Una variazione sul tema sui personaggi
femminili nei crime classici.
di Eleonora Noto
TR-31
17.05.2021
Nella storia del cinema, intorno agli anni Quaranta del Novecento, un genere giunge all’apice del successo: il crime movie. Come è noto, un genere è identificabile dalla ripetizione di elementi ricorrenti, sia contenutistici che formali, distinguibili dal pubblico: secondo alcuni, tra cui il regista e sceneggiatore Robert Altman, è proprio questa ripetitività a determinare il piacere dello spettatore che assiste ad un contenuto filmico. Ovviamente, quindi, anche il crime movie non può esimersi dal presentare alcuni leitmotiv narrativi e stilistici. Si evince dal nome che l’elemento ricorrente del genere sia la rappresentazione del crimine e dell’ambiente ad esso legato. A questa si aggiungono altri elementi narrativi quali la detection, l’investigazione, o ambientali: tra questi ultimi, nessun background risulta più privilegiato dello sfondo urbano, con i suoi angoli bui e le sue architetture moderne ma velatamente inquietanti. Indubbiamente, si ripetono anche certi elementi formali: tra i vari, risulta di fondamentale importanza il singolare gioco di luci e ombre che definisce visivamente il genere.
Il crime si dirama in sottogeneri, dettati dalla prevalenza di certi elementi contenutistico-formali: i più fortunati sono il sottogenere del gangster movie e quello definito posteriormente “noir”. Oltre ai caratteri principali derivanti dalla matrice del crimine, essi hanno altre specificità. In effetti, il primo gravita attorno alla figura del cinico gangster, spesso opposto a un detective privato; i due agiscono in uno scenario urbano che è insieme minaccia e promessa di un futuro migliore facendo eco ad avvenimenti di cronaca reali. Il noir invece ha meno azione, è più introspettivo e cupo, attraversato da un clima di malinconia, individualismo e disillusione. Le ambientazioni del noir sono dominate da spazi claustrofobici, e sul livello tematico si assiste ad un’incombenza del passato, inscindibilmente connesso all’onnipresente senso di colpa dei protagonisti. Sembra che i due sottogeneri siano opposti, se non per la presenza del crimine che è cardine del genere a cui fanno capo. Ma in entrambi un altro elemento di primaria importanza ricorre, seppur declinato in modi diversi: la donna.
Piccolo Cesare (Little Caesar) è un film del 1931 diretto da Mervyn LeRoy
La condizione femminile nella società del primo Novecento, ossia il momento storico in cui questi generi si sviluppano fino a raggiungere l’apice del loro successo, è del tutto particolare. La società di quegli anni era risaputamente a prevalenza patriarcale: gli uomini provvedevano economicamente al sostentamento della famiglia ed erano di conseguenza gli unici a cui era concessa possibilità d’azione, sia in senso politico che economico ma anche per quanto concerneva la gestione della vita privata. Se all’uomo era dato questo livello di libertà, la donna era invece confinata ad un campo d’azione limitato e prettamente domestico. Con la Prima Guerra Mondiale questo ordine è turbato; le donne sono più libere e iniziano a lavorare, ma per far fronte ai disagi provocati dal contesto bellico. Trattandosi però di misure necessarie non destano troppo scalpore, per quanto rivoluzionarie. Diversamente, nel periodo della della Grande Depressione (tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta) la nuova posizione della donna, impegnata e responsabile, comporta squilibri profondi, soprattutto in ambito familiare. La componente maschile inizia a vedere nella donna una figura seducente e affascinante ma pericolosa, poiché crede che sia riuscita ad ottenere troppo potere in poco tempo: di fronte a lei l’uomo non può fare a meno di scoprirsi indifeso e vulnerabile. Poiché il cinema è spesso riflesso della società, questa nuova visione si riflette nei film di quegli anni, soprattutto nella rappresentazione che viene fatta del femminile. Non a caso le donne nei film di quegli anni sono spesso inquadrate in una luce negativa: in questo, come ben sostiene Gandini in Il film noir americano, il cinema è una «disamina, spesso crudele e portata alle estreme conseguenze, dei traumatici cambiamenti cui viene sottoposta la famiglia americana». Nei film del crimine la figura maschile muta vertiginosamente, diventando l’opposto del classico eroe che lo aveva preceduto e finendo per risultare oscuro, passivo e meno coraggioso. Ma non è il solo a cambiare, poiché anche il personaggio femminile subisce una notevole trasformazione, diventando meno succube ma pericoloso, affascinante ma approfittatore: in una parola, fatale. La donna, specialmente nei film del crimine di quegli anni, non è più conforme alla convenzionale rappresentazione femminile hollywoodiana di donna ingenua, ammaliante ma dimessa, come non è più totalmente sottomessa all’uomo; anzi, proprio le differenze tra maschile e femminile permettono alla rappresentazione femminile di innalzare il proprio statuto. La donna non solo è presente in molti film del crimine, ma spesso, soprattutto nel noir, diventa dark lady determinata e avida, fredda creatrice di progetti criminosi. Nel noir la donna è circondata da un alone di dubbio e di mistero, non si capisce mai a chi sia leale. Questo inevitabilmente finisce per generare nello spettatore un vortice di incertezza e paranoia, che lo porta a guardare la donna su pellicola in un’ottica negativa. Questa posizione dubbia e indefinita della donna è resa anche a livello visivo e narrativo: non a caso le donne del crimine stanno nell’ombra, letteralmente e metaforicamente. Nel cinema del crimine più che in altri, la rappresentazione che si fornisce del femminile è visibilmente filtrata dallo sguardo e dalla penna di uomini: menti maschili creano questi personaggi, e la visione sessista da cui scaturiscono fornisce inevitabilmente una rappresentazione molto tipicizzata. Nel crime infatti non ci sono vie di mezzo: la donna può solo essere fatale (meschina, sessualmente spregiudicata e desiderosa) o virtuosa (domestica, remissiva, ubbidiente e ordinaria).
Il grande sonno (The Big Sleep) è un film del 1946 diretto da Howard Hawks
Nel caso del sottogenere gangster, la figura femminile è probabilmente meno preponderante rispetto a quanto lo sarà nel noir. Non per questo però è da sottovalutare, poiché nonostante la presenza secondaria gioca spesso un ruolo fondamentale per le sorti narrative. La sola teoria non è sufficiente, motivo per cui, per evidenziare la costante presenza femminile e le conseguenze che essa comporta, è opportuno esaminare alcune pellicole. La disamina può partire da The Musketeers of Pig Alley (D. W. Griffith, 1912), importante precedente per il gangster film in quanto stigmatizza alcuni elementi che poi saranno caratteristici del genere, in primis la figura del gangster e lo scenario urbano. Curiosamente, si può notare come già in questo film la donna non sia semplicemente una figura collaterale a cui si ricorre unicamente per arricchire il parterre dei personaggi: è a tutti gli effetti protagonista dell’azione, determinante nelle sorti della narrazione. Affrontando per il momento un livello prettamente narrativo, il gangster protagonista della vicenda in un primo momento impedisce che una ragazza (Lillian Gish) venga drogata: in conseguenza, quest’ultima successivamente salverà il delinquente dai rigori della legge, incarnando un ruolo decisivo nella storia. Evidentemente, già in questo caso non siamo di fronte ad una figura di sfondo ma ad una co-protagonista che tramite il suo agire determina il destino degli altri personaggi.
Sempre nell’ambito dei film proto-gangsteristici, si può prendere in considerazione la pellicola Traffic in Souls (G. L. Tucker, 1913). Già il tema affrontato dal film è particolarmente sensibile all’ambito femminile: si rappresenta il problema della “tratta delle bianche”, fenomeno di prostituzione forzata tristemente comune durante quel periodo. Tuttavia, non è solo lo spaccato sociale rappresentato a porre al centro della narrazione la figura femminile. Alla donna viene infatti dato valore e margine d’azione grazie al personaggio di Mary (Jane Gail), che risolverà la detection facendo sì che le donne adescate vengano liberate e i colpevoli siano puniti. Con una rivisitazione del trito schema narrativo per cui la donna imprigionata viene salvata dall’eroico protagonista, qui le donne sono salvate da un’altra donna, soggetto attivo dell’azione.
Traffic in Souls è un film del 1913 diretto da George Loane Tucker.
Solo con l’arrivo degli anni Trenta però il pubblico in sala avrà modo di osservare la triade di film più rappresentativi del genere gangster: Piccolo Cesare, Nemico Pubblico e Scarface. Seppur a distanza di anni dalle precedenti, anche in queste pellicole la rappresentazione della donna offre spunti di riflessione. In Piccolo Cesare (Little Caesar, M. LeRoy, 1931) si rappresenta un contesto quasi unicamente maschile. I gangster sono uomini che hanno libertà d’azione a livello narrativo, mai passivi. Ironicamente, però, questo mondo a prevalenza maschile sarà alla fine corroso da una figura femminile, Olga (Glenda Farrell): proprio lei si opporrà al protagonista (E. G. Robinson), mettendolo in pericolo e fornendo informazioni alla polizia, che alla fine lo giustizierà. Non si può dire che per la maggior parte del film il suo ruolo sia messo in rilievo: Olga appare poco e per la maggior parte del tempo sembra una figura quasi “decorativa”, cui si ricorre per il solo piacere voyeuritico del pubblico maschile. Ma il suo ruolo, per quanto non esaltato, si rivelerà decisivo, poiché Olga sarà effettivamente l’unica capace di dare il via alla serie di eventi che a cascata porteranno alla fine di Rico.
Pochi mesi dopo rispetto a Little Caesar, sarà la volta di un'altra pietra miliare del gangster film: Nemico pubblico (The Public Enemy, W. A. Wellman, 1931). A differenza del caso precedente, per questa pellicola non si può affermare che la donna sia narrativamente determinante. Tuttavia, si può considerare questo film in relazione al trattamento che il protagonista, Tom (James Cagney) riserva alle donne. Infatti, in questo caso ci troviamo di fronte ad un lungometraggio permeato di misoginia. Esemplare in questo senso è la celebre scena in cui Tom lancia mezzo pompelmo sul volto della sua ragazza dopo averla offesa ripetutamente. Con le sue battute precedenti le nega libertà di espressione («non ti ho chiesto dei commenti, ti ho chiesto da bere») a più riprese, per poi sottintendere neppure troppo sottilmente a pesanti forme di violenza nei suoi confronti («vorrei essere il pozzo dei desideri, così ti legherei a un secchio e ti affogherei»). Dopo queste frasi il tristemente noto gesto del pompelmo, che purtroppo contribuì al successo del film, sembra reiterare il pensiero di Tom trasformando la sua opinione in azione concreta. Sarebbe erroneo pensare che questo film costituisca una voce fuori dal coro per quanto riguarda il pensiero comune dell’epoca. Purtroppo, Nemico pubblico riflette come uno specchio, in modo brutalmente onesto, la visione sociale post-Depressione, in cui il femminile agli occhi maschili era diventato una greve e fastidiosa compagnia che impediva all’uomo di darsi al vizio o al crimine, svaghi considerati più allettanti della routine familiare.
In Scarface – Lo sfregiato (H. Hawks, 1932), invece, il ruolo femminile di maggior rilievo è quello di Cesca (Ann Dvorak), sorella del gangster Tony Camonte (Paul Muni).
Scarface - Lo sfregiato (Scarface) è un film del 1932 diretto da Howard Hawks e da Richard Rosson
L’unico spiraglio di umanità che lo spettatore può scorgere nel protagonista risiede nel suo attaccamento alla sorella, verso la quale presenta atteggiamenti possessivi quando non morbosi. Anche in questo film, come in Nemico Pubblico, il protagonista nega la volontà della donna impedendole di frequentare l’uomo che ama. D’altra parte, come in Piccolo Cesare, sarà proprio Cesca a condurre il gangster alla morte, seppur involontariamente. I due fratelli si troveranno infatti, sul finale, uniti contro un attacco della polizia; ma questo scomodo idillio sarà bruscamente interrotto dai proiettili che pongono fine alla vita di Cesca. Tony si ritroverà solo, perso e prossimo alla morte. Straziato dal dolore, non riuscirà più a far fronte all’offensiva e si troverà costretto ad arrendersi all’inevitabilità del suo destino.
La figura femminile è quindi fortemente presente in questo genere, sebbene specialmente negli ultimi tre film sia rappresentata come causa dei mali dell’uomo, a riflettere la struttura sociale dell’epoca, di stampo prettamente maschile e maschilista. Tuttavia, è necessario prendere in esame un’ultima pellicola gangsteristica, seppur influenzata dal melodramma, che porta ad esiti differenti: si tratta di Le 5 schiave (Marked Woman, L. Bacon, 1937). Il film attua una scelta interessante, adottando la prospettiva della protagonista Mary (Bette Davis) anziché da quella dei co-protagonisti maschili, quali il poliziotto o il gangster. Indubbiamente, da questo punto di vista, il film prende una posizione femminista rara sia per l’epoca in cui il film è realizzato sia per il genere del film. La donna è la protagonista del film, affiancata da altre figure femminili, e si erge ad eroina della storia in quanto forte e disillusa, consapevole del momento storico in cui vive e non per questo meno incentivata ad ottenere la verità. Il film dimostra un reale interesse per la donna e, più in generale, per il rapporto di reciproco sostegno tra le cinque donne, che emblematicamente nella dissolvenza finale se ne vanno a braccetto. Probabilmente i toni melodrammatici della narrazione e l’estetica scarna delle scenografie aiutano lo spettatore ad entrare in empatia con le protagoniste; a prescindere da questo, però, si tratta di una pellicola che offre una visione inedita e anticonformista se messa a confronto con i tempi in cui è stata realizzata e i film ad esso contemporanei, poiché fornisce una rappresentazione della donna come forte protagonista che combatte contro una figura maschile per ottenere l’agognata vendetta.
Le 5 schiave (Marked Woman) è un film del 1937 diretto da Lloyd Bacon
La donna è però fortemente rappresentata, e forse addirittura più rilevante, anche nel noir degli anni Quaranta e Cinquanta. Alla base di questo sottogenere si trova indubbiamente uno sguardo esplicitamente maschile: il femminile, in effetti, è definito quasi unicamente in funzione della propria sensualità e della relazione con l’uomo. La dark lady (così viene tipicamente etichettata) rappresenta infatti una minaccia sociale, e in quanto tale viene punita o domata dalla controparte maschile. Tuttavia, questo capitolo della storia del cinema rappresenta uno dei rari periodi in cui la donna si dimostra attiva e capace, e dalla sua sessualità deriva una componente di potere anziché di debolezza. Forse è opportuno riferirsi ad esempi concreti per poter studiare gli aspetti di questa misteriosa femme fatale: può essere allora il caso di iniziare da una delle donne del noir per eccellenza, ossia Phyllis (Barbara Stanwyck) di La fiamma del peccato (Double Indemnity, B. Wilder, 1944). In questo caso il personaggio rispetta tutte le caratteristiche ricollegabili alla figura della femme fatale: è spietata, impietosa e inesorabilmente crudele. È anche indubbiamente enigmatica, oscura, suscita dubbi nello spettatore. Non meno importante, è affascinante, sensuale. Questa cinica donna, se messa in relazione con la produzione noir nel suo insieme, risulta emblematica dell’anti-romanticismo che percorre tutto il genere, come si evince dalla disonestà che esibisce con il protagonista (Fred MacMurray). Anche la sua estetica aderisce a quella tipica della dark lady: già nelle prime scene in cui appare, l’abito aderente e i forti contrasti di luci e ombre ne scolpiscono la figura rendendola, ad una prima occhiata, un’icona di donna, un mero oggetto posto sulla scena per il piacere del pubblico. Il film ne enfatizza il ruolo di moglie fatale, che escogita l’omicidio per ottenere libertà: per questo, con lo scorrere della narrazione, viene punita. Curiosamente infatti, anche se il crimine è stato commesso congiuntamente da lei e dal protagonista, i due sono puniti in modi estremamente differenti. L’uomo riceve la compassione del suo capo, Keyes (E. G. Robinson), mentre lei viene uccisa. Se si considera lo stampo maschile di cui l’opera è pregna, la sua radicale insistenza sull’indipendenza risulta non solo infelice, ma anche necessariamente punibile, e la punizione in questo caso è la più definitiva di tutte.
Ma nel noir non occorre che la donna sia reale per condurre il protagonista sulla strada del crimine: si veda La donna del ritratto (The Woman in the Window, F. Lang, 1944). Qui già l’immagine della donna nel dipinto seduce il protagonista (nuovamente E. G. Robinson) prima che lo faccia la donna stessa (Joan Bennett), che si scoprirà poi essere un’ulteriore immagine, proiezione onirica nella mente di Richard. Proprio questa ammaliante catalizzatrice di sventure porterà l’onesto protagonista sulla strada del crimine, rendendolo un potenziale ricercato.
La donna del ritratto (The Woman in the Window) è un film del 1944 diretto da Fritz Lang
In questo caso la donna del dipinto risulta tanto pericolosa quanto quelle reali: il simulacro ammalia il protagonista, introducendolo ad un’inesplorata e rischiosa zona del suo subconscio tramite il sogno. Queste emblematiche proiezioni su pellicola del femminile rispecchiano con forza la visione della donna come affascinante ma pericolosa, seduttrice solo per scopi criminosi.
Talvolta però il cinema può far emergere figure differenti, come l’eponima protagonista di Il romanzo di Mildred (Mildred Pierce, M. Curtiz, 1945). Con Mildred (Joan Crawford) ci troviamo infatti di fronte ad una self-made woman che non cede alle frivolezze considerate femminili né agli attacchi maschili: non a caso, la sua debolezza risiede nella figlia Veda, non nei suoi amanti. Mildred è determinata, sfaccettata e lontana dallo stereotipo femminile dell’epoca. Non seduce, si lascia sedurre, non è succube ma visionaria, non è malvagia ma indipendente e calcolatrice quando serve. Se non fosse per la cornice noir in cui si iscrive lo sviluppo narrativo, il carattere anti-stereotipato della protagonista potrebbe facilmente essere al centro di un dramma sociale. Il film soddisfa il desiderio di vedere esperienze femminili riflesse nel cinema. La libertà che cerca Mildred è sia economica che sessuale, e per questo suo tentativo di ribellione al patriarcato verrà punita. Ciononostante il film è specchio della situazione storica ad esso contemporanea, in cui il patriarcato subiva i primi segni di indebolimento.
Ad ogni modo, sarebbe errato pensare che sia questa la rappresentazione femminile prevalente: si tratta di un unicum, specialmente nell’ambito del noir, schiacciato dalla preponderanza della femme fatale. Non è un caso che nel decennio successivo, in Il grande caldo (The Big Heat, F. Lang, 1953) sia la frivola Debbie (Gloria Grahame) ad uccidere un altro personaggio a sangue freddo. A dispetto delle apparenze, però, Debbie costituisce un esempio di nuova eroina. Non è femme fatale meschina e spietata né mero oggetto sessuale; non è una bidimensionale immagine di bionda svampita né una calcolatrice meticolosa; non è dea ex machina che risolve i fili narrativi né vittima delle situazioni in cui si trova: è un personaggio che racchiude in sé il giusto mezzo fra questi poli, costituendo una figura complessa e degna di nota. Sebbene dagli inizi del genere il chiaroscuro modelli i corpi delle dark ladies, il gioco di luci che agisce sul volto sfregiato di Debbie rappresenta probabilmente un caso unico nel panorama cinematografico, e rende il personaggio distante dalle donne del noir che la hanno preceduta. Debbie non sfiora neppur lontanamente la subdola crudeltà di Phyllis, ma è altrettanto lontana dal forte orgoglio di Mildred, quasi come se dopo un decennio passato a sperimentare con figure opposte tra loro il genere abbia trovato un equilibrio nella figura della donna.
Il grande caldo è un film del 1953 diretto da Fritz Lang
Molteplici sarebbero le pellicole proponibili a dimostrazione di quanto la donna sia largamente presente e rilevante in queste declinazioni del cinema del crimine. Pur con qualche eccezione per ognuno dei due casi (principalmente Mary Dwight e Mildred Pierce), però, il femminile in questa fase è prevalentemente sinonimo di pericolo. Nel gangster film il rischio è ancora ad una fase embrionale: la donna, tendenzialmente ingenua, assilla i protagonisti o ne distrugge l’ascesa. Nel noir lo sviluppo di questa connotazione del femminile ha raggiunto uno stadio successivo: la donna, più consapevole, risulta attivamente violenta e meschina, spesso ricorrendo alla propria seducente bellezza. Considerando come storicamente in quegli anni la donna minasse il patriarcato vigente dopo aver acquisito un potere mai visto prima, questo tipo di rappresentazione cinematografica è tutt’altro che casuale. Con gli anni il cinema ha saputo in parte redimersi, fornendo ritratti di donne forti e mai passive ma non per questo crudeli. Ciononostante, viene spontaneo chiedersi quanto i tempi siano realmente cambiati, e di conseguenza quanto sia effettivamente mutata la connotazione negativa cinematograficamente attribuita al femminile.
Una variazione sul tema sui personaggi
femminili nei crime classici,
di Eleonora Noto
TR-31
17.05.2021
Nella storia del cinema, intorno agli anni Quaranta del Novecento, un genere giunge all’apice del successo: il crime movie. Come è noto, un genere è identificabile dalla ripetizione di elementi ricorrenti, sia contenutistici che formali, distinguibili dal pubblico: secondo alcuni, tra cui il regista e sceneggiatore Robert Altman, è proprio questa ripetitività a determinare il piacere dello spettatore che assiste ad un contenuto filmico. Ovviamente, quindi, anche il crime movie non può esimersi dal presentare alcuni leitmotiv narrativi e stilistici. Si evince dal nome che l’elemento ricorrente del genere sia la rappresentazione del crimine e dell’ambiente ad esso legato. A questa si aggiungono altri elementi narrativi quali la detection, l’investigazione, o ambientali: tra questi ultimi, nessun background risulta più privilegiato dello sfondo urbano, con i suoi angoli bui e le sue architetture moderne ma velatamente inquietanti. Indubbiamente, si ripetono anche certi elementi formali: tra i vari, risulta di fondamentale importanza il singolare gioco di luci e ombre che definisce visivamente il genere.
Il crime si dirama in sottogeneri, dettati dalla prevalenza di certi elementi contenutistico-formali: i più fortunati sono il sottogenere del gangster movie e quello definito posteriormente “noir”. Oltre ai caratteri principali derivanti dalla matrice del crimine, essi hanno altre specificità. In effetti, il primo gravita attorno alla figura del cinico gangster, spesso opposto a un detective privato; i due agiscono in uno scenario urbano che è insieme minaccia e promessa di un futuro migliore facendo eco ad avvenimenti di cronaca reali. Il noir invece ha meno azione, è più introspettivo e cupo, attraversato da un clima di malinconia, individualismo e disillusione. Le ambientazioni del noir sono dominate da spazi claustrofobici, e sul livello tematico si assiste ad un’incombenza del passato, inscindibilmente connesso all’onnipresente senso di colpa dei protagonisti. Sembra che i due sottogeneri siano opposti, se non per la presenza del crimine che è cardine del genere a cui fanno capo. Ma in entrambi un altro elemento di primaria importanza ricorre, seppur declinato in modi diversi: la donna.
Piccolo Cesare (Little Caesar) è un film del 1931 diretto da Mervyn LeRoy
La condizione femminile nella società del primo Novecento, ossia il momento storico in cui questi generi si sviluppano fino a raggiungere l’apice del loro successo, è del tutto particolare. La società di quegli anni era risaputamente a prevalenza patriarcale: gli uomini provvedevano economicamente al sostentamento della famiglia ed erano di conseguenza gli unici a cui era concessa possibilità d’azione, sia in senso politico che economico ma anche per quanto concerneva la gestione della vita privata. Se all’uomo era dato questo livello di libertà, la donna era invece confinata ad un campo d’azione limitato e prettamente domestico. Con la Prima Guerra Mondiale questo ordine è turbato; le donne sono più libere e iniziano a lavorare, ma per far fronte ai disagi provocati dal contesto bellico. Trattandosi però di misure necessarie non destano troppo scalpore, per quanto rivoluzionarie. Diversamente, nel periodo della della Grande Depressione (tra la fine degli anni Venti e l’inizio dei Trenta) la nuova posizione della donna, impegnata e responsabile, comporta squilibri profondi, soprattutto in ambito familiare. La componente maschile inizia a vedere nella donna una figura seducente e affascinante ma pericolosa, poiché crede che sia riuscita ad ottenere troppo potere in poco tempo: di fronte a lei l’uomo non può fare a meno di scoprirsi indifeso e vulnerabile. Poiché il cinema è spesso riflesso della società, questa nuova visione si riflette nei film di quegli anni, soprattutto nella rappresentazione che viene fatta del femminile. Non a caso le donne nei film di quegli anni sono spesso inquadrate in una luce negativa: in questo, come ben sostiene Gandini in Il film noir americano, il cinema è una «disamina, spesso crudele e portata alle estreme conseguenze, dei traumatici cambiamenti cui viene sottoposta la famiglia americana». Nei film del crimine la figura maschile muta vertiginosamente, diventando l’opposto del classico eroe che lo aveva preceduto e finendo per risultare oscuro, passivo e meno coraggioso. Ma non è il solo a cambiare, poiché anche il personaggio femminile subisce una notevole trasformazione, diventando meno succube ma pericoloso, affascinante ma approfittatore: in una parola, fatale. La donna, specialmente nei film del crimine di quegli anni, non è più conforme alla convenzionale rappresentazione femminile hollywoodiana di donna ingenua, ammaliante ma dimessa, come non è più totalmente sottomessa all’uomo; anzi, proprio le differenze tra maschile e femminile permettono alla rappresentazione femminile di innalzare il proprio statuto. La donna non solo è presente in molti film del crimine, ma spesso, soprattutto nel noir, diventa dark lady determinata e avida, fredda creatrice di progetti criminosi. Nel noir la donna è circondata da un alone di dubbio e di mistero, non si capisce mai a chi sia leale. Questo inevitabilmente finisce per generare nello spettatore un vortice di incertezza e paranoia, che lo porta a guardare la donna su pellicola in un’ottica negativa. Questa posizione dubbia e indefinita della donna è resa anche a livello visivo e narrativo: non a caso le donne del crimine stanno nell’ombra, letteralmente e metaforicamente. Nel cinema del crimine più che in altri, la rappresentazione che si fornisce del femminile è visibilmente filtrata dallo sguardo e dalla penna di uomini: menti maschili creano questi personaggi, e la visione sessista da cui scaturiscono fornisce inevitabilmente una rappresentazione molto tipicizzata. Nel crime infatti non ci sono vie di mezzo: la donna può solo essere fatale (meschina, sessualmente spregiudicata e desiderosa) o virtuosa (domestica, remissiva, ubbidiente e ordinaria).
Il grande sonno (The Big Sleep) è un film del 1946 diretto da Howard Hawks
Nel caso del sottogenere gangster, la figura femminile è probabilmente meno preponderante rispetto a quanto lo sarà nel noir. Non per questo però è da sottovalutare, poiché nonostante la presenza secondaria gioca spesso un ruolo fondamentale per le sorti narrative. La sola teoria non è sufficiente, motivo per cui, per evidenziare la costante presenza femminile e le conseguenze che essa comporta, è opportuno esaminare alcune pellicole. La disamina può partire da The Musketeers of Pig Alley (D. W. Griffith, 1912), importante precedente per il gangster film in quanto stigmatizza alcuni elementi che poi saranno caratteristici del genere, in primis la figura del gangster e lo scenario urbano. Curiosamente, si può notare come già in questo film la donna non sia semplicemente una figura collaterale a cui si ricorre unicamente per arricchire il parterre dei personaggi: è a tutti gli effetti protagonista dell’azione, determinante nelle sorti della narrazione. Affrontando per il momento un livello prettamente narrativo, il gangster protagonista della vicenda in un primo momento impedisce che una ragazza (Lillian Gish) venga drogata: in conseguenza, quest’ultima successivamente salverà il delinquente dai rigori della legge, incarnando un ruolo decisivo nella storia. Evidentemente, già in questo caso non siamo di fronte ad una figura di sfondo ma ad una co-protagonista che tramite il suo agire determina il destino degli altri personaggi.
Sempre nell’ambito dei film proto-gangsteristici, si può prendere in considerazione la pellicola Traffic in Souls (G. L. Tucker, 1913). Già il tema affrontato dal film è particolarmente sensibile all’ambito femminile: si rappresenta il problema della “tratta delle bianche”, fenomeno di prostituzione forzata tristemente comune durante quel periodo. Tuttavia, non è solo lo spaccato sociale rappresentato a porre al centro della narrazione la figura femminile. Alla donna viene infatti dato valore e margine d’azione grazie al personaggio di Mary (Jane Gail), che risolverà la detection facendo sì che le donne adescate vengano liberate e i colpevoli siano puniti. Con una rivisitazione del trito schema narrativo per cui la donna imprigionata viene salvata dall’eroico protagonista, qui le donne sono salvate da un’altra donna, soggetto attivo dell’azione.
Traffic in Souls è un film del 1913 diretto da George Loane Tucker.
Solo con l’arrivo degli anni Trenta però il pubblico in sala avrà modo di osservare la triade di film più rappresentativi del genere gangster: Piccolo Cesare, Nemico Pubblico e Scarface. Seppur a distanza di anni dalle precedenti, anche in queste pellicole la rappresentazione della donna offre spunti di riflessione. In Piccolo Cesare (Little Caesar, M. LeRoy, 1931) si rappresenta un contesto quasi unicamente maschile. I gangster sono uomini che hanno libertà d’azione a livello narrativo, mai passivi. Ironicamente, però, questo mondo a prevalenza maschile sarà alla fine corroso da una figura femminile, Olga (Glenda Farrell): proprio lei si opporrà al protagonista (E. G. Robinson), mettendolo in pericolo e fornendo informazioni alla polizia, che alla fine lo giustizierà. Non si può dire che per la maggior parte del film il suo ruolo sia messo in rilievo: Olga appare poco e per la maggior parte del tempo sembra una figura quasi “decorativa”, cui si ricorre per il solo piacere voyeuritico del pubblico maschile. Ma il suo ruolo, per quanto non esaltato, si rivelerà decisivo, poiché Olga sarà effettivamente l’unica capace di dare il via alla serie di eventi che a cascata porteranno alla fine di Rico.
Pochi mesi dopo rispetto a Little Caesar, sarà la volta di un'altra pietra miliare del gangster film: Nemico pubblico (The Public Enemy, W. A. Wellman, 1931). A differenza del caso precedente, per questa pellicola non si può affermare che la donna sia narrativamente determinante. Tuttavia, si può considerare questo film in relazione al trattamento che il protagonista, Tom (James Cagney) riserva alle donne. Infatti, in questo caso ci troviamo di fronte ad un lungometraggio permeato di misoginia. Esemplare in questo senso è la celebre scena in cui Tom lancia mezzo pompelmo sul volto della sua ragazza dopo averla offesa ripetutamente. Con le sue battute precedenti le nega libertà di espressione («non ti ho chiesto dei commenti, ti ho chiesto da bere») a più riprese, per poi sottintendere neppure troppo sottilmente a pesanti forme di violenza nei suoi confronti («vorrei essere il pozzo dei desideri, così ti legherei a un secchio e ti affogherei»). Dopo queste frasi il tristemente noto gesto del pompelmo, che purtroppo contribuì al successo del film, sembra reiterare il pensiero di Tom trasformando la sua opinione in azione concreta. Sarebbe erroneo pensare che questo film costituisca una voce fuori dal coro per quanto riguarda il pensiero comune dell’epoca. Purtroppo, Nemico pubblico riflette come uno specchio, in modo brutalmente onesto, la visione sociale post-Depressione, in cui il femminile agli occhi maschili era diventato una greve e fastidiosa compagnia che impediva all’uomo di darsi al vizio o al crimine, svaghi considerati più allettanti della routine familiare.
In Scarface – Lo sfregiato (H. Hawks, 1932), invece, il ruolo femminile di maggior rilievo è quello di Cesca (Ann Dvorak), sorella del gangster Tony Camonte (Paul Muni).
Scarface - Lo sfregiato (Scarface) è un film del 1932 diretto da Howard Hawks e da Richard Rosson
L’unico spiraglio di umanità che lo spettatore può scorgere nel protagonista risiede nel suo attaccamento alla sorella, verso la quale presenta atteggiamenti possessivi quando non morbosi. Anche in questo film, come in Nemico Pubblico, il protagonista nega la volontà della donna impedendole di frequentare l’uomo che ama. D’altra parte, come in Piccolo Cesare, sarà proprio Cesca a condurre il gangster alla morte, seppur involontariamente. I due fratelli si troveranno infatti, sul finale, uniti contro un attacco della polizia; ma questo scomodo idillio sarà bruscamente interrotto dai proiettili che pongono fine alla vita di Cesca. Tony si ritroverà solo, perso e prossimo alla morte. Straziato dal dolore, non riuscirà più a far fronte all’offensiva e si troverà costretto ad arrendersi all’inevitabilità del suo destino.
La figura femminile è quindi fortemente presente in questo genere, sebbene specialmente negli ultimi tre film sia rappresentata come causa dei mali dell’uomo, a riflettere la struttura sociale dell’epoca, di stampo prettamente maschile e maschilista. Tuttavia, è necessario prendere in esame un’ultima pellicola gangsteristica, seppur influenzata dal melodramma, che porta ad esiti differenti: si tratta di Le 5 schiave (Marked Woman, L. Bacon, 1937). Il film attua una scelta interessante, adottando la prospettiva della protagonista Mary (Bette Davis) anziché da quella dei co-protagonisti maschili, quali il poliziotto o il gangster. Indubbiamente, da questo punto di vista, il film prende una posizione femminista rara sia per l’epoca in cui il film è realizzato sia per il genere del film. La donna è la protagonista del film, affiancata da altre figure femminili, e si erge ad eroina della storia in quanto forte e disillusa, consapevole del momento storico in cui vive e non per questo meno incentivata ad ottenere la verità. Il film dimostra un reale interesse per la donna e, più in generale, per il rapporto di reciproco sostegno tra le cinque donne, che emblematicamente nella dissolvenza finale se ne vanno a braccetto. Probabilmente i toni melodrammatici della narrazione e l’estetica scarna delle scenografie aiutano lo spettatore ad entrare in empatia con le protagoniste; a prescindere da questo, però, si tratta di una pellicola che offre una visione inedita e anticonformista se messa a confronto con i tempi in cui è stata realizzata e i film ad esso contemporanei, poiché fornisce una rappresentazione della donna come forte protagonista che combatte contro una figura maschile per ottenere l’agognata vendetta.
Le 5 schiave (Marked Woman) è un film del 1937 diretto da Lloyd Bacon
La donna è però fortemente rappresentata, e forse addirittura più rilevante, anche nel noir degli anni Quaranta e Cinquanta. Alla base di questo sottogenere si trova indubbiamente uno sguardo esplicitamente maschile: il femminile, in effetti, è definito quasi unicamente in funzione della propria sensualità e della relazione con l’uomo. La dark lady (così viene tipicamente etichettata) rappresenta infatti una minaccia sociale, e in quanto tale viene punita o domata dalla controparte maschile. Tuttavia, questo capitolo della storia del cinema rappresenta uno dei rari periodi in cui la donna si dimostra attiva e capace, e dalla sua sessualità deriva una componente di potere anziché di debolezza. Forse è opportuno riferirsi ad esempi concreti per poter studiare gli aspetti di questa misteriosa femme fatale: può essere allora il caso di iniziare da una delle donne del noir per eccellenza, ossia Phyllis (Barbara Stanwyck) di La fiamma del peccato (Double Indemnity, B. Wilder, 1944). In questo caso il personaggio rispetta tutte le caratteristiche ricollegabili alla figura della femme fatale: è spietata, impietosa e inesorabilmente crudele. È anche indubbiamente enigmatica, oscura, suscita dubbi nello spettatore. Non meno importante, è affascinante, sensuale. Questa cinica donna, se messa in relazione con la produzione noir nel suo insieme, risulta emblematica dell’anti-romanticismo che percorre tutto il genere, come si evince dalla disonestà che esibisce con il protagonista (Fred MacMurray). Anche la sua estetica aderisce a quella tipica della dark lady: già nelle prime scene in cui appare, l’abito aderente e i forti contrasti di luci e ombre ne scolpiscono la figura rendendola, ad una prima occhiata, un’icona di donna, un mero oggetto posto sulla scena per il piacere del pubblico. Il film ne enfatizza il ruolo di moglie fatale, che escogita l’omicidio per ottenere libertà: per questo, con lo scorrere della narrazione, viene punita. Curiosamente infatti, anche se il crimine è stato commesso congiuntamente da lei e dal protagonista, i due sono puniti in modi estremamente differenti. L’uomo riceve la compassione del suo capo, Keyes (E. G. Robinson), mentre lei viene uccisa. Se si considera lo stampo maschile di cui l’opera è pregna, la sua radicale insistenza sull’indipendenza risulta non solo infelice, ma anche necessariamente punibile, e la punizione in questo caso è la più definitiva di tutte.
Ma nel noir non occorre che la donna sia reale per condurre il protagonista sulla strada del crimine: si veda La donna del ritratto (The Woman in the Window, F. Lang, 1944). Qui già l’immagine della donna nel dipinto seduce il protagonista (nuovamente E. G. Robinson) prima che lo faccia la donna stessa (Joan Bennett), che si scoprirà poi essere un’ulteriore immagine, proiezione onirica nella mente di Richard. Proprio questa ammaliante catalizzatrice di sventure porterà l’onesto protagonista sulla strada del crimine, rendendolo un potenziale ricercato.
La donna del ritratto (The Woman in the Window) è un film del 1944 diretto da Fritz Lang
In questo caso la donna del dipinto risulta tanto pericolosa quanto quelle reali: il simulacro ammalia il protagonista, introducendolo ad un’inesplorata e rischiosa zona del suo subconscio tramite il sogno. Queste emblematiche proiezioni su pellicola del femminile rispecchiano con forza la visione della donna come affascinante ma pericolosa, seduttrice solo per scopi criminosi.
Talvolta però il cinema può far emergere figure differenti, come l’eponima protagonista di Il romanzo di Mildred (Mildred Pierce, M. Curtiz, 1945). Con Mildred (Joan Crawford) ci troviamo infatti di fronte ad una self-made woman che non cede alle frivolezze considerate femminili né agli attacchi maschili: non a caso, la sua debolezza risiede nella figlia Veda, non nei suoi amanti. Mildred è determinata, sfaccettata e lontana dallo stereotipo femminile dell’epoca. Non seduce, si lascia sedurre, non è succube ma visionaria, non è malvagia ma indipendente e calcolatrice quando serve. Se non fosse per la cornice noir in cui si iscrive lo sviluppo narrativo, il carattere anti-stereotipato della protagonista potrebbe facilmente essere al centro di un dramma sociale. Il film soddisfa il desiderio di vedere esperienze femminili riflesse nel cinema. La libertà che cerca Mildred è sia economica che sessuale, e per questo suo tentativo di ribellione al patriarcato verrà punita. Ciononostante il film è specchio della situazione storica ad esso contemporanea, in cui il patriarcato subiva i primi segni di indebolimento.
Ad ogni modo, sarebbe errato pensare che sia questa la rappresentazione femminile prevalente: si tratta di un unicum, specialmente nell’ambito del noir, schiacciato dalla preponderanza della femme fatale. Non è un caso che nel decennio successivo, in Il grande caldo (The Big Heat, F. Lang, 1953) sia la frivola Debbie (Gloria Grahame) ad uccidere un altro personaggio a sangue freddo. A dispetto delle apparenze, però, Debbie costituisce un esempio di nuova eroina. Non è femme fatale meschina e spietata né mero oggetto sessuale; non è una bidimensionale immagine di bionda svampita né una calcolatrice meticolosa; non è dea ex machina che risolve i fili narrativi né vittima delle situazioni in cui si trova: è un personaggio che racchiude in sé il giusto mezzo fra questi poli, costituendo una figura complessa e degna di nota. Sebbene dagli inizi del genere il chiaroscuro modelli i corpi delle dark ladies, il gioco di luci che agisce sul volto sfregiato di Debbie rappresenta probabilmente un caso unico nel panorama cinematografico, e rende il personaggio distante dalle donne del noir che la hanno preceduta. Debbie non sfiora neppur lontanamente la subdola crudeltà di Phyllis, ma è altrettanto lontana dal forte orgoglio di Mildred, quasi come se dopo un decennio passato a sperimentare con figure opposte tra loro il genere abbia trovato un equilibrio nella figura della donna.
Il grande caldo è un film del 1953 diretto da Fritz Lang
Molteplici sarebbero le pellicole proponibili a dimostrazione di quanto la donna sia largamente presente e rilevante in queste declinazioni del cinema del crimine. Pur con qualche eccezione per ognuno dei due casi (principalmente Mary Dwight e Mildred Pierce), però, il femminile in questa fase è prevalentemente sinonimo di pericolo. Nel gangster film il rischio è ancora ad una fase embrionale: la donna, tendenzialmente ingenua, assilla i protagonisti o ne distrugge l’ascesa. Nel noir lo sviluppo di questa connotazione del femminile ha raggiunto uno stadio successivo: la donna, più consapevole, risulta attivamente violenta e meschina, spesso ricorrendo alla propria seducente bellezza. Considerando come storicamente in quegli anni la donna minasse il patriarcato vigente dopo aver acquisito un potere mai visto prima, questo tipo di rappresentazione cinematografica è tutt’altro che casuale. Con gli anni il cinema ha saputo in parte redimersi, fornendo ritratti di donne forti e mai passive ma non per questo crudeli. Ciononostante, viene spontaneo chiedersi quanto i tempi siano realmente cambiati, e di conseguenza quanto sia effettivamente mutata la connotazione negativa cinematograficamente attribuita al femminile.