NC-91
04.02.2022
Lodato da Tarkovskij, Mastroianni e Bertolucci, Franco Piavoli, classe 1933, è uno dei maestri invisibili del cinema indipendente italiano, attivo con lungometraggi, cortometraggi e documentari dagli anni sessanta fino ad oggi. Dopo il successo del suo primo film Il pianeta azzurro alla Mostra di Venezia del 1982, co-prodotto da Silvano Agosti, nel 1989 girò Nostos, una rielaborazione personale dell’Odissea. Le sue riflessioni sul mito, sulla nostalgia e sulla nostalgia del mito, così come il richiamo alla tematica ecologica, rendono tuttora Nostos un’opera di profonda attualità.
Dopo Il pianeta azzurro, come ti venne l’idea di girare un film su Ulisse?
La figura di Ulisse mi aveva sempre affascinato, sin dai tempi del liceo classico. Per la sua bilateralità, per il fatto che da un lato avesse il coraggio e la violenza tipici dell’eroe, dall’altro anche l’attrazione verso la pacificazione, la famiglia, l’amore. È soprattutto questo secondo aspetto del dramma omerico che mi ha spinto a fare un film dall’Odissea, traducendolo in termini personali: l’ho voluto però mantenere nelle vesti antiche, per dargli una radice e una “radicalità” nel tempo, e anche per mettere in risalto quell’aspetto di primitività che sopravvive in ognuno di noi, il lato violento e negativo che la natura ci ha attribuito.
Sulla base di quali suggestioni e prestiti hai creato l’”antica lingua mediterranea” in cui sono intessuti i dialoghi del film?
I costumi di Nostos imitavano in modo personale l’epoca greca, e ho voluto fare lo stesso anche con il linguaggio: badando non tanto al significato preciso delle parole, per quanto stupendi siano i versi dell’Odissea omerica, ma al valore fonale e fonico che avevano certi verbi e certi sostantivi greci. Nelle poche battute del film, non si deve cercare un significato preciso, ma il messaggio che si riceve dipende dal valore tonale della parola, dal volume della voce, dalle scansioni ritmiche. Anche in altri miei film successivi come Voci nel tempo o Al primo soffio di vento, i personaggi parlano in dialetto: non mi interessa che venga trasmesso il significato preciso di un messaggio, ma il suo valore di fondo. In tutte le conversazioni c’è una componente musicale molto importante: questa è un’opportunità che il cinema legato agli impianti produttivi tradizionali non coglie, ma per me è stata una scoperta.
Nostos
Perché hai ribattezzato Ulisse stesso con il nome di Nostos?
Nostos è la radice della parola nostalgia, che usiamo ancora oggi. La nostalgia è un sentimento di grande importanza, fortissimo, che tutti noi sentiamo: nei momenti in cui ci sentiamo disperati, o abbandonati, o isolati – nei momenti di profonda tristezza – proviamo questo sentimento che rappresenta il desiderio di ritornare e riconnetterci alle terre e alle persone più amate. La nostalgia è sia nostos, “ritorno”, che algos, “dolore”, ma è un dolore che spinge a ritrovare le proprie radici, e il nucleo originario da cui siamo sbocciati. Questo dolore che si trasforma nel piacere di dover tornare e riconquistare la terra natia, la propria Penelope, i propri figli, mi ha spinto a ribattezzare il mio Ulisse in questo modo, per far risaltare di più questa componente.
Come mai, pur essendo l’Odissea una storia di mare, hai deciso di girare Nostos prevalentemente sul Lago di Garda? C’entra sempre in qualche modo la nostalgia delle radici?
Una parte delle immagini le ho girate anche sul Mediterraneo, ma le scene di navigazione vere e proprie le ho girate sul Lago di Garda innanzitutto per un istinto affettivo e radicale: io sono nato a Pozzolengo, ho le radici proprio qui. Del resto anche il lago, in certi momenti, ha degli aspetti marini; soprattutto quando c’è tempesta.
Come hai interagito con Luigi Mezzanotte, il protagonista del film?
Luigi proveniva da un percorso sfaccettato in cui c’erano esperienze anche di teatro classico e ha accettato di recitare in una lingua inventata, come la mia, anche se radicata nel greco antico e nelle lingue indoeuropee. Per lui è stata una sperimentazione nuova poter modulare la voce in funzione delle situazioni drammatiche o nostalgiche in cui si trovava calato nello svolgimento del film. La nostra fu una collaborazione amicale prima ancora che professionale.
Chi erano gli altri attori? Come li avevi scelti?
Gli altri non erano attori di professione, erano amici dei dintorni, che abitavano tra il Lago di Garda e Pozzolengo; giusto qualcuno, come Branca De Camargo che fa Calipso, aveva un minimo di esperienza teatrale o cinematografica pregressa. Fidandomi delle loro capacità espressive, abbiamo costruito assieme questo gruppo di personaggi.
Come fu possibile costruire la barca che si vede nel film? E i costumi?
La barca di Nostos era in origine un vecchio barcone che un tempo veniva usato per trasportare legname dalla sponda nord alla sponda sud del lago di Garda. Quando ero bambino questi barconi ancora navigavano, poi caddero in disuso. Anche gli abiti che i personaggi indossano li ho fatti assieme a mia moglie con spaghi grezzi, in maniera artigianale ma credibile.
Il film finisce con il ritorno, il “nostos” di Ulisse, ma non c’è ancora l’abbraccio con Penelope, restano distanti, liminari, sulla soglia: adesso che ha raggiunto il suo scopo.
Restano sulla soglia. È sempre l’espressione di un desiderio che ho voluto dare, è il Desiderio quello che ha mosso Ulisse. Giunto ad un passo da casa, si poteva immaginare che si sarebbero abbracciati, ma ho voluto lasciare un ultimo attimo di sospensione, di tensione. Ulisse la guarda stupito mentre lei, seduta, avvolge un panno e lo depone nella cassa come simbolo della sua dedizione alla famiglia. La scena finale del film è il simbolo del ritorno, del nostos, di cui tutti noi siamo parte. Non possiamo prescindere dal ritorno all’origine della vita, e alla donna che ci genera, che ci partorisce. L’ho voluto lasciare come simbolo finale del film, il nostos come bisogno profondo di ritornare alla moglie e alla madre contemporaneamente: è la contraddizione della vita, perché noi siamo attratti fisicamente dalla donna e per poterci riprodurre dobbiamo comunque congiungerci con lei, anche se è sempre la donna che ci genera, ci partorisce. È fondamentale per noi questo rapporto di amore ma al tempo stesso di… dipendenza, che ci tiene insieme.
Nostos
Quale pensi sia il valore del mito per il cinema? In che modo il cinema può essere ancora mitopoietico?
Il mito fa parte della nostra costituzione. Il cinema ritornerà a fare mito, e ogni tanto ancora lo fa. Certo, dipende anche dalle condizioni produttive ed economiche che ci sono: è facile pensare a quanti cambiamenti ci sono stati nel cinema con l’avvento del digitale, o con l’avvento delle piattaforme streaming, ma ritorna sempre il bisogno di un mito, del mito. Lo strumento del cinema è fantastico, e diventerà sempre più fertile quando nel futuro potrà utilizzare anche la possibilità di percepire la profondità fisica dell’immagine, e poter stabilire con essa un rapporto di tattilità, in una sorta di ambiente 3D. Tutto è possibile con l’evoluzione delle tecniche, e anche per il cinema, che magari si chiamerà con un diverso nome, mi aspetto senz’altro che in un futuro più o meno lontano si svilupperanno diverse possibilità di espressione.
La nostalgia di Ulisse è un sentimento attuale? In che modo secondo te si può – in senso assoluto – “ritornare”?
La nostalgia è un sentimento che rispunta a cavallo delle onde e del ritmo che navighiamo continuamente nel mare della vita. Stiamo sempre navigando, come Ulisse, in un mare che è a volte tranquillo e a volte burrascoso. Attraverso i mutamenti della struttura sociale, delle relazioni private ma anche pubbliche, delle relazioni all’interno del proprio Stato ma anche delle relazioni internazionali, si verificano continui mutamenti: l’oceano della vita e del mondo è in continua variazione, e momenti di grande burrasca generano nuove scoperte ma fanno rivivere anche il bisogno di ri-trovare una nuova unione, di ri-trovare un punto di riferimento che dia tranquillità e dia a noi stessi la possibilità di ri-trovarci.
Domenica sera (Regia di Franco Piavoli, 1962)
NC-91
04.02.2022
Lodato da Tarkovskij, Mastroianni e Bertolucci, Franco Piavoli, classe 1933, è uno dei maestri invisibili del cinema indipendente italiano, attivo con lungometraggi, cortometraggi e documentari dagli anni sessanta fino ad oggi. Dopo il successo del suo primo film Il pianeta azzurro alla Mostra di Venezia del 1982, co-prodotto da Silvano Agosti, nel 1989 girò Nostos, una rielaborazione personale dell’Odissea. Le sue riflessioni sul mito, sulla nostalgia e sulla nostalgia del mito, così come il richiamo alla tematica ecologica, rendono tuttora Nostos un’opera di profonda attualità.
Dopo Il pianeta azzurro, come ti venne l’idea di girare un film su Ulisse?
La figura di Ulisse mi aveva sempre affascinato, sin dai tempi del liceo classico. Per la sua bilateralità, per il fatto che da un lato avesse il coraggio e la violenza tipici dell’eroe, dall’altro anche l’attrazione verso la pacificazione, la famiglia, l’amore. È soprattutto questo secondo aspetto del dramma omerico che mi ha spinto a fare un film dall’Odissea, traducendolo in termini personali: l’ho voluto però mantenere nelle vesti antiche, per dargli una radice e una “radicalità” nel tempo, e anche per mettere in risalto quell’aspetto di primitività che sopravvive in ognuno di noi, il lato violento e negativo che la natura ci ha attribuito.
Sulla base di quali suggestioni e prestiti hai creato l’”antica lingua mediterranea” in cui sono intessuti i dialoghi del film?
I costumi di Nostos imitavano in modo personale l’epoca greca, e ho voluto fare lo stesso anche con il linguaggio: badando non tanto al significato preciso delle parole, per quanto stupendi siano i versi dell’Odissea omerica, ma al valore fonale e fonico che avevano certi verbi e certi sostantivi greci. Nelle poche battute del film, non si deve cercare un significato preciso, ma il messaggio che si riceve dipende dal valore tonale della parola, dal volume della voce, dalle scansioni ritmiche. Anche in altri miei film successivi come Voci nel tempo o Al primo soffio di vento, i personaggi parlano in dialetto: non mi interessa che venga trasmesso il significato preciso di un messaggio, ma il suo valore di fondo. In tutte le conversazioni c’è una componente musicale molto importante: questa è un’opportunità che il cinema legato agli impianti produttivi tradizionali non coglie, ma per me è stata una scoperta.
Nostos
Perché hai ribattezzato Ulisse stesso con il nome di Nostos?
Nostos è la radice della parola nostalgia, che usiamo ancora oggi. La nostalgia è un sentimento di grande importanza, fortissimo, che tutti noi sentiamo: nei momenti in cui ci sentiamo disperati, o abbandonati, o isolati – nei momenti di profonda tristezza – proviamo questo sentimento che rappresenta il desiderio di ritornare e riconnetterci alle terre e alle persone più amate. La nostalgia è sia nostos, “ritorno”, che algos, “dolore”, ma è un dolore che spinge a ritrovare le proprie radici, e il nucleo originario da cui siamo sbocciati. Questo dolore che si trasforma nel piacere di dover tornare e riconquistare la terra natia, la propria Penelope, i propri figli, mi ha spinto a ribattezzare il mio Ulisse in questo modo, per far risaltare di più questa componente.
Come mai, pur essendo l’Odissea una storia di mare, hai deciso di girare Nostos prevalentemente sul Lago di Garda? C’entra sempre in qualche modo la nostalgia delle radici?
Una parte delle immagini le ho girate anche sul Mediterraneo, ma le scene di navigazione vere e proprie le ho girate sul Lago di Garda innanzitutto per un istinto affettivo e radicale: io sono nato a Pozzolengo, ho le radici proprio qui. Del resto anche il lago, in certi momenti, ha degli aspetti marini; soprattutto quando c’è tempesta.
Come hai interagito con Luigi Mezzanotte, il protagonista del film?
Luigi proveniva da un percorso sfaccettato in cui c’erano esperienze anche di teatro classico e ha accettato di recitare in una lingua inventata, come la mia, anche se radicata nel greco antico e nelle lingue indoeuropee. Per lui è stata una sperimentazione nuova poter modulare la voce in funzione delle situazioni drammatiche o nostalgiche in cui si trovava calato nello svolgimento del film. La nostra fu una collaborazione amicale prima ancora che professionale.
Chi erano gli altri attori? Come li avevi scelti?
Gli altri non erano attori di professione, erano amici dei dintorni, che abitavano tra il Lago di Garda e Pozzolengo; giusto qualcuno, come Branca De Camargo che fa Calipso, aveva un minimo di esperienza teatrale o cinematografica pregressa. Fidandomi delle loro capacità espressive, abbiamo costruito assieme questo gruppo di personaggi.
Franco Piavoli
Come fu possibile costruire la barca che si vede nel film? E i costumi?
La barca di Nostos era in origine un vecchio barcone che un tempo veniva usato per trasportare legname dalla sponda nord alla sponda sud del lago di Garda. Quando ero bambino questi barconi ancora navigavano, poi caddero in disuso. Anche gli abiti che i personaggi indossano li ho fatti assieme a mia moglie con spaghi grezzi, in maniera artigianale ma credibile.
Il film finisce con il ritorno, il “nostos” di Ulisse, ma non c’è ancora l’abbraccio con Penelope, restano distanti, liminari, sulla soglia: adesso che ha raggiunto il suo scopo.
Restano sulla soglia. È sempre l’espressione di un desiderio che ho voluto dare, è il Desiderio quello che ha mosso Ulisse. Giunto ad un passo da casa, si poteva immaginare che si sarebbero abbracciati, ma ho voluto lasciare un ultimo attimo di sospensione, di tensione. Ulisse la guarda stupito mentre lei, seduta, avvolge un panno e lo depone nella cassa come simbolo della sua dedizione alla famiglia. La scena finale del film è il simbolo del ritorno, del nostos, di cui tutti noi siamo parte. Non possiamo prescindere dal ritorno all’origine della vita, e alla donna che ci genera, che ci partorisce. L’ho voluto lasciare come simbolo finale del film, il nostos come bisogno profondo di ritornare alla moglie e alla madre contemporaneamente: è la contraddizione della vita, perché noi siamo attratti fisicamente dalla donna e per poterci riprodurre dobbiamo comunque congiungerci con lei, anche se è sempre la donna che ci genera, ci partorisce. È fondamentale per noi questo rapporto di amore ma al tempo stesso di… dipendenza, che ci tiene insieme.
Nostos
Quale pensi sia il valore del mito per il cinema? In che modo il cinema può essere ancora mitopoietico?
Il mito fa parte della nostra costituzione. Il cinema ritornerà a fare mito, e ogni tanto ancora lo fa. Certo, dipende anche dalle condizioni produttive ed economiche che ci sono: è facile pensare a quanti cambiamenti ci sono stati nel cinema con l’avvento del digitale, o con l’avvento delle piattaforme streaming, ma ritorna sempre il bisogno di un mito, del mito. Lo strumento del cinema è fantastico, e diventerà sempre più fertile quando nel futuro potrà utilizzare anche la possibilità di percepire la profondità fisica dell’immagine, e poter stabilire con essa un rapporto di tattilità, in una sorta di ambiente 3D. Tutto è possibile con l’evoluzione delle tecniche, e anche per il cinema, che magari si chiamerà con un diverso nome, mi aspetto senz’altro che in un futuro più o meno lontano si svilupperanno diverse possibilità di espressione.
La nostalgia di Ulisse è un sentimento attuale? In che modo secondo te si può – in senso assoluto – “ritornare”?
La nostalgia è un sentimento che rispunta a cavallo delle onde e del ritmo che navighiamo continuamente nel mare della vita. Stiamo sempre navigando, come Ulisse, in un mare che è a volte tranquillo e a volte burrascoso. Attraverso i mutamenti della struttura sociale, delle relazioni private ma anche pubbliche, delle relazioni all’interno del proprio Stato ma anche delle relazioni internazionali, si verificano continui mutamenti: l’oceano della vita e del mondo è in continua variazione, e momenti di grande burrasca generano nuove scoperte ma fanno rivivere anche il bisogno di ri-trovare una nuova unione, di ri-trovare un punto di riferimento che dia tranquillità e dia a noi stessi la possibilità di ri-trovarci.
Domenica sera (Regia di Franco Piavoli, 1962)