Una profonda riflessione morale nell'opera
conclusiva della trilogia della vendetta,
di Aureliana Bontempo
TR-16
18.12.2020
Opera conclusiva della “trilogia della Vendetta” di Park Chan-wook, regista tra i più rappresentativi del cinema coreano contemporaneo, Lady Vendetta, presentato alla 62a Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia (2005), è uno dei noir contemporanei più pungenti nell’epoca della “rappresentazione convulsa dell’irrapresentabile”. Costruito attraverso il punto di vista femminile di un’ex detenuta, il film segue un percorso di vendetta, il quale, oltre ad assumere i toni della redenzione e di una profonda riflessione morale, privilegia una narrazione collettiva.
La protagonista, Geum-ja, commettendo l’enorme errore di confessare un omicidio che non ha compiuto, per salvare la figlia rapita dal vero assassino, ha consentito che venissero perpetrati, a sua insaputa, altri tre omicidi. Dopo anni di attesa, nel tentativo di vendicarsi dell’uomo che l’ha costretta a prendere una simile decisione, giunta nel preciso istante di redenzione in cui può finalmente attuare la propria vendetta, è posta di fronte a una scoperta che la costringe a un ripensamento del suo fine ultimo. Con la rivelazione dei crimini commessi da Mr. Beak e il ritrovamento degli snuff film, sopraggiunge in Geum-ja la consapevolezza della propria colpa. La vendetta, a questo punto, non può più essere personale (come lo era invece nei capitoli precedenti della trilogia: Mr. Vendetta e Old Boy).
Sebbene le motivazioni che spingono la protagonista Lee Geum-ja ad avviarsi verso una vendetta personale vengano ben definite lungo il corso dell’opera, la narrazione tende a non risolversi mai, giocando così su un’alternanza di situazioni mai pienamente definite e in cui ogni sequenza è pronta a ribaltare le premesse e i percorsi narrativi imboccati all’inizio. Questa soluzione comporta l’imporsi dell'aspetto psicologico sull'azione: ciò che conta è infatti il recupero e la purificazione della propria memoria; solo così la protagonista potrà giungere a ciò che lei stessa definisce “atonement”, espiazione.
“This film is about the atonement for sins and the salvation of the soul”. E’ così che il regista ha definito Lady Vendetta.
Ecco, quindi, che nella seconda metà del film ricorre la sequenza più bella e d’impatto di tutta la pellicola. Ci troviamo in una scuola abbandonata di campagna, in pieno inverno. La protagonista, nelle scene precedenti, ha appena scoperto in casa di Mr. Beak i filmati di alcuni bambini uccisi dall’uomo. Park, fin da subito, adotta un approccio non lineare per presentare la sequenza, composta da un mosaico di immagini temporalmente sfasate.
Una serie di brevi tagli, ciascuno della durata di non più di due secondi, tra le coppie e i familiari, in attesa di vedere i video, e i momenti in cui li guardano effettivamente. I loro sguardi solenni e riservati lasciano immediatamente il posto a volti sconvolti dal dolore e dall'angoscia mentre vedono i propri figli implorare per la loro vita. La sequenza, oltre ad essere particolarmente efficace nell'accrescere il senso di paura e colpa provato da Geum-ja, ci mette di fronte alla nostra impotenza in quanto semplici spettatori.
Per tutto il corso del film c’è un uso frequente di inquadrature a piombo (sul letto di ospedale, scene ripetute delle detenute che entrano in cella, ecc.) che evidenziano i corpi sottomessi come sottoposti a una divina provvidenza, quella del punto di vista privilegiato dello spettatore. Le cose cambiano quando invece la mdp viene posta ad altezza occhi, come nella sequenza appena descritta. Lo spettatore è costretto così a confrontarsi direttamente con quel dolore, in una vicinanza insopportabile con l’elemento della perdita.
In un mondo in cui nulla ci stupisce più, in cui abbiamo visto tutto, questa sequenza si erge a rigeneratrice della funzione primordiale del cinema: farci scoprire il mondo per la prima volta. Veniamo posti di fronte al dolore e alla perdita peggiore, quella dalla quale non può esserci ripresa né speranza per il futuro: la morte di un figlio. Le immagini, dunque, diventano strumento di responsabilità e testimonianza di perdita: perdita non solo legata alla morte fisica dei soggetti ripresi, ma anche all’irripetibilità del contenuto delle immagini stesse.
Giunti a questo punto viene da chiedersi quale sia la ragione che ha condotto Park a mostrare anche a noi quei filmati. Se ragioniamo sull’idea che la vita moderna consista in una dieta di orrori ai quali ci abituiamo gradualmente, senza domandarsi sia giusto o sbagliato, sono evidenti i motivi che hanno condotto il regista a utilizzare video snuff di finzione. Come sostiene Susan Sontag, infatti, nell’era della fotografia (e più in generale dell’immagine), l’evento reale può non essere abbastanza spaventoso ai nostri occhi e quindi va potenziato; ed ecco che alle reazioni dei genitori vengono accompagnati video che mostrano, seppure ricostruita, una violenza non troppo distante da immagini reali, che hanno toccato la sensibilità di molti spettatori, dal momento che attori e soggetti del filmato sono dei veri bambini.
Una scelta simile fu fatta per il video musicale della canzone Kids, della band statunitense MGMT, che contiene un’aspra critica nei confronti della raffica di immagini e orrori a cui esponiamo ogni giorno i nostri figli, ma soprattutto una critica verso la società contemporanea, in cui i mostri possono celarsi dietro qualsiasi adulto.
Quest’ultimo punto è espresso perfettamente anche in Lady Vendetta. La presa di coscienza delle proprie colpe, da parte della protagonista, e la testimonianza della perdita non sono infatti le uniche funzioni legate alla sequenza e ai filmati stessi.
“So che è difficile, ma guardate bene quest’uomo, guardate bene la sua faccia”
Sono queste le parole che Geum-ja rivolge ai genitori che osservano i filmati. Rinunciando a una vendetta personale per renderla collettiva, la donna deve infatti convincerli che l’unica giustizia possibile sia quella attuata per mano loro. Per fare ciò deve sfruttare il senso della vista. E’ infatti solamente la vista, la visione delle immagini brutali, a legittimare la loro vendetta. Le parole, il racconto di ciò che è avvenuto, per il regista, non è sufficiente come prova “tangibile” della sofferenza dei loro figli e non motiverebbe, agli occhi dello spettatore, le scene seguenti che vedono, in un’inquietante sala d’attesa, ognuno dei familiari attendere il proprio turno per pugnalare il carnefice di quei bambini.
E’ proprio quel “guardate bene la sua faccia”, tuttavia, ad esprimere il fulcro di tutta la sequenza. Quello che vuole dimostrarci Park è infatti il paradosso con cui efferati crimini, come quelli presenti nei filmati, siano spesso compiuti e perpetrati da persone qualunque; dietro ad ognuno di noi può nascondersi un mostro perché “in questo mondo non esiste nessuno che sia perfetto”. Ecco, quindi, che l’unica certezza presentata dal regista è la purezza e l’innocenza dei bambini, vittime dei soprusi e delle azioni degli adulti.
Non è un caso che la piccola scena di intermezzo, tra il ritrovamento dei videotape e la visione di questi ultimi, mostri proprio la figlia della protagonista piangere di fronte al filmato del suo gattino che gioca. Park, in questo modo, non solo enfatizza il pianto successivo dei bambini uccisi e dei loro genitori, ma esplicita a carattere visivo (ed uditivo) la dicotomia tra bene e male, attraverso un’immagine che scalda gli animi e immagini che invece li logorano, attraverso quello che è un pianto giusto e un pianto sbagliato.
E’ proprio l’aspetto udivo, però, che ci conduce alla conclusione della nostra analisi. Spesso ci dimentichiamo che il cinema, sebbene nasca come semplici immagini in movimento senza l’uso del suono, è ad oggi quasi inscindibile dalla sua componente sonora. Grazie ai nuovi mezzi tecnologici (di registrazione, ecc.), ci è consentito addirittura mettere in modalità mute ma con il rischio di perdere quello che è l’elemento fondamentale dei filmati, cioè quello che crea il “contesto”.
Nella nostra sequenza, il sonoro non è da meno nel ricoprire un ruolo fondamentale per la comprensione dello stato emotivo e psicologico dei personaggi. All’orrore delle immagini dei bambini e dei genitori agonizzanti viene accostato il suono dei pianti e delle urla di disperazione. La stanza si riempie dei lamenti dei genitori mentre la protagonista, da sola in un angolo accovacciata su se stessa in una “posa di straziante rammarico”, cerca di coprirsi le orecchie per non sentire quelle urla di disperazione. Questo gesto, apparentemente insignificante, cela però il tormento interiore di Geum-ja. Come si evince anche dalla scena del ritrovamento dei filmati, in cui la donna, anche se ormai abituata ad immagini e situazioni terribili, mette la modalità “mute”, Geum-ja non può nulla di fronte all’unico senso che ancora le provoca empatia e sofferenza e che le ricorda che non c’è via di salvezza al male del mondo: l’udito.
In conclusione, in questa sequenza di Lady Vendetta, piena di spunti di riflessione sulla funzione delle immagini e della provocazione rivolta nei confronti di noi spettatori, la rappresentazione della crudeltà, la testimonianza di un passato e la nostra impossibilità nel poter cambiare ciò che guardiamo costituiscono il flagello e allo stesso tempo il miracolo del cinema, e più in generale delle immagini in movimento.
Una profonda riflessione morale nell'opera
conclusiva della trilogia della vendetta,
di Aureliana Bontempo
TR-16
18.12.2020
Opera conclusiva della “trilogia della Vendetta” di Park Chan-wook, regista tra i più rappresentativi del cinema coreano contemporaneo, Lady Vendetta, presentato alla 62a Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia (2005), è uno dei noir contemporanei più pungenti nell’epoca della “rappresentazione convulsa dell’irrapresentabile”. Costruito attraverso il punto di vista femminile di un’ex detenuta, il film segue un percorso di vendetta, il quale, oltre ad assumere i toni della redenzione e di una profonda riflessione morale, privilegia una narrazione collettiva.
La protagonista, Geum-ja, commettendo l’enorme errore di confessare un omicidio che non ha compiuto, per salvare la figlia rapita dal vero assassino, ha consentito che venissero perpetrati, a sua insaputa, altri tre omicidi. Dopo anni di attesa, nel tentativo di vendicarsi dell’uomo che l’ha costretta a prendere una simile decisione, giunta nel preciso istante di redenzione in cui può finalmente attuare la propria vendetta, è posta di fronte a una scoperta che la costringe a un ripensamento del suo fine ultimo. Con la rivelazione dei crimini commessi da Mr. Beak e il ritrovamento degli snuff film, sopraggiunge in Geum-ja la consapevolezza della propria colpa. La vendetta, a questo punto, non può più essere personale (come lo era invece nei capitoli precedenti della trilogia: Mr. Vendetta e Old Boy).
Sebbene le motivazioni che spingono la protagonista Lee Geum-ja ad avviarsi verso una vendetta personale vengano ben definite lungo il corso dell’opera, la narrazione tende a non risolversi mai, giocando così su un’alternanza di situazioni mai pienamente definite e in cui ogni sequenza è pronta a ribaltare le premesse e i percorsi narrativi imboccati all’inizio. Questa soluzione comporta l’imporsi dell'aspetto psicologico sull'azione: ciò che conta è infatti il recupero e la purificazione della propria memoria; solo così la protagonista potrà giungere a ciò che lei stessa definisce “atonement”, espiazione.
“This film is about the atonement for sins and the salvation of the soul”. E’ così che il regista ha definito Lady Vendetta.
Ecco, quindi, che nella seconda metà del film ricorre la sequenza più bella e d’impatto di tutta la pellicola. Ci troviamo in una scuola abbandonata di campagna, in pieno inverno. La protagonista, nelle scene precedenti, ha appena scoperto in casa di Mr. Beak i filmati di alcuni bambini uccisi dall’uomo. Park, fin da subito, adotta un approccio non lineare per presentare la sequenza, composta da un mosaico di immagini temporalmente sfasate.
Una serie di brevi tagli, ciascuno della durata di non più di due secondi, tra le coppie e i familiari, in attesa di vedere i video, e i momenti in cui li guardano effettivamente. I loro sguardi solenni e riservati lasciano immediatamente il posto a volti sconvolti dal dolore e dall'angoscia mentre vedono i propri figli implorare per la loro vita. La sequenza, oltre ad essere particolarmente efficace nell'accrescere il senso di paura e colpa provato da Geum-ja, ci mette di fronte alla nostra impotenza in quanto semplici spettatori.
Per tutto il corso del film c’è un uso frequente di inquadrature a piombo (sul letto di ospedale, scene ripetute delle detenute che entrano in cella, ecc.) che evidenziano i corpi sottomessi come sottoposti a una divina provvidenza, quella del punto di vista privilegiato dello spettatore. Le cose cambiano quando invece la mdp viene posta ad altezza occhi, come nella sequenza appena descritta. Lo spettatore è costretto così a confrontarsi direttamente con quel dolore, in una vicinanza insopportabile con l’elemento della perdita.
In un mondo in cui nulla ci stupisce più, in cui abbiamo visto tutto, questa sequenza si erge a rigeneratrice della funzione primordiale del cinema: farci scoprire il mondo per la prima volta. Veniamo posti di fronte al dolore e alla perdita peggiore, quella dalla quale non può esserci ripresa né speranza per il futuro: la morte di un figlio. Le immagini, dunque, diventano strumento di responsabilità e testimonianza di perdita: perdita non solo legata alla morte fisica dei soggetti ripresi, ma anche all’irripetibilità del contenuto delle immagini stesse.
Giunti a questo punto viene da chiedersi quale sia la ragione che ha condotto Park a mostrare anche a noi quei filmati. Se ragioniamo sull’idea che la vita moderna consista in una dieta di orrori ai quali ci abituiamo gradualmente, senza domandarsi sia giusto o sbagliato, sono evidenti i motivi che hanno condotto il regista a utilizzare video snuff di finzione. Come sostiene Susan Sontag, infatti, nell’era della fotografia (e più in generale dell’immagine), l’evento reale può non essere abbastanza spaventoso ai nostri occhi e quindi va potenziato; ed ecco che alle reazioni dei genitori vengono accompagnati video che mostrano, seppure ricostruita, una violenza non troppo distante da immagini reali, che hanno toccato la sensibilità di molti spettatori, dal momento che attori e soggetti del filmato sono dei veri bambini.
Una scelta simile fu fatta per il video musicale della canzone Kids, della band statunitense MGMT, che contiene un’aspra critica nei confronti della raffica di immagini e orrori a cui esponiamo ogni giorno i nostri figli, ma soprattutto una critica verso la società contemporanea, in cui i mostri possono celarsi dietro qualsiasi adulto.
Quest’ultimo punto è espresso perfettamente anche in Lady Vendetta. La presa di coscienza delle proprie colpe, da parte della protagonista, e la testimonianza della perdita non sono infatti le uniche funzioni legate alla sequenza e ai filmati stessi.
“So che è difficile, ma guardate bene quest’uomo, guardate bene la sua faccia”
Sono queste le parole che Geum-ja rivolge ai genitori che osservano i filmati. Rinunciando a una vendetta personale per renderla collettiva, la donna deve infatti convincerli che l’unica giustizia possibile sia quella attuata per mano loro. Per fare ciò deve sfruttare il senso della vista. E’ infatti solamente la vista, la visione delle immagini brutali, a legittimare la loro vendetta. Le parole, il racconto di ciò che è avvenuto, per il regista, non è sufficiente come prova “tangibile” della sofferenza dei loro figli e non motiverebbe, agli occhi dello spettatore, le scene seguenti che vedono, in un’inquietante sala d’attesa, ognuno dei familiari attendere il proprio turno per pugnalare il carnefice di quei bambini.
E’ proprio quel “guardate bene la sua faccia”, tuttavia, ad esprimere il fulcro di tutta la sequenza. Quello che vuole dimostrarci Park è infatti il paradosso con cui efferati crimini, come quelli presenti nei filmati, siano spesso compiuti e perpetrati da persone qualunque; dietro ad ognuno di noi può nascondersi un mostro perché “in questo mondo non esiste nessuno che sia perfetto”. Ecco, quindi, che l’unica certezza presentata dal regista è la purezza e l’innocenza dei bambini, vittime dei soprusi e delle azioni degli adulti.
Non è un caso che la piccola scena di intermezzo, tra il ritrovamento dei videotape e la visione di questi ultimi, mostri proprio la figlia della protagonista piangere di fronte al filmato del suo gattino che gioca. Park, in questo modo, non solo enfatizza il pianto successivo dei bambini uccisi e dei loro genitori, ma esplicita a carattere visivo (ed uditivo) la dicotomia tra bene e male, attraverso un’immagine che scalda gli animi e immagini che invece li logorano, attraverso quello che è un pianto giusto e un pianto sbagliato.
E’ proprio l’aspetto udivo, però, che ci conduce alla conclusione della nostra analisi. Spesso ci dimentichiamo che il cinema, sebbene nasca come semplici immagini in movimento senza l’uso del suono, è ad oggi quasi inscindibile dalla sua componente sonora. Grazie ai nuovi mezzi tecnologici (di registrazione, ecc.), ci è consentito addirittura mettere in modalità mute ma con il rischio di perdere quello che è l’elemento fondamentale dei filmati, cioè quello che crea il “contesto”.
Nella nostra sequenza, il sonoro non è da meno nel ricoprire un ruolo fondamentale per la comprensione dello stato emotivo e psicologico dei personaggi. All’orrore delle immagini dei bambini e dei genitori agonizzanti viene accostato il suono dei pianti e delle urla di disperazione. La stanza si riempie dei lamenti dei genitori mentre la protagonista, da sola in un angolo accovacciata su se stessa in una “posa di straziante rammarico”, cerca di coprirsi le orecchie per non sentire quelle urla di disperazione. Questo gesto, apparentemente insignificante, cela però il tormento interiore di Geum-ja. Come si evince anche dalla scena del ritrovamento dei filmati, in cui la donna, anche se ormai abituata ad immagini e situazioni terribili, mette la modalità “mute”, Geum-ja non può nulla di fronte all’unico senso che ancora le provoca empatia e sofferenza e che le ricorda che non c’è via di salvezza al male del mondo: l’udito.
In conclusione, in questa sequenza di Lady Vendetta, piena di spunti di riflessione sulla funzione delle immagini e della provocazione rivolta nei confronti di noi spettatori, la rappresentazione della crudeltà, la testimonianza di un passato e la nostra impossibilità nel poter cambiare ciò che guardiamo costituiscono il flagello e allo stesso tempo il miracolo del cinema, e più in generale delle immagini in movimento.