento anni dopo, il cinema è un’altra cosa, così come il concetto di divo. Soprattutto nell’era digitale.
Se gli ammiratori del divo formano a volte una vera e propria setta (fan sfegatati che difendono a spada tratta i loro beniamini non fermandosi di fronte a niente e a nessuno), vanno valutate le conseguenze. Ingaggiare un Harry Styles nella propria pellicola potrebbe rivelarsi controproducente, e Don’t Worry Darling ne è l’esempio. Se c’è un problema però non è Harry Styles in quanto attore. La popstar ha all’attivo appena tre ruoli da protagonista e un cameo in un film Marvel: non si è qui a discutere della validità della sua recitazione, bensì di tutto il resto; del peso della popolarità con cui rischia di sopprimere le pellicole a cui prende parte. Il suo nome non è il problema. Altre celebrità prima di lui hanno intrapreso la carriera d’attore, con risultati altalenanti se non mediocri. Un divo del passato intraprese addirittura il percorso opposto: Ronald Reagan, prima acclamato attore di film di serie B per il suo fisico atletico, divenne poi Presidente degli Stati Uniti. Nel cinema di oggi tale specie di attore non si contrattualizza più per i suoi tratti fisici (almeno questa è la speranza), ma per la sua popolarità e il modello che ispira nei confronti del pubblico.
Si può parlare allora di divismo 2.0, di divismo digitale? I social veicolano la popolarità, il fandom decentra la discussione e così tristemente il cinema va in secondo piano. Un altro esempio potrebbe essere quello dell’influencer Giorgia Soleri, seguitissima per il suo attivismo riguardante temi come la vulvodinia, invitata a Venezia da un noto marchio di champagne. Tempo fa disse su Instagram che il cinema non le piaceva per niente, definendolo "un linguaggio che mi annoia". Harry Styles in un’intervista per la promozione di Don’t Worry Darling ha dichiarato banalmente: "La cosa che preferisco di un film è che sembra un film". C’è molta ingenuità e superficialità in commenti del genere, soprattutto tenendo conto che queste sono le persone che sfilano sui red carpet dei più importanti festival cinematografici. Gli attori del domani.
Di questo passo il cinema può davvero diventare un linguaggio noioso nel quale l’unica cosa importante a rimanere a galla è il volto del mito. Un volto non più giudicato per la sua bravura ma – come nell’episodio Nosedive di Black Mirror – per il suo seguito virtuale. In questo nuovo divismo difficilmente si creeranno nuove icone, per come le abbiamo sempre intese, e l’unica tradizione a perdurare sarà quella del feticismo. A rimetterci sembrano essere così gli attori più talentuosi, come Florence Pugh, e il cinema stesso.
NC-127
16.09.2022
Il clamore intorno a Don’t Worry Darling di Olivia Wilde a Venezia si è creato per i motivi sbagliati. Il film era molto atteso soprattutto per la sua coppia di protagonisti, interpretati da Florence Pugh e Harry Styles: lei bravissima, lui più universalmente popolare. Il red carpet e la conferenza stampa sono stati accompagnati da chiacchericcio e malelingue, circolanti, a dire il vero, già giorni prima dell’evento. Da diverse indiscrezioni pare che l’aria che si respirasse sul set fosse molto pesante. Pugh non ha partecipato alla conferenza stampa della premiere di Venezia e in passerella non ha rivolto neanche uno sguardo alla sua regista. Si dice che c’entri del tempo prezioso che Oliva Wilde avrebbe sottratto alla lavorazione del film per rimanere a più stretto contatto con Harry Styles: sul set tra di loro è nata una relazione e questo avrebbe inficiato sulle riprese. E alla fine, lui ha davvero sputato addosso a Chris Pine? Sembrerebbe di no.
Per quanto ci possano solleticare il gossip e il drama, questo articolo non vuole essere un pezzo da tabloid né tantomeno un thread di twitter. Il caso di Don’t Worry Darling (se di caso si può parlare) permette però un interessante spunto di riflessione: in un’intervista rilasciata ad Harper's Bazaar dopo che l’uscita del trailer del film aveva acceso le prime polemiche riguardo alle sue scene erotiche, Florence Pugh ha affermato che «se tutto è ridotto alle scene di sesso o a guardare l'uomo più famoso del mondo che fa sesso con qualcuno, capisco che non è per questo che facciamo questo lavoro. Non è il motivo per cui sono in questo settore. Ovviamente, ingaggiare la pop star più famosa del mondo comporta situazioni di questo tipo. Ma non è di ciò che parlerò perché questo film è migliore e più grande di questo. E le persone che lo hanno realizzato sono più grandi e più brave di loro».
Ridurre tutto ad ingaggiare la pop star più famosa del mondo.
La storia nasce attorno a questa figura, vive con essa (e con il pettegolezzo che alimenta la sua popolarità e quella del film) e morirà con i titoli di coda. E quando, al di là della qualità finale del film stesso, si finisce per parlare solo del contorno e non di quello che si vede sullo schermo, qualcosa non ha funzionato. Qualcosa si sta rompendo. Harry Styles è un divo, non c’è dubbio, e il culto che lo riguarda non è nulla di nuovo nel mondo del cinema. Esiste dagli anni Venti del Novecento, da quando l’industria hollywoodiana ideava pellicole cucite su misura su un volto o un determinato personaggio. Gli attori e le attrici in questione erano fisicamente attraenti, utilizzati fondamentalmente per la loro bellezza. Il fenomeno del divismo creò icone ancora oggi indimenticabili come Rodolfo Valentino, Greta Garbo, Marlene Dietrich e molte altre. Negli anni il divismo, per sua natura, si è fatto feticismo. Non che questo sia necessariamente un male (anche se si potrebbe tirare in ballo l’alienazione e ragionare su quanto restrittivi fossero i contratti di quegli attori), ma, più di cento anni dopo, il cinema è un’altra cosa, così come il concetto di divo. Soprattutto nell’era digitale.
Se gli ammiratori del divo formano a volte una vera e propria setta (fan sfegatati che difendono a spada tratta i loro beniamini non fermandosi di fronte a niente e a nessuno), vanno valutate le conseguenze. Ingaggiare un Harry Styles nella propria pellicola potrebbe rivelarsi controproducente, e Don’t Worry Darling ne è l’esempio. Se c’è un problema però non è Harry Styles in quanto attore. La popstar ha all’attivo appena tre ruoli da protagonista e un cameo in un film Marvel: non si è qui a discutere della validità della sua recitazione, bensì di tutto il resto; del peso della popolarità con cui rischia di sopprimere le pellicole a cui prende parte. Il suo nome non è il problema. Altre celebrità prima di lui hanno intrapreso la carriera d’attore, con risultati altalenanti se non mediocri. Un divo del passato intraprese addirittura il percorso opposto: Ronald Reagan, prima acclamato attore di film di serie B per il suo fisico atletico, divenne poi Presidente degli Stati Uniti. Nel cinema di oggi tale specie di attore non si contrattualizza più per i suoi tratti fisici (almeno questa è la speranza), ma per la sua popolarità e il modello che ispira nei confronti del pubblico.
Si può parlare allora di divismo 2.0, di divismo digitale? I social veicolano la popolarità, il fandom decentra la discussione e così tristemente il cinema va in secondo piano. Un altro esempio potrebbe essere quello dell’influencer Giorgia Soleri, seguitissima per il suo attivismo riguardante temi come la vulvodinia, invitata a Venezia da un noto marchio di champagne. Tempo fa disse su Instagram che il cinema non le piaceva per niente, definendolo "un linguaggio che mi annoia". Harry Styles in un’intervista per la promozione di Don’t Worry Darling ha dichiarato banalmente: "La cosa che preferisco di un film è che sembra un film". C’è molta ingenuità e superficialità in commenti del genere, soprattutto tenendo conto che queste sono le persone che sfilano sui red carpet dei più importanti festival cinematografici. Gli attori del domani.
Di questo passo il cinema può davvero diventare un linguaggio noioso nel quale l’unica cosa importante a rimanere a galla è il volto del mito. Un volto non più giudicato per la sua bravura ma – come nell’episodio Nosedive di Black Mirror – per il suo seguito virtuale. In questo nuovo divismo difficilmente si creeranno nuove icone, per come le abbiamo sempre intese, e l’unica tradizione a perdurare sarà quella del feticismo. A rimetterci sembrano essere così gli attori più talentuosi, come Florence Pugh, e il cinema stesso.