NC-130
17.11.2022
«A partire dalla sua nascita, più o meno alla fine di ogni decennio il cinema è stato dichiarato morto. I nostri tempi turbolenti non sono da meno. Nonostante epidemie e guerre, tuttavia, il cinema sopravvive. Che cos’è quindi il cinema oggi? È arrivato il momento di chiederselo fino in fondo». Questa è la premessa da cui si muove Il cinema, l’immortale, un inaspettato saggio-pamphlet-riflessione ad alta voce del regista Daniele Vicari sull’essenza e il futuro del cinema, edito in una splendida e minimalista veste grafica dall’Einaudi. Vicari, classe 1967, pluripremiato tra David e Venezia, autore di diversi film cult del cinema italiano recente - uno su tutti Diaz – Don’t Clean Up This Blood - riflette sulla nozione stessa di Cinema in un momento in cui il linguaggio cinematografico sta cambiando, i confini tra la settima arte e le altre forme dell’audiovisivo si assottigliano, per non dire che si cancellano, e l’effetto combinato della pandemia e delle piattaforme streaming porta a una forte diserzione delle sale, almeno in Italia. Il libro si potrebbe intitolare altrettanto bene Il cinema, l’inafferrabile, dal momento che Vicari, nelle sue riflessioni, si trova più volte di fronte all’impossibilità di definire in ultimo, a parole, che cos’è il cinema, qual è lo specifico discrimine che permette di identificare un film distinguendolo da qualunque altro prodotto che all’immagine e al sonoro affidi le sue possibilità di comunicazione.
Uno degli aspetti più belli de Il cinema, l’immortale consiste in un chiasmo: il libro di Vicari è, in tutto e per tutto un saggio, accompagnato anche da un congruo numero di note a piè di pagina - non per nulla Vicari è stato uno degli ultimi allievi del grande Guido Aristarco di Cinema Nuovo e i numerosi riferimenti a scritti puramente teorici sul cinema tradiscono la sua iniziale gavetta da critico - eppure, in diversi passaggi affiora anche una sorta di costruzione cinematografica, con una scena ricorrente da cui si dipanano le molteplici riflessioni sul cinema che costruiscono il volume. Questo leitmotiv è il racconto di Vicari stesso, in un viaggio in treno verso Mestre, che nota una ragazza tutta concentrata a vedere qualcosa sullo smartphone. Quest’incontro casuale e del tutto fortuito permette all’autore di riflettere, in un primo momento, sull’evoluzione dei medium di riproduzione dei contenuti audiovisivi, con un forte rimpianto all’idea che le generazioni più giovani non sapranno mai, o sapranno male, che cosa abbia rappresentato l’esperienza cinematografica per gli adulti e gli anziani di oggi. Poi però scopre che la ragazza sta guardando, al cellulare, nientemeno che 2001: Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick, e le carte si scompaginano ancora: guardare allo smartphone l’epopea primitivo-fantascientifica di Kubrick è un indubbio atto cinefilo, ma al tempo stesso non è dissacrante vedere un capolavoro assoluto della settima arte, concepito per la visione sul grande schermo, su un palmare di pochi pollici? Vicari una risposta assoluta e definitiva non ce l’ha, fortunatamente per lui e per noi, e ci lascia anzi con il sospetto che questa epifania autobiografica in treno, scaglionata lungo tutto il saggio, altro non sia stato se non un brillante trucco registico per meglio accompagnare, ed alternare, le riflessioni più teoriche,tanto più che l’elemento del viaggio in treno, come ha illustrato bene anche Pietro Marcello con il suo Il passaggio della linea, si riconnette vertiginosamente alle origini archetipiche e parigine del cinema.
Vicari al lavoro sul set
La copertina del libro
Ogni generazione ha cantato la morte del cinema, dice Vicari, eppure il cinema continua a esistere, non diversamente Derrida, quarant’anni fa, denunciava il costante vezzo della filosofia occidentale a proclamarsi morta. Ma «se i nostri antenati si fossero affezionati al kinetoscopio urlando allo scandalo per l’invenzione del proiettore, forse non sarebbe nata la sala cinematografica», è la replica, semplice ma incisiva, di Vicari, agli apocalittici del cinema di una volta. Il cinema senza dubbio è nato in pellicola, ma è altrettanto indubbio che quello che adesso si chiama cinema è praticato, per lo più, con l’ausilio di apparecchiature digitali. «Con l’avvento del cosiddetto digitale, le connessioni in rete e la nascita di una miriade di canali tv e piattaforme online il cinema si è comportato ancora una volta come una materia mutante, mantenendo la propria primazia e dando luogo a un’infinita varietà di formati che sembrano non avere più nulla in comune con la gloriosa storia del cinematografo vecchia maniera, pur da lì provenendo», ma questo non implica necessariamente la morte, o una morte del cinema, tutt’altro: in termini forse biecamente produttivi, il cinema non è mai stato più colmo di storie di adesso.
Sono svariati i numi tutelari che accompagnano Il cinema, l’immortale, e, curiosamente, sono più i critici, gli intellettuali e gli studiosi in genere, che non i registi propriamente detti: Walter Benjamin, Guy Debord, Jacques Aumont, Emilio Garroni, il già citato Guido Aristarco, e anche il Pirandello dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, più en passant. Si menzionano ovviamente anche i registi, facendo un confronto tra le affermazioni, divergenti e in parte contraddittorie in sé stesse, che sulla morte del cinema hanno espresso in tempi recenti due maestri consacrati della cinematografia mondiale del calibro di David Cronenberg e Quentin Tarantino. A dire il vero, comprensibilmente, Vicari fa spesso riferimento alle riflessioni teoriche di figure liminari tra regia e riflessione metacritica, pensatori e teorici che sono stati anche - Béla Balázs - o soprattutto - Carlo Lizzani, Dziga Vertov con la sua cinetizzazione, per non parlare di Ėjzenštejn - registi. A più riprese Vicari si mostra peraltro consapevole degli ambigui legami che collegano il cinema alle dittature del Novecento, non solo facendo riferimento alle celebri affermazioni dei vari Lenin e Mussolini per cui «la cinematografia è l’arma più forte», ma anche ricostruendo, in maniera assai dettagliata, la storia dell’inizio dell’industria cinematografica italiana fino alla fondazione di Cinecittà, voluta dal fascismo e utilizzata anche come campo di prigionia durante la Seconda Guerra Mondiale, quando vi furono internati soldati inglesi ed africani che furono costretti anche a lavorare sui set di propaganda.
Ne Il cinema, l’immortale non mancano riferimenti al vissuto stesso di Vicari da regista, che non racconta aneddoti da set ma riflette sui «contratti pletorici che firmo con le produzioni ogni qual volta faccia un film», che lo obbligano a cedere i diritti di sfruttamento dell’opera «con qualsiasi mezzo di diffusione attuale o inventato in futuro». Il cinema, insomma, si conosce e si confessa in perenne mutamento, proprio nei suoi interstizi più prosaici, che mettono nero su bianco la costante evoluzione tecnologica del medium di riferimento e il suo bisogno di nuove leve, se è vero che uno dei capitoli più interessanti di tutto il libro di Vicari, Il sospetto di Mamet, prende le mosse dall’esperienza dello stesso autore in qualità di co-fondatore e direttore artistico della scuola pubblica di cinema Gian Maria Volonté, e affronta la questione spinosa dell’effettiva possibilità di insegnare «il» cinema partendo dalle perplessità che il drammaturgo e regista statunitense David Mamet aveva candidamente rivelato in apertura del suo saggio Dirigere un film.
Locandina di Diaz - Don't Clean Up This Blood, presentato alla Berlinale del 2012
«Per voi il cinema è spettacolo / Per me è quasi una concezione del mondo / Il cinema è portatore di movimento / Il cinema svecchia la letteratura / Il cinema demolisce l’estetica / Il cinema è audacia / Il cinema è un atleta» verseggiava Vladimir Majakovskij nella Mosca degli anni venti, all’indomani della Rivoluzione d’ottobre. «Ma il cinema è malato / Il capitalismo gli ha gettato negli occhi / Una manciata d’oro / Abili imprenditori lo portano a spasso per le vie / Tenendolo per mano / Raccolgono denaro commuovendo la gente / Con meschini soggetti lacrimosi / Questo deve avere fine». Negli ultimi capitoli de Il cinema, l’immortale, Vicari ragiona anche sull’avvento delle piattaforme streaming, prima ricostruendo l’inizialmente bizzarra storia della fondazione di Netflix - creata da Reed Hastings per ripicca dopo aver dovuto pagare una pesante penale per il ritardo nella restituzione di un DVD a un videonoleggio -e poi affrontando con una rara oggettività i vantaggi, gli svantaggi e tutte le implicazioni in termini produttivi, distributivi e anche legislativi, apportate dal crescente sviluppo e proliferare delle piattaforme, in Italia e nel mondo.
Vicari registra ovviamente il fatto che i colossi dello streaming sono dei veri e propri «imperi finanziari», inevitabilmente mossi da severe logiche capitalistiche; ma fa notare anche che «la produzione cinematografica classica non è mai stata esattamente il regno della redistribuzione del reddito e della socializzazione dei mezzi di produzione, la nostalgia per quel grande cinema non può far velo alla comprensione dell’oggi». Dall’altro lato, tra i maggiori vantaggi che Vicari vede nei mutamenti produttivi e linguistici apportate dalla diffusione su larga scala dello streaming c’è anche l’ampia diversità di formati: «su una piattaforma, non dovendo corrispondere a programmazioni per fasce orarie, possono coesistere opere cortissime e lunghissime fuori da ogni standard di durata», per cui «potenzialmente una piattaforma si costituisce come opera aperta», tanto per dirla con Eco, e «infinitamente implementabile». Il cinema allora non diventa soltanto immorale e inafferrabile, nella sua essenza, diventa anche interminabile, nella sua durata, nella sua portata, nella sua capacità di affabulare il pubblico. Le tecniche di regia a distanza, i long, sempre più long take sdoganati dal digitale, le picture in picture che realizzano l’ideale di «montaggio verticale» sognato da Ėjzenštejn sono solo alcuni dei grandi mutamenti tecnici e linguistici che attendono il cinema dell’immediato futuro, prevede Vicari in uno degli ultimi capitoli, Il futuro è una terra straniera, che parafrasa silenziosamente il titolo di un suo film del 2008 con Elio Germano e Michele Riondino.
Non c’è molto altro da dire a proposito de Il cinema, l’immortale, se non ribadire che è uno dei libri sul cinema più scorrevoli, più densi, più convincenti, e meno autoreferenziali, che un regista italiano abbia prodotto negli ultimi tempi. Una delle grandi cesure tra il cinema italiano dell’età d’oro, gli anni Cinquanta - Settanta, e quest’oggi dalla difficile designazione - sospeso com’è tra un ossessivo cinema del reale e occasionali premi Oscar - sta proprio nella sostanziale penuria di figure di registi-intellettuali quali erano, in maniera diversa e tutt’altro che convergenti, Antonioni, Zeffirelli, Pasolini o lo stesso Lizzani. Daniele Vicari è una delle ultime propaggini di questa importante tradizione e, come dimostrano i riferimenti del suo libro, è figlio tanto dei più acuti registi del cinema italiano, come Lizzani, quanto dei più sistematici critici, come Aristarco,non per nulla ha intitolato a un caso più unico che raro di attore-intellettuale, quale era Gian Maria Volonté, la sua scuola di cinema. Lungi dall’intellettualizzare il suo cinema, Il cinema, l’immortale di Daniele Vicari affronta la settima arte ad armi pari, e ne trae fuori una seducente cavalcata sempre sospesa tra teoria e prassi, tra arte e produzione.
NC-130
17.11.2022
Vicari al lavoro sul set
«A partire dalla sua nascita, più o meno alla fine di ogni decennio il cinema è stato dichiarato morto. I nostri tempi turbolenti non sono da meno. Nonostante epidemie e guerre, tuttavia, il cinema sopravvive. Che cos’è quindi il cinema oggi? È arrivato il momento di chiederselo fino in fondo». Questa è la premessa da cui si muove Il cinema, l’immortale, un inaspettato saggio-pamphlet-riflessione ad alta voce del regista Daniele Vicari sull’essenza e il futuro del cinema, edito in una splendida e minimalista veste grafica dall’Einaudi. Vicari, classe 1967, pluripremiato tra David e Venezia, autore di diversi film cult del cinema italiano recente - uno su tutti Diaz – Don’t clean up this blood - riflette sulla nozione stessa di Cinema in un momento in cui il linguaggio cinematografico sta cambiando, i confini tra la settima arte e le altre forme dell’audiovisivo si assottigliano, per non dire che si cancellano, e l’effetto combinato della pandemia e delle piattaforme streaming porta a una forte diserzione delle sale, almeno in Italia. Il libro si potrebbe intitolare altrettanto bene Il cinema, l’inafferrabile, dal momento che Vicari, nelle sue riflessioni, si trova più volte di fronte all’impossibilità di definire in ultimo, a parole, che cos’è il cinema, qual è lo specifico discrimine che permette di identificare un film distinguendolo da qualunque altro prodotto che all’immagine e al sonoro affidi le sue possibilità di comunicazione.
Uno degli aspetti più belli de Il cinema, l’immortale consiste in un chiasmo: il libro di Vicari è, in tutto e per tutto un saggio, accompagnato anche da un congruo numero di note a piè di pagina - non per nulla Vicari è stato uno degli ultimi allievi del grande Guido Aristarco di Cinema Nuovo e i numerosi riferimenti a scritti puramente teorici sul cinema tradiscono la sua iniziale gavetta da critico - eppure, in diversi passaggi affiora anche una sorta di costruzione cinematografica, con una scena ricorrente da cui si dipanano le molteplici riflessioni sul cinema che costruiscono il volume. Questo leitmotiv è il racconto di Vicari stesso, in un viaggio in treno verso Mestre, che nota una ragazza tutta concentrata a vedere qualcosa sullo smartphone. Quest’incontro casuale e del tutto fortuito permette all’autore di riflettere, in un primo momento, sull’evoluzione dei medium di riproduzione dei contenuti audiovisivi, con un forte rimpianto all’idea che le generazioni più giovani non sapranno mai, o sapranno male, che cosa abbia rappresentato l’esperienza cinematografica per gli adulti e gli anziani di oggi. Poi però scopre che la ragazza sta guardando, al cellulare, nientemeno che 2001: Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick, e le carte si scompaginano ancora: guardare allo smartphone l’epopea primitivo-fantascientifica di Kubrick è un indubbio atto cinefilo, ma al tempo stesso non è dissacrante vedere un capolavoro assoluto della settima arte, concepito per la visione sul grande schermo, su un palmare di pochi pollici? Vicari una risposta assoluta e definitiva non ce l’ha, fortunatamente per lui e per noi, e ci lascia anzi con il sospetto che questa epifania autobiografica in treno, scaglionata lungo tutto il saggio, altro non sia stato se non un brillante trucco registico per meglio accompagnare, ed alternare, le riflessioni più teoriche,tanto più che l’elemento del viaggio in treno, come ha illustrato bene anche Pietro Marcello con il suo Il passaggio della linea, si riconnette vertiginosamente alle origini archetipiche e parigine del cinema.
La copertina del libro
Ogni generazione ha cantato la morte del cinema, dice Vicari, eppure il cinema continua a esistere, non diversamente Derrida, quarant’anni fa, denunciava il costante vezzo della filosofia occidentale a proclamarsi morta. Ma «se i nostri antenati si fossero affezionati al kinetoscopio urlando allo scandalo per l’invenzione del proiettore, forse non sarebbe nata la sala cinematografica», è la replica, semplice ma incisiva, di Vicari, agli apocalittici del cinema di una volta. Il cinema senza dubbio è nato in pellicola, ma è altrettanto indubbio che quello che adesso si chiama cinema è praticato, per lo più, con l’ausilio di apparecchiature digitali. «Con l’avvento del cosiddetto digitale, le connessioni in rete e la nascita di una miriade di canali tv e piattaforme online il cinema si è comportato ancora una volta come una materia mutante, mantenendo la propria primazia e dando luogo a un’infinita varietà di formati che sembrano non avere più nulla in comune con la gloriosa storia del cinematografo vecchia maniera, pur da lì provenendo», ma questo non implica necessariamente la morte, o una morte del cinema, tutt’altro: in termini forse biecamente produttivi, il cinema non è mai stato più colmo di storie di adesso.
Sono svariati i numi tutelari che accompagnano Il cinema, l’immortale, e, curiosamente, sono più i critici, gli intellettuali e gli studiosi in genere, che non i registi propriamente detti: Walter Benjamin, Guy Debord, Jacques Aumont, Emilio Garroni, il già citato Guido Aristarco, e anche il Pirandello dei Quaderni di Serafino Gubbio operatore, più en passant. Si menzionano ovviamente anche i registi, facendo un confronto tra le affermazioni, divergenti e in parte contraddittorie in sé stesse, che sulla morte del cinema hanno espresso in tempi recenti due maestri consacrati della cinematografia mondiale del calibro di David Cronenberg e Quentin Tarantino. A dire il vero, comprensibilmente, Vicari fa spesso riferimento alle riflessioni teoriche di figure liminari tra regia e riflessione metacritica, pensatori e teorici che sono stati anche - Béla Balázs - o soprattutto - Carlo Lzzani, Dziga Vertov con la sua cinetizzazione, per non parlare di Ėjzenštejn - registi. A più riprese Vicari si mostra peraltro consapevole degli ambigui legami che collegano il cinema alle dittature del Novecento, non solo facendo riferimento alle celebri affermazioni dei vari Lenin e Mussolini per cui «la cinematografia è l’arma più forte», ma anche ricostruendo, in maniera assai dettagliata, la storia dell’inizio dell’industria cinematografica italiana fino alla fondazione di Cinecittà, voluta dal fascismo e utilizzata anche come campo di prigionia durante la Seconda Guerra Mondiale, quando vi furono internati soldati inglesi ed africani che furono costretti anche a lavorare sui set di propaganda.
Ne Il cinema, l’immortale non mancano riferimenti al vissuto stesso di Vicari da regista, che non racconta aneddoti da set ma riflette sui «contratti pletorici che firmo con le produzioni ogni qual volta faccia un film», che lo obbligano a cedere i diritti di sfruttamento dell’opera «con qualsiasi mezzo di diffusione attuale o inventato in futuro». Il cinema, insomma, si conosce e si confessa in perenne mutamento, proprio nei suoi interstizi più prosaici, che mettono nero su bianco la costante evoluzione tecnologica del medium di riferimento e il suo bisogno di nuove leve, se è vero che uno dei capitoli più interessanti di tutto il libro di Vicari, Il sospetto di Mamet, prende le mosse dall’esperienza dello stesso autore in qualità di co-fondatore e direttore artistico della scuola pubblica di cinema Gian Maria Volonté, e affronta la questione spinosa dell’effettiva possibilità di insegnare «il» cinema partendo dalle perplessità che il drammaturgo e regista statunitense David Mamet aveva candidamente rivelato in apertura del suo saggio Dirigere un film.
Locandina di Diaz - Don't Clean Up This Blood, presentato alla Berlinale del 2012
«Per voi il cinema è spettacolo / Per me è quasi una concezione del mondo / Il cinema è portatore di movimento / Il cinema svecchia la letteratura / Il cinema demolisce l’estetica / Il cinema è audacia / Il cinema è un atleta» verseggiava Vladimir Majakovskij nella Mosca degli anni venti, all’indomani della Rivoluzione d’ottobre. «Ma il cinema è malato / Il capitalismo gli ha gettato negli occhi / Una manciata d’oro / Abili imprenditori lo portano a spasso per le vie / Tenendolo per mano / Raccolgono denaro commuovendo la gente / Con meschini soggetti lacrimosi / Questo deve avere fine». Negli ultimi capitoli de Il cinema, l’immortale, Vicari ragiona anche sull’avvento delle piattaforme streaming, prima ricostruendo l’inizialmente bizzarra storia della fondazione di Netflix - creata da Reed Hastings per ripicca dopo aver dovuto pagare una pesante penale per il ritardo nella restituzione di un DVD a un videonoleggio -e poi affrontando con una rara oggettività i vantaggi, gli svantaggi e tutte le implicazioni in termini produttivi, distributivi e anche legislativi, apportate dal crescente sviluppo e proliferare delle piattaforme, in Italia e nel mondo.
Vicari registra ovviamente il fatto che i colossi dello streaming sono dei veri e propri «imperi finanziari», inevitabilmente mossi da severe logiche capitalistiche; ma fa notare anche che «la produzione cinematografica classica non è mai stata esattamente il regno della redistribuzione del reddito e della socializzazione dei mezzi di produzione, la nostalgia per quel grande cinema non può far velo alla comprensione dell’oggi». Dall’altro lato, tra i maggiori vantaggi che Vicari vede nei mutamenti produttivi e linguistici apportate dalla diffusione su larga scala dello streaming c’è anche l’ampia diversità di formati: «su una piattaforma, non dovendo corrispondere a programmazioni per fasce orarie, possono coesistere opere cortissime e lunghissime fuori da ogni standard di durata», per cui «potenzialmente una piattaforma si costituisce come opera aperta», tanto per dirla con Eco, e «infinitamente implementabile». Il cinema allora non diventa soltanto immorale e inafferrabile, nella sua essenza, diventa anche interminabile, nella sua durata, nella sua portata, nella sua capacità di affabulare il pubblico. Le tecniche di regia a distanza, i long, sempre più long take sdoganati dal digitale, le picture in picture che realizzano l’ideale di «montaggio verticale» sognato da Ėjzenštejn sono solo alcuni dei grandi mutamenti tecnici e linguistici che attendono il cinema dell’immediato futuro, prevede Vicari in uno degli ultimi capitoli, Il futuro è una terra straniera, che parafrasa silenziosamente il titolo di un suo film del 2008 con Elio Germano e Michele Riondino.
Non c’è molto altro da dire a proposito de Il cinema, l’immortale, se non ribadire che è uno dei libri sul cinema più scorrevoli, più densi, più convincenti, e meno autoreferenziali, che un regista italiano abbia prodotto negli ultimi tempi. Una delle grandi cesure tra il cinema italiano dell’età d’oro, gli anni Cinquanta - Settanta, e quest’oggi dalla difficile designazione - sospeso com’è tra un ossessivo cinema del reale e occasionali premi Oscar - sta proprio nella sostanziale penuria di figure di registi-intellettuali quali erano, in maniera diversa e tutt’altro che convergenti, Antonioni, Zeffirelli, Pasolini o lo stesso Lizzani. Daniele Vicari è una delle ultime propaggini di questa importante tradizione e, come dimostrano i riferimenti del suo libro, è figlio tanto dei più acuti registi del cinema italiano, come Lizzani, quanto dei più sistematici critici, come Aristarco,non per nulla ha intitolato a un caso più unico che raro di attore-intellettuale, quale era Gian Maria Volonté, la sua scuola di cinema. Lungi dall’intellettualizzare il suo cinema, Il cinema, l’immortale di Daniele Vicari affronta la settima arte ad armi pari, e ne trae fuori una seducente cavalcata sempre sospesa tra teoria e prassi, tra arte e produzione.