Perché i registi scelgono di utilizzare questa
particolare tecnica di ripresa,
scritto da redazione ODG
TR-13
14.11.2020
Qualsiasi film, indipendemente da chi o come lo si realizzi, è basato su una relazione più o meno bidirezionale tra coloro che sono dietro l'obiettivo e coloro che sono di fronte, la cui interazione è inoltre mediata dalla camera stessa. Nella storia del cinema quelli che si trovavano dietro, i registi, hanno sempre cercato nuove tecniche per manipolare la camera, al fine di dar vita a modi diversi di percepire ciò che invece si trovava di fronte. Griffith realizzò le prime carrellate in Birth of a Nation, Hitchcock si inventò l’effetto vertigo, ma sono state fondamentalmente due le tecniche ad aver rivoluzionato il linguaggio cinematografico – il primo piano e il piano sequenza. In entrambi i casi è stata la forza dell’impatto visivo a giustificarne l’uso, la capacità intrinseca di queste immagini di suscitare forti reazioni emotive nello spettatore. Sia il primo piano che il piano sequenza hanno a loro modo servito il ruolo di elementi trainanti nell’evoluzione della narrazione sul grande schermo. Eppure, se ci si ferma a considerare le intenzioni dietro queste due inquadrature, si finisce per trovarsi a confronto con due modi diametralmente opposti di concepire il cinema.
Per primo piano s’intende un’inquadratura che ritrae una persona o un oggetto in maniera tale che quest'ultimo occupi la maggior parte del piano visivo. L’uso del primo piano è appunto quello di concentrare l’attenzione dello spettatore su un unico soggetto di particolare importanza narrativa, e viene spesso considerato come il metodo più efficace per fare trasparire le emozioni e intenzioni di un personaggio. La definizione di piano sequenza rimane invece più ambigua. L’espressione italiana risale all’originale francese plan-séquence, coniata nel 1949 da André Bazin. Il termine risale alla volontà di Bazin di identificare il linguaggio cinematografico di Orson Welles come fondamentalmente unico e rivoluzionario, e serviva a racchiudere il concetto di una sequenza che fosse interamente composta da una sola inquadratura, cioè da un unico piano. Leggermente diversa è invece la denominazione inglese del continuous shot, ovvero dell’inquadratura continuata, in cui il concetto fondamentale è l’esistenza prolungata nel tempo del piano. Nonostante le sottili differenze, entrambe le definizioni implicano che in un piano sequenza la durata di una singola inquadratura (fissa o mobile) debba coincidere esattamente con l’intera durata della sequenza narrativa. L'obiettivo del piano sequenza sembrerebbe quindi quello di eliminare l’interferenza del montaggio, di far sì che gli eventi possano svolgersi in maniera naturale e ininterrotta sullo schermo. E se il primo piano è l’estremo della manipolazione narrativa, in cui il regista ha pieno controllo del tempo e dei modi del racconto, allora il piano sequenza è l’estremo opposto, in cui il regista decide di cedere il controllo della narrazione all’azione stessa. Nel piano sequenza gli eventi si susseguono senza interferenze su una tela aperta, dove non esistono chiare gerarchie narrative, e l’azione può fluire in tempo reale davanti agli occhi dello spettatore.
In un certo senso, il piano sequenza è forse l’unico strumento di democratizzazione che esiste nel cinema, in cui altrimenti il ruolo dello spettatore è prettamente passivo. E se lo spettatore puó diventare agente attivo della narrazione, la camera spesso si trasforma in protagonista, e sono le sue azioni e non quelle dei personaggi che finiscono per monopolizzare la nostra attenzione. Girare un piano sequenza dovrebbe dunque essere per un regista l’atto estremo di resa, ed è strano dunque trovare che la principale critica rivolta a questa tecnica sia che si tratti troppo spesso di un virtuosismo eccentrico fine a se stesso. Ma la realtà è che se è vero tutto ciò che è stato detto finora sul piano sequenza, allora è vero anche il contrario. Nella sequenza iniziale di Touch of Evil (1958, L’infernale Quinlan) la camera si muove come una piuma nel vento, apparentemente imparziale a ciò che avviene ma in realtà sapientemente guidata, e mentre attraversa il confine tra gli Stati Uniti e il Messico, le azioni continuano a sovrapporsi, coinvolgendo noi spettatori in una grande e invisibile orchestrazione degli eventi.
In Kaili Blues (2015), in un piano sequenza lungo 41 minuti, la camera non smette praticamente mai di tremare, e lo fa in maniera volontariamente goffa, trasformandosi in una presenza tanto ingombrante quanto necessaria. L’obiettivo assume una personalità propria e indipendente dalla realtà che lo circonda, e questa a sua volta riesce così ad estendersi al di là dei limiti imposti dallo schermo.
Questi due esempi dimostrano come il piano sequenza sia un testamento registico in continua contraddizione con se stesso, e sono forse queste discrepanze a renderlo così affascinante. È una creatura ambigua e malleabile, capace di adattarsi ad un’infinità di prospettive; una dimensione parallela in cui l’unica cosa che conta è la verità personale. Ed è per questo che ogni piano sequenza non è solamente un frammento di storia del cinema, ma un modo diverso di vedere il mondo.
Abbiamo scelto di raccontarvi otto piani sequenza di altrettanti registi, cercando di far emergere di volta in volta le potenzialità espressive di questa tecnica. Dalle sequenze di apertura ai film girati interamente in piano sequenza, ecco la rassegna collettiva della redazione di ODG.
The Player di Robert Altman, 1992
L’Oxford Dictionary alla voce “Altmanesque” riporta: aggettivo relativo alle caratteristiche e allo stile naturalistico e improvvisato della cinematografica di Robert Altman, solitamente affollata da più protagonisti e da diverse trame sovrapposte.
The player (1992), attenendosi alla definizione, si apre con un piano sequenza di 7 minuti e 47 secondi, costituito da 17 scene interne e abitato da 48 personaggi di maggiore o minore spicco. Pianificare un’opening scene di tale lunghezza e complessità equivale a fantasticare di sceneggiare una partita di calcio. Ma il fine giustifica i mezzi e Altman sceglie il piano sequenza come bussola per non perdersi nella simultaneità del via vai dell’industria Hollywoodiana, riuscendo in tal modo a documentarla e a svelarne i meccanismi e l’artificiosità.
Il film comincia con un’inquadratura fissa di un affresco incorniciato, raffigurante il dietro le quinte di un set (Roger Ebert riconosce una forte somiglianza con una foto del making of del finale di Sunset Boulevard (1950).
L’obiettivo del sequence shot è chiaro fin dal primo secondo: dipingere Hollywood. Altman usa la mdp come pennello e danza sugli studios, sua tela caotica e dispersiva. Ne tratteggia le dinamiche, sorvola sugli imbrogli e nasconde il vero genere della narrazione sotto pennellate pesanti e movimenti di macchina. Questo squarcio, rispetto a quello pittorico iniziale, non ha cornice e non si limita ad immortalare la troupe, il regista e la diva, ma anche gli altri pianeti che orbitano e che si affaccendano freneticamente, diventando a loro volta protagonisti del grande giuoco che anima un mondo fatto di gerarchie e che vede ai suoi vertici: chi arriva in macchina, chi è seguito, chi subisce minacce, chi scarta, chi rimpiange, chi si nasconde dietro alle tapparelle, chi ordina e chi riceve. Mentre chi si muove a piedi, chi corre dietro ad altri, chi funge da Virgilio, chi viene investito, chi cita film europei, chi supplica, chi manda, li guarda dal basso, anelando alla loro altezza.
Per l’intera durata del piano sequenza i personaggi non fanno altro che parlare senza voler ottenere mai nulla. Quando dialogano, annuiscono ma non si ascoltano, non possono fare niente per aiutare l’altro e si dimenticano. Tanto che anche lo sceneggiatore disperato, che non firma un contratto da mesi, non vuole abbandonare la sua condizione di elemosinante perché altrimenti si priverebbe del suo ruolo e quindi anche della sua funzione. Ognuno si muove per finta in quanto bloccato nella sua posizione, garante di identità, funzione, appartenenza e dipendenza, sintomi dell’età dell’informazione.
Scritto da Alice De Luca
Soy Cuba di Michail Kalatozov, 1964
È il 1961. La rivoluzione cubana ha messo fine alla dittatura filo-americana di Fulgencio Batista, e con essa alle relazioni commerciali tra i due paesi. Sotto la bandiera condivisa del socialismo, Fidel Castro prende accordi con l’Unione Sovietica per dar vita alle nuove infrastrutture politiche, economiche e culturali del paese. Tra queste rientra anche il bisogno di stabilire un’identità cinematografica nazionale, e viene così deciso di realizzare un film che racconti la storia della rivoluzione. Il difficile compito ricade nelle mani del regista sovietico Mikhail Kalatozov (vincitore della Palma D’Oro a Cannes nel 1958 per Quando volano le cicogne) e della Mosfilm (casa di produzione dietro molti dei film di Tarkovskij e Eisenstein, oltre a Dersu Uzala, l’unico film non in giapponese di Kurosawa). Al termine di più di un anno di riprese, Soy Cuba arriva finalmente nelle sale. Nonostante le grandi aspettative, l’esperimento viene accolto in maniera negativa sia dai cubani che dai russi, e finisce praticamente subito nel dimenticatoio. Passano altri trent’anni, l’Unione Sovietica si scioglie e Cuba, avendo perso l’unico appoggio commerciale ed essendo ancora vittima dell’embargo statunitense, sprofonda in una dura crisi economica. Parallelamente, a pochi chilometri di distanza, il film torna finalmente alla luce proprio negli Stati Uniti, dove nel 1992 viene proiettato per la prima volta al Telluride Film Festival. Il film cattura l’attenzione di molti cinefili, fino ad arrivare a Martin Scorsese e Francis Ford Coppola, che insieme alla Milestone Films decidono di finanziare la restaurazione. Il film ha un’importanza storica e politica indiscutibile, eppure bastano cinque minuti per capire che la seconda vita di questa pellicola non sia dovuta solo a questo. Soy Cuba è un vero e proprio manifesto artistico, un nuovo modo di intendere il linguaggio cinematografico attraverso il piano sequenza.
Il film si apre con un'inquadratura dell’oceano, e il suono delle onde che s’infrangono sulla costa cubana, dove le palme crescono talmente alte che sembrano toccare il cielo. Una voce fuori campo si identifica come l’anima dell’isola, e piange per le violenze subite dalle sue terre dopo lo sbarco di Colombo. Nel frattempo, la camera sale su un’imbarcazione da fiume. Un uomo di spalle spinge la barca in avanti, passando lentamente sotto una serie di palafitte, e chinandosi per non andare a sbattere. Poi cala il silenzio, Cuba smette di parlare. La camera scende dalla barca e taglia, dando inizio ad un piano sequenza che ha dell’incredibile. La camera viene trasportata in cima ad un grattacielo, durante l’esibizione di un gruppo di musicisti jazz. Il suono delle trombe è assordante, e l’audience è composta esclusivamente da uomini in completi di lino e occhiali da sole, e donne in costume. La scena è un ritratto dell’estasi capitalista, dell’eredità lasciatagli dagli americani prima della rivoluzione. La camera si cala giù dal grattacielo in maniera onirica, come se trasportata da una piattaforma invisibile (in realtà si tratta di un sistema di cavi e ganci che trasportavano l’operatore, che a sua volta reggeva la camera con un’imbracatura tipo Steadicam), e arriva fino a bordo piscina. L'obiettivo ruota intorno ai vari tavoli – gente che gioca a carte, bicchieri di martini ovunque – fino a posarsi su una ragazza sdraiata a prendere il sole. La ragazza si alza, si leva prima la camicia di lino, e poi l’enorme cappello di paglia, per rimanere solo con un bikini leopardato. Uno scalino alla volta, la donna entra in piscina, e la camera continua a seguirla, fino a scendere sott’acqua. E finalmente, dopo 3 minuti e 14 secondi, con una miriade di corpi che fanno su e giù nell’acqua cristallina, c’è un taglio.
Usando l’acqua come comune denominatore, il film presenta due realtà diametralmente opposte. Da un lato c’è il fiume, dove il percorso risulta faticoso e pieno di ostacoli, e dove esiste una separazione fisica tra l’acqua e la vita umana. Dall’altro invece vi è un mondo interamente permeabile e fluido, in cui la camera è libera di muoversi e andare dove vuole. L’acqua del fiume è scura (Kalatozov decise di usare della pellicola a infrarossi ottenuta dall’esercito sovietico per esagerare i contrasti in alcune scene), quella della piscina invece è trasparente. Nel mondo capitalista la natura è totalmente soggetta all’esperienza umana, non esiste più alcuna ostilità, e persino l'obiettivo riesce a vedere sott’acqua (grazie a una lente impermeabile simile a quella usata nei periscopi sottomarini). La traiettoria discendente del piano – dalla cima del grattacielo fino al fondo della piscina – rappresenta la scelta di tuffarsi nei piaceri terreni e nell’edonismo. La realtà però è che questa non è Cuba, ma gli Stati Uniti che si sono appropriati di essa. Tutto ciò rimane inaccessibile ai cubani, che sono nella scena solo per servire o intrattenere. Si tratta di un paradiso riservato a pochi, in cui l’anima cubana rimane senza voce. Con questo piano sequenza, Kalatozov mette in mostra non solo le avanguardie tecniche del cinema sovietico, ma la natura ingannevole del sistema capitalista. Un’illusione tanto cinematografica come sociale, in cui è solo il passare del tempo a farci rendere conto che non ci si trova in un sogno, bensì in un incubo.
Scritto da Rodrigo Mella
Victoria
di Sebastian Schipper, 2015
Victoria, thriller tedesco del 2015, compie il raro gesto di presentare nei titoli di coda il nome del cameraman Sturla Brandth Grøvlen addirittura prima del regista stesso, Sebastian Schipper. E il motivo non è difficile da comprendere. La pellicola è infatti girata in un unico piano-sequenza di 138 minuti, il che lo rende senza dubbio uno degli esperimenti cinematografici più audaci degli ultimi anni.
Il film segue gli avvenimenti di una movimentata serata nella capitale tedesca, accompagnando una giovane ragazza spagnola dal momento del suo incontro con un gruppo di ragazzi in un locale fino alle prime luci del mattino. Laia Costa, nei panni di Victoria, guida la camera dal primo all’ultimo frame. Schipper ha raggiunto l’obiettivo di realizzare il film girandolo nella sua interezza in un unico piano sequenza, al terzo nonché ultimo tentativo che aveva a disposizione.
Ciò che rende questo esperimento particolarmente interessante è la sua malleabilità, la sua mutevolezza e il suo essere ibrido, elementi che contribuiscono a creare qualcosa di imprevedibile. Ed è questa la grande differenza con i piani sequenza che conosciamo, perché ciò che Schipper aspira a trasmettere è proprio l’irreplicabilità della scena. L’unicità del film, infatti, sta proprio nell’aver lasciato grande spazio all’improvvisazione degli attori, che con solo 12 pagine di sceneggiatura sono riusciti a dare vita al personaggio, rendendo il tutto estremamente realistico e travolgente. Un film così concepito lascia quindi grande spazio ad errori veri, non pianificabili, e così come per gli attori tanto sta anche nell’abilità del cameraman che, improvvisando insieme al cast, è riuscito a trasmetterci tutta l’energia che i ragazzi hanno vissuto quella notte.
E quella che forse è la vera riuscita di Victoria è la facilità con cui si smette di pensare alla difficoltà tecnica del film, con la camera di Grøvlen che diventa irrimediabilmente il nostro punto di vista, e ci fa diventare parte dell’azione.
Scritto da Vittoria Colangelo
Burning
di Lee Chang-dong, 2018
“Chi sei? un piccolo affamato o un grande affamato?”
E’ questa la domanda implicita che troviamo rivolta allo spettatore in Burning, l’ultima pellicola del regista sudcoreano Lee Chang-dong, basata su un racconto di Murakami.
Una cosa è certa, il film ci dimostra come i grandi affamati, cioè coloro che perseguono la ricerca del significato profondo della vita, non troveranno mai una pace interiore e probabilmente si dissolveranno come un tramonto. Questo è infatti il destino riservato al personaggio di Hae-mi, interpretata dalla magnifica Jeon Jong-seo, che ci regala una delle performance più veritiere degli ultimi anni, in uno dei piani sequenza più poetici della storia del cinema.
Privo di ogni tipo di stilismo peculiare di questo modello di inquadratura, il regista ci presenta un piano sequenza in cui la mdp segue l’andamento melodico della musica di Miles Davis su cui Hae-mi, a petto nudo, spogliata metaforicamente del costume che la società la costringe ad indossare, accenna una danza liberatoria da una condizione umana di opprimente ricerca di sé. È una caratteristica preponderante nelle nuove generazioni che si affacciano su un mondo che, come emerge da una scena del film in cui sentiamo il notiziario, e anche dallo sventolare stesso della bandiera coreana sullo sfondo della danza della ragazza, non riesce ad offrirgli altro se non disoccupazione e incertezze sull’assetto geopolitico del futuro.
Hae-mi, dopo aver attraversato mezzo mondo, giungendo in Africa, per cercare il significato della vita, torna in Corea dove, in questa sequenza, giunge a una rivelazione per cui il tramonto è uguale in ogni luogo del mondo: ovunque lei vada non potrà mai distaccarsi dalla propria tristezza, che appartiene inevitabilmente anche a un’intera generazione di sognatori che cerca di danzare sulle “note della vita” e volare lontano, come gli uccelli che Hae-min mima nel suo movimento di mani, ma finisce per rassegnarsi all’idea che quel senso tanto agognato non potrà mai raggiungerlo.
La scelta, quindi, di adottare la forma del piano sequenza è da attribuire ad una volontà registica di fondere tempo della pellicola e tempo presente vissuto dalla protagonista stessa, permettendo così allo spettatore di danzare visivamente insieme a lei e regalandogli gli ultimi momenti di libertà spirituale e fisica di una Hea-mi che non vedrà più.
Scritto da Aureliana Bontempo
Boogie Nights
di Paul Thomas Anderson, 1997
Nero. Lentamente emerge una melodia lontana, sfocata. Il suono di fiati, probabilmente ottoni, si fa sempre più nitido. La musica procede su nero a ritmo lento, solenne. Sembra essere a tutti gli effetti l’aria di una marcia funebre. La melodia gradualmente sfuma, fino a spegnersi. Nero. Stacco. Sulle note prorompenti di “Best of my Love” dei The Emotions, compare un’insegna al neon di un cinema che recita “Boogie Nights”, prima immagine di un lungo piano sequenza che introduce dapprima il nome del film, poi la sua ambientazione storica, geografica (San Fernando Valley, California, 1977) e la rosa dei suoi numerosi personaggi.
La camera lascia l’insegna rosa fluo per abbandonarsi a movimenti altalenanti, su e giù, in un mix di tilt e pan. Con una gru dall’alto seguiamo un’automobile che percorre la carreggiata (di gusto Wellesiano) fino ad accostarsi ad un locale notturno, l’ “Hot Traxx”, davanti al quale una lunga fila attende di entrare. Qui la magia: la camera “plana” dalle alte quote della gru, atterra dolcemente al suolo. Improvvisamente il punto di vista è ad altezza uomo, sembra che la mdp si sia spostata su una steadycam. Non finisce qui: la coppia alla guida della macchina parcheggia, si dirige verso l’ingresso ed entra nel locale. La camera li segue, inquadrandoli a seguire, come se anche il regista volesse intrufolarsi nel posto nascondendosi dietro le spalle del suo personaggio. Dentro il Night Club c’è un altro mondo. La vita del sabato sera nella California dei fine anni 70 dai colori psichedelici della dance hall, dai panta-zampa dei clienti e dalle capigliature esagerate. Il proprietario portoricano accoglie calorosamente la coppia, li invita a sedersi, offre loro un piatto di ostriche. Ecco che la camera lascia la coppia per agganciarsi a quest’altro personaggio appena conosciuto, il portoricano, che si aggira nella sua pista da ballo per controllare la situazione e salutare vecchi amici. Ancora, la camera sembra distrarsi dal suo nuovo obiettivo per tornare immediatamente sulla coppia ora seduta a tavola. Qui sopraggiunge una cameriera bionda su rollerblades, quasi la caricatura di se stessa, che scambia due parole con la donna della coppia, poi si allontana sui suoi pattini. Ecco quindi che la camera si fa distrarre di nuovo, abbandona la coppia e segue incuriosita la ragazza sui pattini, muovendosi con certa disinvoltura tra le tante persone che affollano il locale, come se chiedesse permesso per tenere il passo della ragazza. Dopo un giro quasi piroettistico tra gente che balla e che beve l’attenzione della mdp si sofferma sul volto di un ragazzo, dallo sguardo mesto e diligente, che sembra avere tra le mani una pila di piatti da lavare. Il protagonista.
Con questo sinuoso ed incredibile piano sequenza si apre Boogie Nights, la pellicola che ha consacrato il suo giovane regista, Paul Thomas Anderson. Il titolo è “diegetico”, inserito nella storia, sotto forma di un’insegna al neon. Il piano sequenza viene qui usato a regola d’arte come ouverture dell’opera, secondo un modello classico che procede dal generale al particolare, dal campo largo sulla strada al primo piano del protagonista Dirk Diggler (Mark Wahlberg). Secondo questo “zoom semantico” della camera l’autore crea un’atmosfera di sospensione: non sappiamo dove la mdp vuole posarsi, stabilirsi, continua a danzare e a girarsi incuriosita dentro quel Night come attratta dalle innumerevoli luci, voci, colori. Così noi spettatori non riusciamo a identificarci con nessun personaggio, che viene ripreso e poi abbandonato, inseguito e poi dimenticato. Il piano sequenza assurge qui a elegante ruolo di mosaico, capace di presentare in quattro minuti di long take tutti i protagonisti della vicenda. Il buon senso avrebbe suggerito uno stacco netto nel passaggio da un campo largo esterno a un campo medio interno dei personaggi. Il senso sarebbe rimasto lo stesso: siamo in una discoteca, molto affollata, e dentro c’è qualcuno. Ma Anderson decide di non fratturare questa continuità, questo graduale avvicinarsi della camera all’oggetto di interesse. Come una pallina dentro un imbuto, l’occhio non va dritto al punto nevralgico, ma ci gira intorno, più e più volte. I primi quattro minuti raccontano già molto del protagonista: senza neanche sapere il nome di quel lavapiatti, sappiamo già in che contesto è calato, in che epoca, possiamo intuirne la posizione sociale e anche le emozioni - visto che in mezzo a tanta gente che balla e scherza, è il primo volto incupito che si intravede.
In questo Anderson si conferma, fin dai suoi primi passi, un sapiente conoscitore del mezzo-cinema. La capacità di “dire” (e non parlare) per immagini, di calare lo spettatore da una posizione privilegiata onnisciente (inizio - esterno, camera in alto, gru) a una posizione bassa, pari a quella dei suoi personaggi (fine - interno, camera ancora più in basso dello sguardo di Diggler) lo contraddistingue nel panorama americano dei primi anni 2000 per le grandi doti registiche. La musica funebre di Michael Penn, con cui Anderson ha da sempre un forte sodalizio, è solo un rumore di sottofondo, tenue, nascosto sotto il clamore e il vociare dei mitici anni ‘70 dove anche fare il cinema porno significava glamour, autorialità.
Eppure il film mostrerà come quella linea melodica, soave, funerea, si farà sempre più limpida, segno di una società americana volta ormai al tramonto del sogno del cinema, all’incombere dell’home-video e della scomparsa dei cinema a luci rosse. Un sogno collettivo che si incarna nelle ambizioni di fama del giovane lavapiatti Dirk Diggler e che vedrà la fine con l’inizio della plastificata e individualistica era reaganiana. Si continua a ballare, a correre sui rollerblades e a mangiare ostriche, consapevoli tutti che il Night Club chiuderà, tornerà il silenzio, rotto soltanto da una solitaria melodia elegiaca.
Scritto da Lorenzo Vitrone
Madre
di Rodrigo Sorogoyen, 2019
Elena, interpretata da una magnifica Marta Nieto, è una giovane madre single. Un giorno come un altro, mentre è tranquilla in casa con sua madre, riceve una telefonata. Il numero che compare sullo schermo del suo cellulare è quello del suo ex marito, ma la voce dall’altro capo del telefono è quella di Ivan, loro figlio di appena sei anni. Il piccolo, in vacanza con il padre in un punto imprecisato della costa francese, è solo ed impaurito. L’uomo gli aveva detto di aspettarlo lì e poi si era allontanato, ma ancora non aveva fatto ritorno ed il bambino cominciava ad agitarsi. L’atmosfera cambia radicalmente. Il sorriso aperto di Elena si spegne, è tesa, avverte il pericolo, ma deve fare in modo che suo figlio rimanga tranquillo. La mdp non perde mai di vista la protagonista, i movimenti seguono esattamente il crescere della tensione emotiva della donna. Elena allerta con gesti concitati sua madre che in sottofondo tenta di spiegare la complicata situazione alla polizia. Senza il nome di una località intercettare il bambino sembra una missione impossibile. Le due si scambiano gesti e occhiate preoccupate, ma il tono di Elena deve mantenersi calmo. Spinge con dolcezza il figlio a raccontare cosa vede, alla ricerca di qualunque particolare che sia utile all’identificazione del luogo. Nulla, è su una spiaggia deserta come tante, nessun bar, nessuna insegna. Riesce solo a notare qualche cespuglio qua e là. Il suo telefonino, dice alla madre, è quasi scarico. All’improvviso Ivan vede l’ombra di un uomo. Si sta avvicinando. Non è suo padre. La batteria del suo cellulare è sempre più bassa. Ecco allora che tutto precipita. I tentativi di Ivan di nascondersi dall’uomo si rivelano inutili, il cellulare si spegne definitivamente.
Questo è tutto ciò che sappiamo. Così si conclude l’incipit di Madre, un unico piano sequenza della durata di ben diciotto minuti. Un inizio carico di adrenalina, pensato inizialmente come cortometraggio. La vittoria conseguita in diversi festival internazionali è valsa al regista, Rodrigo Sorogoyen, non solo l’attenzione della critica internazionale, ma anche una prestigiosa candidatura agli Oscar del 2017 nella categoria di Miglior Cortometraggio. Nel 2019, Madre, diventa un film. Presentato nella categoria di Orizzonti alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, inizia proprio con quello che era l’intero cortometraggio.
Un’apertura spiazzante. La forma del piano sequenza apre a un’immedesimazione diretta dello spettatore con Elena. I movimenti di macchina cambiano con il cambiare dello stato d’animo della protagonista. La camera la segue in quel luogo inizialmente luminoso ed avvolgente che è il suo appartamento. Lo stesso che pochi istanti dopo diventa lo scenario di un incubo incontrollabile. La tragedia si sta consumando senza tagli sotto gli occhi dello spettatore, impotente come la giovane madre. Il pericolo imminente è interamente fuori campo. La tensione è magistralmente costruita in un torrente in piena di voci che si intrecciano fino a trasformarsi in grida disperate di una madre sola, lontana ed impotente.
Cosa è successo quindi al piccolo Ivan? È morto dopo aver subito degli abusi? È riuscito a scappare? A queste domande non c’è risposta. Il film infatti, riprende la narrazione esattamente dieci anni dopo l’accaduto. Abbandona le atmosfere del thriller e si sposta in un dramma intimo e sottile.
Elena è ora il fantasma di sé stessa. La perdita del figlio l’ha divorata. Oggi, dieci anni dopo la tragedia, ha un compagno e conduce una vita abitudinaria e silenziosa. Fa la barista in un anonimo bar di una spiaggia al confine tra Francia e Spagna. Ed è proprio in quella spiaggia che un giorno incontra il sedicenne Jean. In lui è come se volesse ritrovare il figlio perduto. Comincia ad osservarlo in silenzio. Poi i due si conoscono, cominciano a frequentarsi, arrivando ad intrecciare una relazione ambigua, ai limiti di quanto concesso dalla pubblica morale.
Ma Jean è veramente suo figlio? L’intera narrazione si muove in un dialogo ambiguo tra ragione e trasgressione. Lo spettatore è agilmente trascinato in un dubbio emotivo. Razionalmente i fatti sono chiari. Jean non è il figlio di Elena. Eppure è come se il regista fosse sempre attento a lasciare uno spiraglio aperto. Una sorta di dubbio emotivo che permette alla tensione di non abbassarsi mai. Elena si muove in una linea molto pericolosa, costantemente scissa tra amore di una madre per un figlio ed attrazione tra due amanti. Mai, nemmeno per un istante, la natura del rapporto di Elena e Jean cessa di risultare ambiguo: sempre teso tra sentimento e carnalità, affinità mentale e contatto fisico.
Il film si conclude, sul piano contenutistico e formale, in un percorso ad anello. La sequenza finale, così come quella iniziale, è un long shot di oltre dieci minuti. Anche in questo caso la scelta formale di un’unica sequenza priva di tagli risulta fondamentale perché in grado di restituire la giusta enfasi del momento che i personaggi stanno vivendo. Elena riesce a portare a compimento un percorso complicatissimo e personale. Grazie all’incontro e alla relazione che intesse con Jean, affronta e in qualche modo accetta la perdita di un figlio che le è stato strappato, portandosi via anche la sua unica possibilità di essere madre, di poter amare un figlio come tale. Riesce a liberare sé stessa accompagnando per mano l’adolescente Jean nel complicato percorso tra adolescenza ed età adulta. Il piano sequenza è indirizzo stilistico predominante dell’intero film. Una scelta che si rivela vincente perché in grado di restituire verosimiglianza a situazioni quotidiane, piccoli gesti, che in questo caso assumono un’importanza fondamentale per lo sviluppo dei personaggi e delle loro relazioni. La mdp si modula elegantemente sui protagonisti con movimenti lenti e sinuosi che ricordano quelli delle onde di un mare che dall’inizio alla fine fa da sfondo all’intero racconto.
Scritto da Diana Incorvaia
Long Day's Journey into Night
di Bi Gan, 2018
“Se il mio corpo è di idrogeno, allora i miei ricordi sono di pietra”
Hongwu, manager di un casinò di una metropoli cinese, dopo molti anni di assenza fa ritorno alla città di provincia dove è cresciuto per seppellire il padre defunto. Su richiesta della madre viene incaricato di indagare sulla morte del suo vecchio amico Wildcat, defunto in circostanze misteriose dodici anni prima. Durante questa ricerca nella mente di Hongwu riaffiorano una serie di ricordi, tra i quali un rapporto ambiguo con una donna misteriosa dalla quale è attratto.
Fino a questo punto, l’opera seconda di Bi Gan appare come un noir denso, in cui tempo reale e dimensione della memoria si intrecciano rendendo la trama fitta e poco comprensibile, come nelle migliori tradizioni del grande cinema noir (vedi Il grande sonno, 1946). L’unico appiglio narrativo al quale possiamo aggrapparci per orientarci è rappresentato dalla femme fatale che appare e scompare per confondere noi e il protagonista. Ma è dopo 1h 20m che il film di Bi Gan sceglie di prendere letteralmente il volo e di portarci verso lidi narrativi davvero sconosciuti.
Hongwu, stordito dagli eventi e dalle rivelazioni riguardanti la morte dell’amico, entra in un cinema per rilassarsi. Lo vediamo indossare degli occhiali 3D e abbandonarsi alle immagini. Sullo schermo appare la scritta: Long Day's Journey into Night, il film diventa un “metanoir”, l’accostamento con Mulholland Drive è inevitabile. Da questo momento ha inizio un elaborato e stupefacente piano sequenza della durata di 59 minuti, girato interamente in 3D (la prima parte del film era in 2D). Bi Gan ci invita a indossare gli occhiali come il suo protagonista e ad entrare in un sogno lucido in cui si susseguono eventi che appaiono più reali rispetto alla prima parte del film, dove ricordi e tempo presente si mescolavano in un moto complesso e difficilmente decifrabile. Nel piano sequenza il senso di realtà che lo spettatore percepisce è una conseguenza dell’essenza stessa di questa tecnica cinematografica, ovvero l’assenza di stacchi. La continuità della ripresa ci consente di percepire gli eventi che vediamo come consequenziali e quindi temporalmente lineari. Bi Gan però non ha alcuna intenzione di renderci la vita facile e sceglie di farci vedere una serie di eventi via via sempre piú astratti e simbolici e da prospettive “impensabili” nella classicità dell’inizio del film. In una sequenza la camera prende letteralmente il volo (ripresa realizzata grazie a una drone), in un’altra usciamo da una miniera per poi viaggiare assieme al protagonista su una carrucola che ci porta nel cuore di Kaili, la piccola città dove Bi Gan è nato e cresciuto e che ha deciso di raccontare anche nel suo folgorante esordio: Kaili Blues.
Long Day's Journey into Night è un film che indaga la dimensione della memoria e di come questa influenzi il nostro presente e, quindi, la nostra percezione della realtà. L’aspetto singolare della pellicola di questo visionario (e giovanissimo) regista cinese risiede nell’utilizzo del piano sequenza per ribadire un concetto già espresso nella prima parte del film: la realtà non è come sembra, forse nemmeno esiste, perché essa è data dalla percezione fra passato e presente di quel singolo istante, che un attimo dopo risulterà inafferrabile. E che cos'è il cinema per Bi Gan? Nel film proiettato all’interno del film assistiamo al piano sequenza che il regista decide di connotare con una molteplicità di punti di vista. Forse è proprio questo che ci vuole dire Bi Gan, il cinema è uno strumento per poter assistere alla manifestazione della realtà (o presunta tale) attraverso più punti di vista. Questo ci permette di abbracciare una visione diversa dalla nostra, come Hongwu nel finale del film, quando trova la sua femme fatale e la stringe a sé mentre la camera gira intorno ai due innamorati.
Scritto da Eric Scabar
PROLOGO
di Béla Tarr, 2004
Nel 2018, all’École des beaux arts di Parigi, in occasione di una conferenza tenuta da Béla Tarr, gli organizzatori dell’evento chiesero al regista ungherese di proiettare per il pubblico la sequenza a suo avviso più rappresentativa del proprio cinema. Molti si sarebbero aspettati una scena tratta dai suoi film più famosi, come Le armonie di Werckmeister o Il cavallo di Torino, una di quelle inquadrature lunghe, elaborate e complesse che hanno reso celebre lo stile del regista nell’immaginario comune. Non senza un leggero intento provocatorio, Béla Tarr scelse invece di mostrare uno dei suoi lavori meno conosciuti, il cortometraggio Prologo, originariamente contenuto in un film collettivo dal titolo Visions of Europe. Nato da un’idea di Lars von Trier, questo film del 2004 - uscito in concomitanza con l’annessione di dieci nuovi paesi (tra cui l’Ungheria) all’Unione Europea - si proponeva di offrire un quadro culturale e sociale della comunità europea attraverso 25 cortometraggi di cinque minuti, uno per ogni paese membro. Tra i registi coinvolti nel progetto, alcuni nomi di spicco: Peter Greenaway per il Regno Unito, Fatih Akin per la Germania, Aki Kaurismäki per la Finlandia e, appunto, Béla Tarr per l’Ungheria.
Il corto del maestro ungherese è effettivamente una summa dello stile e del significato profondo del suo modo di intendere il cinema. Un unico piano sequenza di quattro minuti racconta la sua “visione” del proprio paese nel nuovo quadro europeo. Con una lenta e ininterrotta carrellata laterale, la camera scorre sui volti di decine di persone in piedi una dietro l’altra, in attesa, fermandosi solo una volta raggiunto l’inizio della fila: qui, attraverso una finestra, una ragazza comincia a distribuire del pane e della zuppa agli uomini in fila che, uno a uno, ritirano la propria razione ed escono di campo.
Non c’è alcuna ricercatezza formale, né ostentazione delle proprie capacità di cineasta. Il piano sequenza in quanto artificio tecnico è ridotto all’osso: un movimento semplice come la carrellata laterale è messo al servizio dei volti che sfilano davanti allo spettatore. Ancora prima dell’inizio dell’inquadratura, e prolungandosi poi su tutti i titoli di coda, la musica di Mihály Víg si articola in una progressione armonica ciclica e quasi ossessiva, sposandosi perfettamente alle immagini: quando il piano sequenza si apre su una dissolvenza dal nero, la camera è già in movimento, come a suggerire che quella coda davanti alla mensa dei poveri sia in realtà iniziata molto prima, e così il giorno prima e quello prima ancora, in un’eterna ripetizione.
Il piano sequenza riacquista così il suo significato primario: farci percepire lo scorrere del tempo senza mediazioni, senza scorciatoie, farci vivere, anche se per solo qualche minuto, la stessa attesa rassegnata degli uomini che vediamo sullo schermo, come possiamo leggere in quei volti così espressivi e così “reali”. È per sottrazione, “per forza di levare” direbbe Michelangelo, che Béla Tarr raggiunge la sua forma espressiva più essenziale, ricorrendo ad una delle tecniche più complesse del cinema solo per spogliarla da ogni virtuosismo e riportarla al servizio di ciò che gli interessa davvero: cogliere la miseria umana nel suo svolgimento, in quell’incontro tra poesia e disperazione che da sempre è al centro del suo cinema.
Scritto da Luigi Muneratto
Perché i registi scelgono di utilizzare questa particolare tecnica di ripresa,
scritto da redazione ODG
TR-13
14.11.2020
Qualsiasi film, indipendemente da chi o come lo si realizzi, è basato su una relazione più o meno bidirezionale tra coloro che sono dietro l'obiettivo e coloro che sono di fronte, la cui interazione è inoltre mediata dalla camera stessa. Nella storia del cinema quelli che si trovavano dietro, i registi, hanno sempre cercato nuove tecniche per manipolare la camera, al fine di dar vita a modi diversi di percepire ciò che invece si trovava di fronte. Griffith realizzò le prime carrellate in Birth of a Nation, Hitchcock si inventò l’effetto vertigo, ma sono state fondamentalmente due le tecniche ad aver rivoluzionato il linguaggio cinematografico – il primo piano e il piano sequenza. In entrambi i casi è stata la forza dell’impatto visivo a giustificarne l’uso, la capacità intrinseca di queste immagini di suscitare forti reazioni emotive nello spettatore. Sia il primo piano che il piano sequenza hanno a loro modo servito il ruolo di elementi trainanti nell’evoluzione della narrazione sul grande schermo. Eppure, se ci si ferma a considerare le intenzioni dietro queste due inquadrature, si finisce per trovarsi a confronto con due modi diametralmente opposti di concepire il cinema.
Per primo piano s’intende un’inquadratura che ritrae una persona o un oggetto in maniera tale che quest'ultimo occupi la maggior parte del piano visivo. L’uso del primo piano è appunto quello di concentrare l’attenzione dello spettatore su un unico soggetto di particolare importanza narrativa, e viene spesso considerato come il metodo più efficace per fare trasparire le emozioni e intenzioni di un personaggio. La definizione di piano sequenza rimane invece più ambigua. L’espressione italiana risale all’originale francese plan-séquence, coniata nel 1949 da André Bazin. Il termine risale alla volontà di Bazin di identificare il linguaggio cinematografico di Orson Welles come fondamentalmente unico e rivoluzionario, e serviva a racchiudere il concetto di una sequenza che fosse interamente composta da una sola inquadratura, cioè da un unico piano. Leggermente diversa è invece la denominazione inglese del continuous shot, ovvero dell’inquadratura continuata, in cui il concetto fondamentale è l’esistenza prolungata nel tempo del piano. Nonostante le sottili differenze, entrambe le definizioni implicano che in un piano sequenza la durata di una singola inquadratura (fissa o mobile) debba coincidere esattamente con l’intera durata della sequenza narrativa. L'obiettivo del piano sequenza sembrerebbe quindi quello di eliminare l’interferenza del montaggio, di far sì che gli eventi possano svolgersi in maniera naturale e ininterrotta sullo schermo. E se il primo piano è l’estremo della manipolazione narrativa, in cui il regista ha pieno controllo del tempo e dei modi del racconto, allora il piano sequenza è l’estremo opposto, in cui il regista decide di cedere il controllo della narrazione all’azione stessa. Nel piano sequenza gli eventi si susseguono senza interferenze su una tela aperta, dove non esistono chiare gerarchie narrative, e l’azione può fluire in tempo reale davanti agli occhi dello spettatore.
In un certo senso, il piano sequenza è forse l’unico strumento di democratizzazione che esiste nel cinema, in cui altrimenti il ruolo dello spettatore è prettamente passivo. E se lo spettatore puó diventare agente attivo della narrazione, la camera spesso si trasforma in protagonista, e sono le sue azioni e non quelle dei personaggi che finiscono per monopolizzare la nostra attenzione. Girare un piano sequenza dovrebbe dunque essere per un regista l’atto estremo di resa, ed è strano dunque trovare che la principale critica rivolta a questa tecnica sia che si tratti troppo spesso di un virtuosismo eccentrico fine a se stesso. Ma la realtà è che se è vero tutto ciò che è stato detto finora sul piano sequenza, allora è vero anche il contrario. Nella sequenza iniziale di Touch of Evil (1958, L’infernale Quinlan) la camera si muove come una piuma nel vento, apparentemente imparziale a ciò che avviene ma in realtà sapientemente guidata, e mentre attraversa il confine tra gli Stati Uniti e il Messico, le azioni continuano a sovrapporsi, coinvolgendo noi spettatori in una grande e invisibile orchestrazione degli eventi.
In Kaili Blues (2015), in un piano sequenza lungo 41 minuti, la camera non smette praticamente mai di tremare, e lo fa in maniera volontariamente goffa, trasformandosi in una presenza tanto ingombrante quanto necessaria. L’obiettivo assume una personalità propria e indipendente dalla realtà che lo circonda, e questa a sua volta riesce così ad estendersi al di là dei limiti imposti dallo schermo.
Questi due esempi dimostrano come il piano sequenza sia un testamento registico in continua contraddizione con se stesso, e sono forse queste discrepanze a renderlo così affascinante. È una creatura ambigua e malleabile, capace di adattarsi ad un’infinità di prospettive; una dimensione parallela in cui l’unica cosa che conta è la verità personale. Ed è per questo che ogni piano sequenza non è solamente un frammento di storia del cinema, ma un modo diverso di vedere il mondo.
Abbiamo scelto di raccontarvi otto piani sequenza di altrettanti registi, cercando di far emergere di volta in volta le potenzialità espressive di questa tecnica. Dalle sequenze di apertura ai film girati interamente in piano sequenza, ecco la rassegna collettiva della redazione di ODG.
The Player
di Robert Altman, 1992
L’Oxford Dictionary alla voce “Altmanesque” riporta: aggettivo relativo alle caratteristiche e allo stile naturalistico e improvvisato della cinematografica di Robert Altman, solitamente affollata da più protagonisti e da diverse trame sovrapposte.
The player (1992), attenendosi alla definizione, si apre con un piano sequenza di 7 minuti e 47 secondi, costituito da 17 scene interne e abitato da 48 personaggi di maggiore o minore spicco. Pianificare un’opening scene di tale lunghezza e complessità equivale a fantasticare di sceneggiare una partita di calcio. Ma il fine giustifica i mezzi e Altman sceglie il piano sequenza come bussola per non perdersi nella simultaneità del via vai dell’industria Hollywoodiana, riuscendo in tal modo a documentarla e a svelarne i meccanismi e l’artificiosità.
Il film comincia con un’inquadratura fissa di un affresco incorniciato, raffigurante il dietro le quinte di un set (Roger Ebert riconosce una forte somiglianza con una foto del making of del finale di Sunset Boulevard (1950).
L’obiettivo del sequence shot è chiaro fin dal primo secondo: dipingere Hollywood. Altman usa la mdp come pennello e danza sugli studios, sua tela caotica e dispersiva. Ne tratteggia le dinamiche, sorvola sugli imbrogli e nasconde il vero genere della narrazione sotto pennellate pesanti e movimenti di macchina. Questo squarcio, rispetto a quello pittorico iniziale, non ha cornice e non si limita ad immortalare la troupe, il regista e la diva, ma anche gli altri pianeti che orbitano e che si affaccendano freneticamente, diventando a loro volta protagonisti del grande giuoco che anima un mondo fatto di gerarchie e che vede ai suoi vertici: chi arriva in macchina, chi è seguito, chi subisce minacce, chi scarta, chi rimpiange, chi si nasconde dietro alle tapparelle, chi ordina e chi riceve. Mentre chi si muove a piedi, chi corre dietro ad altri, chi funge da Virgilio, chi viene investito, chi cita film europei, chi supplica, chi manda, li guarda dal basso, anelando alla loro altezza.
Per l’intera durata del piano sequenza i personaggi non fanno altro che parlare senza voler ottenere mai nulla. Quando dialogano, annuiscono ma non si ascoltano, non possono fare niente per aiutare l’altro e si dimenticano. Tanto che anche lo sceneggiatore disperato, che non firma un contratto da mesi, non vuole abbandonare la sua condizione di elemosinante perché altrimenti si priverebbe del suo ruolo e quindi anche della sua funzione. Ognuno si muove per finta in quanto bloccato nella sua posizione, garante di identità, funzione, appartenenza e dipendenza, sintomi dell’età dell’informazione.
Scritto da Alice De Luca
Soy Cuba
di Michail Kalatozov, 1964
È il 1961. La rivoluzione cubana ha messo fine alla dittatura filo-americana di Fulgencio Batista, e con essa alle relazioni commerciali tra i due paesi. Sotto la bandiera condivisa del socialismo, Fidel Castro prende accordi con l’Unione Sovietica per dar vita alle nuove infrastrutture politiche, economiche e culturali del paese. Tra queste rientra anche il bisogno di stabilire un’identità cinematografica nazionale, e viene così deciso di realizzare un film che racconti la storia della rivoluzione. Il difficile compito ricade nelle mani del regista sovietico Mikhail Kalatozov (vincitore della Palma D’Oro a Cannes nel 1958 per Quando volano le cicogne) e della Mosfilm (casa di produzione dietro molti dei film di Tarkovskij e Eisenstein, oltre a Dersu Uzala, l’unico film non in giapponese di Kurosawa). Al termine di più di un anno di riprese, Soy Cuba arriva finalmente nelle sale. Nonostante le grandi aspettative, l’esperimento viene accolto in maniera negativa sia dai cubani che dai russi, e finisce praticamente subito nel dimenticatoio. Passano altri trent’anni, l’Unione Sovietica si scioglie e Cuba, avendo perso l’unico appoggio commerciale ed essendo ancora vittima dell’embargo statunitense, sprofonda in una dura crisi economica. Parallelamente, a pochi chilometri di distanza, il film torna finalmente alla luce proprio negli Stati Uniti, dove nel 1992 viene proiettato per la prima volta al Telluride Film Festival. Il film cattura l’attenzione di molti cinefili, fino ad arrivare a Martin Scorsese e Francis Ford Coppola, che insieme alla Milestone Films decidono di finanziare la restaurazione. Il film ha un’importanza storica e politica indiscutibile, eppure bastano cinque minuti per capire che la seconda vita di questa pellicola non sia dovuta solo a questo. Soy Cuba è un vero e proprio manifesto artistico, un nuovo modo di intendere il linguaggio cinematografico attraverso il piano sequenza.
Il film si apre con un'inquadratura dell’oceano, e il suono delle onde che s’infrangono sulla costa cubana, dove le palme crescono talmente alte che sembrano toccare il cielo. Una voce fuori campo si identifica come l’anima dell’isola, e piange per le violenze subite dalle sue terre dopo lo sbarco di Colombo. Nel frattempo, la camera sale su un’imbarcazione da fiume. Un uomo di spalle spinge la barca in avanti, passando lentamente sotto una serie di palafitte, e chinandosi per non andare a sbattere. Poi cala il silenzio, Cuba smette di parlare. La camera scende dalla barca e taglia, dando inizio ad un piano sequenza che ha dell’incredibile. La camera viene trasportata in cima ad un grattacielo, durante l’esibizione di un gruppo di musicisti jazz. Il suono delle trombe è assordante, e l’audience è composta esclusivamente da uomini in completi di lino e occhiali da sole, e donne in costume. La scena è un ritratto dell’estasi capitalista, dell’eredità lasciatagli dagli americani prima della rivoluzione. La camera si cala giù dal grattacielo in maniera onirica, come se trasportata da una piattaforma invisibile (in realtà si tratta di un sistema di cavi e ganci che trasportavano l’operatore, che a sua volta reggeva la camera con un’imbracatura tipo Steadicam), e arriva fino a bordo piscina. L'obiettivo ruota intorno ai vari tavoli – gente che gioca a carte, bicchieri di martini ovunque – fino a posarsi su una ragazza sdraiata a prendere il sole. La ragazza si alza, si leva prima la camicia di lino, e poi l’enorme cappello di paglia, per rimanere solo con un bikini leopardato. Uno scalino alla volta, la donna entra in piscina, e la camera continua a seguirla, fino a scendere sott’acqua. E finalmente, dopo 3 minuti e 14 secondi, con una miriade di corpi che fanno su e giù nell’acqua cristallina, c’è un taglio.
Usando l’acqua come comune denominatore, il film presenta due realtà diametralmente opposte. Da un lato c’è il fiume, dove il percorso risulta faticoso e pieno di ostacoli, e dove esiste una separazione fisica tra l’acqua e la vita umana. Dall’altro invece vi è un mondo interamente permeabile e fluido, in cui la camera è libera di muoversi e andare dove vuole. L’acqua del fiume è scura (Kalatozov decise di usare della pellicola a infrarossi ottenuta dall’esercito sovietico per esagerare i contrasti in alcune scene), quella della piscina invece è trasparente. Nel mondo capitalista la natura è totalmente soggetta all’esperienza umana, non esiste più alcuna ostilità, e persino l'obiettivo riesce a vedere sott’acqua (grazie a una lente impermeabile simile a quella usata nei periscopi sottomarini). La traiettoria discendente del piano – dalla cima del grattacielo fino al fondo della piscina – rappresenta la scelta di tuffarsi nei piaceri terreni e nell’edonismo. La realtà però è che questa non è Cuba, ma gli Stati Uniti che si sono appropriati di essa. Tutto ciò rimane inaccessibile ai cubani, che sono nella scena solo per servire o intrattenere. Si tratta di un paradiso riservato a pochi, in cui l’anima cubana rimane senza voce. Con questo piano sequenza, Kalatozov mette in mostra non solo le avanguardie tecniche del cinema sovietico, ma la natura ingannevole del sistema capitalista. Un’illusione tanto cinematografica come sociale, in cui è solo il passare del tempo a farci rendere conto che non ci si trova in un sogno, bensì in un incubo.
Scritto da Rodrigo Mella
Victoria
di Sebastian Schipper, 2015
Victoria, thriller tedesco del 2015, compie il raro gesto di presentare nei titoli di coda il nome del cameraman Sturla Brandth Grøvlen addirittura prima del regista stesso, Sebastian Schipper. E il motivo non è difficile da comprendere. La pellicola è infatti girata in un unico piano-sequenza di 138 minuti, il che lo rende senza dubbio uno degli esperimenti cinematografici più audaci degli ultimi anni.
Il film segue gli avvenimenti di una movimentata serata nella capitale tedesca, accompagnando una giovane ragazza spagnola dal momento del suo incontro con un gruppo di ragazzi in un locale fino alle prime luci del mattino. Laia Costa, nei panni di Victoria, guida la camera dal primo all’ultimo frame. Schipper ha raggiunto l’obiettivo di realizzare il film girandolo nella sua interezza in un unico piano sequenza, al terzo nonché ultimo tentativo che aveva a disposizione.
Ciò che rende questo esperimento particolarmente interessante è la sua malleabilità, la sua mutevolezza e il suo essere ibrido, elementi che contribuiscono a creare qualcosa di imprevedibile. Ed è questa la grande differenza con i piani sequenza che conosciamo, perché ciò che Schipper aspira a trasmettere è proprio l’irreplicabilità della scena. L’unicità del film, infatti, sta proprio nell’aver lasciato grande spazio all’improvvisazione degli attori, che con solo 12 pagine di sceneggiatura sono riusciti a dare vita al personaggio, rendendo il tutto estremamente realistico e travolgente. Un film così concepito lascia quindi grande spazio ad errori veri, non pianificabili, e così come per gli attori tanto sta anche nell’abilità del cameraman che, improvvisando insieme al cast, è riuscito a trasmetterci tutta l’energia che i ragazzi hanno vissuto quella notte.
E quella che forse è la vera riuscita di Victoria è la facilità con cui si smette di pensare alla difficoltà tecnica del film, con la camera di Grøvlen che diventa irrimediabilmente il nostro punto di vista, e ci fa diventare parte dell’azione.
Scritto da Vittoria Colangelo
Burning
di Lee Chang-dong, 2018
“Chi sei? un piccolo affamato o un grande affamato?”
E’ questa la domanda implicita che troviamo rivolta allo spettatore in Burning, l’ultima pellicola del regista sudcoreano Lee Chang-dong, basata su un racconto di Murakami.
Una cosa è certa, il film ci dimostra come i grandi affamati, cioè coloro che perseguono la ricerca del significato profondo della vita, non troveranno mai una pace interiore e probabilmente si dissolveranno come un tramonto. Questo è infatti il destino riservato al personaggio di Hae-mi, interpretata dalla magnifica Jeon Jong-seo, che ci regala una delle performance più veritiere degli ultimi anni, in uno dei piani sequenza più poetici della storia del cinema.
Privo di ogni tipo di stilismo peculiare di questo modello di inquadratura, il regista ci presenta un piano sequenza in cui la mdp segue l’andamento melodico della musica di Miles Davis su cui Hae-mi, a petto nudo, spogliata metaforicamente del costume che la società la costringe ad indossare, accenna una danza liberatoria da una condizione umana di opprimente ricerca di sé. È una caratteristica preponderante nelle nuove generazioni che si affacciano su un mondo che, come emerge da una scena del film in cui sentiamo il notiziario, e anche dallo sventolare stesso della bandiera coreana sullo sfondo della danza della ragazza, non riesce ad offrirgli altro se non disoccupazione e incertezze sull’assetto geopolitico del futuro.
Hae-mi, dopo aver attraversato mezzo mondo, giungendo in Africa, per cercare il significato della vita, torna in Corea dove, in questa sequenza, giunge a una rivelazione per cui il tramonto è uguale in ogni luogo del mondo: ovunque lei vada non potrà mai distaccarsi dalla propria tristezza, che appartiene inevitabilmente anche a un’intera generazione di sognatori che cerca di danzare sulle “note della vita” e volare lontano, come gli uccelli che Hae-min mima nel suo movimento di mani, ma finisce per rassegnarsi all’idea che quel senso tanto agognato non potrà mai raggiungerlo.
La scelta, quindi, di adottare la forma del piano sequenza è da attribuire ad una volontà registica di fondere tempo della pellicola e tempo presente vissuto dalla protagonista stessa, permettendo così allo spettatore di danzare visivamente insieme a lei e regalandogli gli ultimi momenti di libertà spirituale e fisica di una Hea-mi che non vedrà più.
Scritto da Aureliana Bontempo
Boogie Nights
di Paul Thomas Anderson, 1997
Nero. Lentamente emerge una melodia lontana, sfocata. Il suono di fiati, probabilmente ottoni, si fa sempre più nitido. La musica procede su nero a ritmo lento, solenne. Sembra essere a tutti gli effetti l’aria di una marcia funebre. La melodia gradualmente sfuma, fino a spegnersi. Nero. Stacco. Sulle note prorompenti di “Best of my Love” dei The Emotions, compare un’insegna al neon di un cinema che recita “Boogie Nights”, prima immagine di un lungo piano sequenza che introduce dapprima il nome del film, poi la sua ambientazione storica, geografica (San Fernando Valley, California, 1977) e la rosa dei suoi numerosi personaggi.
La camera lascia l’insegna rosa fluo per abbandonarsi a movimenti altalenanti, su e giù, in un mix di tilt e pan. Con una gru dall’alto seguiamo un’automobile che percorre la carreggiata (di gusto Wellesiano) fino ad accostarsi ad un locale notturno, l’ “Hot Traxx”, davanti al quale una lunga fila attende di entrare. Qui la magia: la camera “plana” dalle alte quote della gru, atterra dolcemente al suolo. Improvvisamente il punto di vista è ad altezza uomo, sembra che la mdp si sia spostata su una steadycam. Non finisce qui: la coppia alla guida della macchina parcheggia, si dirige verso l’ingresso ed entra nel locale. La camera li segue, inquadrandoli a seguire, come se anche il regista volesse intrufolarsi nel posto nascondendosi dietro le spalle del suo personaggio. Dentro il Night Club c’è un altro mondo. La vita del sabato sera nella California dei fine anni 70 dai colori psichedelici della dance hall, dai panta-zampa dei clienti e dalle capigliature esagerate. Il proprietario portoricano accoglie calorosamente la coppia, li invita a sedersi, offre loro un piatto di ostriche. Ecco che la camera lascia la coppia per agganciarsi a quest’altro personaggio appena conosciuto, il portoricano, che si aggira nella sua pista da ballo per controllare la situazione e salutare vecchi amici. Ancora, la camera sembra distrarsi dal suo nuovo obiettivo per tornare immediatamente sulla coppia ora seduta a tavola. Qui sopraggiunge una cameriera bionda su rollerblades, quasi la caricatura di se stessa, che scambia due parole con la donna della coppia, poi si allontana sui suoi pattini. Ecco quindi che la camera si fa distrarre di nuovo, abbandona la coppia e segue incuriosita la ragazza sui pattini, muovendosi con certa disinvoltura tra le tante persone che affollano il locale, come se chiedesse permesso per tenere il passo della ragazza. Dopo un giro quasi piroettistico tra gente che balla e che beve l’attenzione della mdp si sofferma sul volto di un ragazzo, dallo sguardo mesto e diligente, che sembra avere tra le mani una pila di piatti da lavare. Il protagonista.
Con questo sinuoso ed incredibile piano sequenza si apre Boogie Nights, la pellicola che ha consacrato il suo giovane regista, Paul Thomas Anderson. Il titolo è “diegetico”, inserito nella storia, sotto forma di un’insegna al neon. Il piano sequenza viene qui usato a regola d’arte come ouverture dell’opera, secondo un modello classico che procede dal generale al particolare, dal campo largo sulla strada al primo piano del protagonista Dirk Diggler (Mark Wahlberg). Secondo questo “zoom semantico” della camera l’autore crea un’atmosfera di sospensione: non sappiamo dove la mdp vuole posarsi, stabilirsi, continua a danzare e a girarsi incuriosita dentro quel Night come attratta dalle innumerevoli luci, voci, colori. Così noi spettatori non riusciamo a identificarci con nessun personaggio, che viene ripreso e poi abbandonato, inseguito e poi dimenticato. Il piano sequenza assurge qui a elegante ruolo di mosaico, capace di presentare in quattro minuti di long take tutti i protagonisti della vicenda. Il buon senso avrebbe suggerito uno stacco netto nel passaggio da un campo largo esterno a un campo medio interno dei personaggi. Il senso sarebbe rimasto lo stesso: siamo in una discoteca, molto affollata, e dentro c’è qualcuno. Ma Anderson decide di non fratturare questa continuità, questo graduale avvicinarsi della camera all’oggetto di interesse. Come una pallina dentro un imbuto, l’occhio non va dritto al punto nevralgico, ma ci gira intorno, più e più volte. I primi quattro minuti raccontano già molto del protagonista: senza neanche sapere il nome di quel lavapiatti, sappiamo già in che contesto è calato, in che epoca, possiamo intuirne la posizione sociale e anche le emozioni - visto che in mezzo a tanta gente che balla e scherza, è il primo volto incupito che si intravede.
In questo Anderson si conferma, fin dai suoi primi passi, un sapiente conoscitore del mezzo-cinema. La capacità di “dire” (e non parlare) per immagini, di calare lo spettatore da una posizione privilegiata onnisciente (inizio - esterno, camera in alto, gru) a una posizione bassa, pari a quella dei suoi personaggi (fine - interno, camera ancora più in basso dello sguardo di Diggler) lo contraddistingue nel panorama americano dei primi anni 2000 per le grandi doti registiche. La musica funebre di Michael Penn, con cui Anderson ha da sempre un forte sodalizio, è solo un rumore di sottofondo, tenue, nascosto sotto il clamore e il vociare dei mitici anni ‘70 dove anche fare il cinema porno significava glamour, autorialità.
Eppure il film mostrerà come quella linea melodica, soave, funerea, si farà sempre più limpida, segno di una società americana volta ormai al tramonto del sogno del cinema, all’incombere dell’home-video e della scomparsa dei cinema a luci rosse. Un sogno collettivo che si incarna nelle ambizioni di fama del giovane lavapiatti Dirk Diggler e che vedrà la fine con l’inizio della plastificata e individualistica era reaganiana. Si continua a ballare, a correre sui rollerblades e a mangiare ostriche, consapevoli tutti che il Night Club chiuderà, tornerà il silenzio, rotto soltanto da una solitaria melodia elegiaca.
Scritto da Lorenzo Vitrone
Madre
di Rodrigo Sorogoyen, 2019
Elena, interpretata da una magnifica Marta Nieto, è una giovane madre single. Un giorno come un altro, mentre è tranquilla in casa con sua madre, riceve una telefonata. Il numero che compare sullo schermo del suo cellulare è quello del suo ex marito, ma la voce dall’altro capo del telefono è quella di Ivan, loro figlio di appena sei anni. Il piccolo, in vacanza con il padre in un punto imprecisato della costa francese, è solo ed impaurito. L’uomo gli aveva detto di aspettarlo lì e poi si era allontanato, ma ancora non aveva fatto ritorno ed il bambino cominciava ad agitarsi. L’atmosfera cambia radicalmente. Il sorriso aperto di Elena si spegne, è tesa, avverte il pericolo, ma deve fare in modo che suo figlio rimanga tranquillo. La mdp non perde mai di vista la protagonista, i movimenti seguono esattamente il crescere della tensione emotiva della donna. Elena allerta con gesti concitati sua madre che in sottofondo tenta di spiegare la complicata situazione alla polizia. Senza il nome di una località intercettare il bambino sembra una missione impossibile. Le due si scambiano gesti e occhiate preoccupate, ma il tono di Elena deve mantenersi calmo. Spinge con dolcezza il figlio a raccontare cosa vede, alla ricerca di qualunque particolare che sia utile all’identificazione del luogo. Nulla, è su una spiaggia deserta come tante, nessun bar, nessuna insegna. Riesce solo a notare qualche cespuglio qua e là. Il suo telefonino, dice alla madre, è quasi scarico. All’improvviso Ivan vede l’ombra di un uomo. Si sta avvicinando. Non è suo padre. La batteria del suo cellulare è sempre più bassa. Ecco allora che tutto precipita. I tentativi di Ivan di nascondersi dall’uomo si rivelano inutili, il cellulare si spegne definitivamente.
Questo è tutto ciò che sappiamo. Così si conclude l’incipit di Madre, un unico piano sequenza della durata di ben diciotto minuti. Un inizio carico di adrenalina, pensato inizialmente come cortometraggio. La vittoria conseguita in diversi festival internazionali è valsa al regista, Rodrigo Sorogoyen, non solo l’attenzione della critica internazionale, ma anche una prestigiosa candidatura agli Oscar del 2017 nella categoria di Miglior Cortometraggio. Nel 2019, Madre, diventa un film. Presentato nella categoria di Orizzonti alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, inizia proprio con quello che era l’intero cortometraggio.
Un’apertura spiazzante. La forma del piano sequenza apre a un’immedesimazione diretta dello spettatore con Elena. I movimenti di macchina cambiano con il cambiare dello stato d’animo della protagonista. La camera la segue in quel luogo inizialmente luminoso ed avvolgente che è il suo appartamento. Lo stesso che pochi istanti dopo diventa lo scenario di un incubo incontrollabile. La tragedia si sta consumando senza tagli sotto gli occhi dello spettatore, impotente come la giovane madre. Il pericolo imminente è interamente fuori campo. La tensione è magistralmente costruita in un torrente in piena di voci che si intrecciano fino a trasformarsi in grida disperate di una madre sola, lontana ed impotente.
Cosa è successo quindi al piccolo Ivan? È morto dopo aver subito degli abusi? È riuscito a scappare? A queste domande non c’è risposta. Il film infatti, riprende la narrazione esattamente dieci anni dopo l’accaduto. Abbandona le atmosfere del thriller e si sposta in un dramma intimo e sottile.
Elena è ora il fantasma di sé stessa. La perdita del figlio l’ha divorata. Oggi, dieci anni dopo la tragedia, ha un compagno e conduce una vita abitudinaria e silenziosa. Fa la barista in un anonimo bar di una spiaggia al confine tra Francia e Spagna. Ed è proprio in quella spiaggia che un giorno incontra il sedicenne Jean. In lui è come se volesse ritrovare il figlio perduto. Comincia ad osservarlo in silenzio. Poi i due si conoscono, cominciano a frequentarsi, arrivando ad intrecciare una relazione ambigua, ai limiti di quanto concesso dalla pubblica morale.
Ma Jean è veramente suo figlio? L’intera narrazione si muove in un dialogo ambiguo tra ragione e trasgressione. Lo spettatore è agilmente trascinato in un dubbio emotivo. Razionalmente i fatti sono chiari. Jean non è il figlio di Elena. Eppure è come se il regista fosse sempre attento a lasciare uno spiraglio aperto. Una sorta di dubbio emotivo che permette alla tensione di non abbassarsi mai. Elena si muove in una linea molto pericolosa, costantemente scissa tra amore di una madre per un figlio ed attrazione tra due amanti. Mai, nemmeno per un istante, la natura del rapporto di Elena e Jean cessa di risultare ambiguo: sempre teso tra sentimento e carnalità, affinità mentale e contatto fisico.
Il film si conclude, sul piano contenutistico e formale, in un percorso ad anello. La sequenza finale, così come quella iniziale, è un long shot di oltre dieci minuti. Anche in questo caso la scelta formale di un’unica sequenza priva di tagli risulta fondamentale perché in grado di restituire la giusta enfasi del momento che i personaggi stanno vivendo. Elena riesce a portare a compimento un percorso complicatissimo e personale. Grazie all’incontro e alla relazione che intesse con Jean, affronta e in qualche modo accetta la perdita di un figlio che le è stato strappato, portandosi via anche la sua unica possibilità di essere madre, di poter amare un figlio come tale. Riesce a liberare sé stessa accompagnando per mano l’adolescente Jean nel complicato percorso tra adolescenza ed età adulta. Il piano sequenza è indirizzo stilistico predominante dell’intero film. Una scelta che si rivela vincente perché in grado di restituire verosimiglianza a situazioni quotidiane, piccoli gesti, che in questo caso assumono un’importanza fondamentale per lo sviluppo dei personaggi e delle loro relazioni. La mdp si modula elegantemente sui protagonisti con movimenti lenti e sinuosi che ricordano quelli delle onde di un mare che dall’inizio alla fine fa da sfondo all’intero racconto.
Scritto da Diana Incorvaia
Long Day's Journey into Night
di Bi Gan, 2018
“Se il mio corpo è di idrogeno, allora i miei ricordi sono di pietra”
Hongwu, manager di un casinò di una metropoli cinese, dopo molti anni di assenza fa ritorno alla città di provincia dove è cresciuto per seppellire il padre defunto. Su richiesta della madre viene incaricato di indagare sulla morte del suo vecchio amico Wildcat, defunto in circostanze misteriose dodici anni prima. Durante questa ricerca nella mente di Hongwu riaffiorano una serie di ricordi, tra i quali un rapporto ambiguo con una donna misteriosa dalla quale è attratto.
Fino a questo punto, l’opera seconda di Bi Gan appare come un noir denso, in cui tempo reale e dimensione della memoria si intrecciano rendendo la trama fitta e poco comprensibile, come nelle migliori tradizioni del grande cinema noir (vedi Il grande sonno, 1946). L’unico appiglio narrativo al quale possiamo aggrapparci per orientarci è rappresentato dalla femme fatale che appare e scompare per confondere noi e il protagonista. Ma è dopo 1h 20m che il film di Bi Gan sceglie di prendere letteralmente il volo e di portarci verso lidi narrativi davvero sconosciuti.
Hongwu, stordito dagli eventi e dalle rivelazioni riguardanti la morte dell’amico, entra in un cinema per rilassarsi. Lo vediamo indossare degli occhiali 3D e abbandonarsi alle immagini. Sullo schermo appare la scritta: Long Day's Journey into Night, il film diventa un “metanoir”, l’accostamento con Mulholland Drive è inevitabile. Da questo momento ha inizio un elaborato e stupefacente piano sequenza della durata di 59 minuti, girato interamente in 3D (la prima parte del film era in 2D). Bi Gan ci invita a indossare gli occhiali come il suo protagonista e ad entrare in un sogno lucido in cui si susseguono eventi che appaiono più reali rispetto alla prima parte del film, dove ricordi e tempo presente si mescolavano in un moto complesso e difficilmente decifrabile. Nel piano sequenza il senso di realtà che lo spettatore percepisce è una conseguenza dell’essenza stessa di questa tecnica cinematografica, ovvero l’assenza di stacchi. La continuità della ripresa ci consente di percepire gli eventi che vediamo come consequenziali e quindi temporalmente lineari. Bi Gan però non ha alcuna intenzione di renderci la vita facile e sceglie di farci vedere una serie di eventi via via sempre piú astratti e simbolici e da prospettive “impensabili” nella classicità dell’inizio del film. In una sequenza la camera prende letteralmente il volo (ripresa realizzata grazie a una drone), in un’altra usciamo da una miniera per poi viaggiare assieme al protagonista su una carrucola che ci porta nel cuore di Kaili, la piccola città dove Bi Gan è nato e cresciuto e che ha deciso di raccontare anche nel suo folgorante esordio: Kaili Blues.
Long Day's Journey into Night è un film che indaga la dimensione della memoria e di come questa influenzi il nostro presente e, quindi, la nostra percezione della realtà. L’aspetto singolare della pellicola di questo visionario (e giovanissimo) regista cinese risiede nell’utilizzo del piano sequenza per ribadire un concetto già espresso nella prima parte del film: la realtà non è come sembra, forse nemmeno esiste, perché essa è data dalla percezione fra passato e presente di quel singolo istante, che un attimo dopo risulterà inafferrabile. E che cos'è il cinema per Bi Gan? Nel film proiettato all’interno del film assistiamo al piano sequenza che il regista decide di connotare con una molteplicità di punti di vista. Forse è proprio questo che ci vuole dire Bi Gan, il cinema è uno strumento per poter assistere alla manifestazione della realtà (o presunta tale) attraverso più punti di vista. Questo ci permette di abbracciare una visione diversa dalla nostra, come Hongwu nel finale del film, quando trova la sua femme fatale e la stringe a sé mentre la camera gira intorno ai due innamorati.
Scritto da Eric Scabar
PROLOGO
di Béla Tarr, 2004
Nel 2018, all’École des beaux arts di Parigi, in occasione di una conferenza tenuta da Béla Tarr, gli organizzatori dell’evento chiesero al regista ungherese di proiettare per il pubblico la sequenza a suo avviso più rappresentativa del proprio cinema. Molti si sarebbero aspettati una scena tratta dai suoi film più famosi, come Le armonie di Werckmeister o Il cavallo di Torino, una di quelle inquadrature lunghe, elaborate e complesse che hanno reso celebre lo stile del regista nell’immaginario comune. Non senza un leggero intento provocatorio, Béla Tarr scelse invece di mostrare uno dei suoi lavori meno conosciuti, il cortometraggio Prologo, originariamente contenuto in un film collettivo dal titolo Visions of Europe. Nato da un’idea di Lars von Trier, questo film del 2004 - uscito in concomitanza con l’annessione di dieci nuovi paesi (tra cui l’Ungheria) all’Unione Europea - si proponeva di offrire un quadro culturale e sociale della comunità europea attraverso 25 cortometraggi di cinque minuti, uno per ogni paese membro. Tra i registi coinvolti nel progetto, alcuni nomi di spicco: Peter Greenaway per il Regno Unito, Fatih Akin per la Germania, Aki Kaurismäki per la Finlandia e, appunto, Béla Tarr per l’Ungheria.
Il corto del maestro ungherese è effettivamente una summa dello stile e del significato profondo del suo modo di intendere il cinema. Un unico piano sequenza di quattro minuti racconta la sua “visione” del proprio paese nel nuovo quadro europeo. Con una lenta e ininterrotta carrellata laterale, la camera scorre sui volti di decine di persone in piedi una dietro l’altra, in attesa, fermandosi solo una volta raggiunto l’inizio della fila: qui, attraverso una finestra, una ragazza comincia a distribuire del pane e della zuppa agli uomini in fila che, uno a uno, ritirano la propria razione ed escono di campo.
Non c’è alcuna ricercatezza formale, né ostentazione delle proprie capacità di cineasta. Il piano sequenza in quanto artificio tecnico è ridotto all’osso: un movimento semplice come la carrellata laterale è messo al servizio dei volti che sfilano davanti allo spettatore. Ancora prima dell’inizio dell’inquadratura, e prolungandosi poi su tutti i titoli di coda, la musica di Mihály Víg si articola in una progressione armonica ciclica e quasi ossessiva, sposandosi perfettamente alle immagini: quando il piano sequenza si apre su una dissolvenza dal nero, la camera è già in movimento, come a suggerire che quella coda davanti alla mensa dei poveri sia in realtà iniziata molto prima, e così il giorno prima e quello prima ancora, in un’eterna ripetizione.
Il piano sequenza riacquista così il suo significato primario: farci percepire lo scorrere del tempo senza mediazioni, senza scorciatoie, farci vivere, anche se per solo qualche minuto, la stessa attesa rassegnata degli uomini che vediamo sullo schermo, come possiamo leggere in quei volti così espressivi e così “reali”. È per sottrazione, “per forza di levare” direbbe Michelangelo, che Béla Tarr raggiunge la sua forma espressiva più essenziale, ricorrendo ad una delle tecniche più complesse del cinema solo per spogliarla da ogni virtuosismo e riportarla al servizio di ciò che gli interessa davvero: cogliere la miseria umana nel suo svolgimento, in quell’incontro tra poesia e disperazione che da sempre è al centro del suo cinema.
Scritto da Luigi Muneratto