NC-298
02.05.2024
Molto spesso, nel cinema fantastico ci si confronta con le zone liminali del visibile: spazi che invitano lo spettatore ad un’esperienza disomogenea della materia filmica, basata principalmente su sensazioni e stimoli visivi. Gli Stop E-Motion Days, in programma dal 2 al 4 maggio al Museo del ’900 di Venezia, grazie a un’iniziativa del collettivo Quarta Parete, celebreranno l’universo visionario di Stephen e Timothy Quay, noti come i Fratelli Quay, con una retrospettiva a loro dedicata.
Il cinema dei Fratelli Quay si colloca in una zona di confine in cui la materia non viene semplicemente animata, ma “rianimata”, condotta in uno stato di sospensione ontologica. Più che generare vita, i Quay evocano la sopravvivenza del non-vivo, un’oscillazione continua tra corpo, oggetto e residuo. Questo principio è già evidente nel loro esordio in 16mm, Nocturna Artificialia (1979), in cui un tram notturno attraversa paesaggi onirici e deformati: la città non è sfondo, ma proiezione dell’inconscio, costruita attraverso scenografie in miniatura, luci intermittenti e un tempo dilatato che riflette la qualità ipnagogica del sogno.
In This Unnameable Little Broom (1985), rilettura del mito di Gilgamesh attraverso miniature, rituali e iconografie persiane, l’animazione diventa una forma di tortura simbolica: un universo claustrofobico, erotico e meccanico, in cui il mito si decompone in frammenti scenici sadici e osceni. L’animazione, qui, non costruisce il mito: lo disseziona.
I fratelli Quay a lavoro
L'esordio con Nocturna Artificialia (1979)
La loro poetica può essere letta attraverso il concetto di entropia come estetica, intesa - in senso simondoniano - come degrado della forma e perdita di energia organizzata. In corti come The Comb (From the Museums of Sleep) (1991), l’oggetto - un pettine rosso - diventa dispositivo di transito tra i regimi onirici dell’immagine: la materia si liquefa in ambienti che respirano, in tessuti che si muovono autonomamente, come in un sogno eroso dal tempo. Il montaggio alternato tra mondi reali e sogni animati anticipa la linea di confine tra stati psichici che caratterizza gran parte della produzione dei due registi.
In The Cabinet of Jan Svankmajer (1984), film-omaggio al maestro ceco dell’animazione, un corpo-pupazzo riceve lezioni sensoriali: tatto, equilibrio, geometria, memoria. Questo processo, al contempo parodico e didattico, riflette l’ossessione dei Quay per una “formazione animata” del sapere, in cui il corpo meccanico diventa sede della trasmissione segreta di archetipi culturali. L’animazione si configura quindi come forma epistemologica: un sapere custodito nella materia inerte. Il corto è anche un tributo a uno dei principali ispiratori del loro cinema, il già citato Svankmajer. Tuttavia, rispetto a quest’ultimo, i Quay adottano un registro più elegiaco, meno grottesco, incline a una forma espressiva più statica e astratta.
Il corpo - sempre frammentato, protesico, impolverato - è al centro di corti quali Rehearsals for Extinct Anatomies (1988), The Calligrapher (1991), Ex-Voto (1989). In questi lavori, i gesti dei personaggi si fanno ossessivi e ritualizzati; le loro ossature sono ridotte a silhouette o mani incorporee, impegnate in operazioni grafiche e votive che rimandano a un sapere arcaico e a una specifica tipologia di archetipo/mito. In The Calligrapher, in particolare, l’atto della scrittura - tradizionalmente associato alla creazione - è svuotato di semantica e trasformato in una danza compulsiva. Non comunica, ma incide. Appaiono così profetiche le parole di Georges Didi-Huberman in Devant le temps (2000): “Il gesto, qui, è sintomo. Non costruisce, ma sopravvive.”
The Comb (From the Museums of Sleep) (1991)
Il rapporto tra acustica e spazio, d’altronde, nel loro cinema è fondamentale. In Stille Nacht I–IV (1988–2001), serie di cortometraggi spesso realizzati su commissione, i Quay disarticolano oggetti quotidiani in coreografie oniriche e inquietanti: limoni, feti, pupazzi, forbici, piume danzano su piste sonore composte da ronzii, colpi secchi, pizzicati meccanici. Il suono non accompagna l’immagine, ma la anticipa e la deforma. Questo principio è portato all’estremo in In Absentia (2000), dove la composizione di Stockhausen costruisce l’intero montaggio sensoriale. La scrittura ossessiva di una donna diviene così, al tempo stesso, gesto grafico e scarica sonora.
Il loro sguardo decentrato, così anomalo per lo spettatore, è evidente anche in Anamorphosis (1991), saggio visivo sulla distorsione ottica come metodo di visione. La verità non è mai frontale, ma laterale, opaca, disallineata. Questo film-saggio si collega alla loro produzione museale e installativa, rappresentata da film quali The Phantom Museum (2003), dove modelli anatomici e protesi sono mostrati con reverenza sacrale e necrofilica. La scienza, qui, si fa spettacolo del corpo smembrato, avvicinando ulteriormente la loro opera a una certa teatralità.
Anamorphosis (1991)
Il cinema dei Fratelli Quay si configura dunque come un cinema delle soglie: non solo soglie dell’attenzione, ma anche soglie percettive e ricettive. I loro lavori sono esperienze sensoriali radicate in una tradizione simbolica mitteleuropea che ne ha influenzato profondamente le scelte, anche estetiche, e che li ha condotti verso uno spazio in cui la struttura è data dal suono - scelto come elemento perturbante - e modulata attraverso tempi disallineati e disarticolati.
Il loro cinema, come quello di altri autori come Guy Maddin e Peter Tscherkassky, concepisce il film come un organismo fragile e opaco, dotato di una sua autonomia. Al centro vi è una sorta di mitologia del deterioramento, in un contesto sensoriale che respinge ogni logica per abbandonarsi a un onirismo sfrenato. I corpi dei Fratelli Quay sono transitori, in un certo senso anche “queer” - nell’accezione più primitiva del termine - e proprio per questo si rivelano profondamente attuali, così come il loro cinema: apparentemente alieno, ma in realtà intimamente vicino a noi.
NC-298
02.05.2024
I fratelli Quay a lavoro
Molto spesso, nel cinema fantastico ci si confronta con le zone liminali del visibile: spazi che invitano lo spettatore ad un’esperienza disomogenea della materia filmica, basata principalmente su sensazioni e stimoli visivi. Gli Stop E-Motion Days, in programma dal 2 al 4 maggio al Museo del ’900 di Venezia, grazie a un’iniziativa del collettivo Quarta Parete, celebreranno l’universo visionario di Stephen e Timothy Quay, noti come i Fratelli Quay, con una retrospettiva a loro dedicata.
Il cinema dei Fratelli Quay si colloca in una zona di confine in cui la materia non viene semplicemente animata, ma “rianimata”, condotta in uno stato di sospensione ontologica. Più che generare vita, i Quay evocano la sopravvivenza del non-vivo, un’oscillazione continua tra corpo, oggetto e residuo. Questo principio è già evidente nel loro esordio in 16mm, Nocturna Artificialia (1979), in cui un tram notturno attraversa paesaggi onirici e deformati: la città non è sfondo, ma proiezione dell’inconscio, costruita attraverso scenografie in miniatura, luci intermittenti e un tempo dilatato che riflette la qualità ipnagogica del sogno.
In This Unnameable Little Broom (1985), rilettura del mito di Gilgamesh attraverso miniature, rituali e iconografie persiane, l’animazione diventa una forma di tortura simbolica: un universo claustrofobico, erotico e meccanico, in cui il mito si decompone in frammenti scenici sadici e osceni. L’animazione, qui, non costruisce il mito: lo disseziona.
L'esordio con Nocturna Artificialia (1979)
La loro poetica può essere letta attraverso il concetto di entropia come estetica, intesa - in senso simondoniano - come degrado della forma e perdita di energia organizzata. In corti come The Comb (From the Museums of Sleep) (1991), l’oggetto - un pettine rosso - diventa dispositivo di transito tra i regimi onirici dell’immagine: la materia si liquefa in ambienti che respirano, in tessuti che si muovono autonomamente, come in un sogno eroso dal tempo. Il montaggio alternato tra mondi reali e sogni animati anticipa la linea di confine tra stati psichici che caratterizza gran parte della produzione dei due registi.
In The Cabinet of Jan Svankmajer (1984), film-omaggio al maestro ceco dell’animazione, un corpo-pupazzo riceve lezioni sensoriali: tatto, equilibrio, geometria, memoria. Questo processo, al contempo parodico e didattico, riflette l’ossessione dei Quay per una “formazione animata” del sapere, in cui il corpo meccanico diventa sede della trasmissione segreta di archetipi culturali. L’animazione si configura quindi come forma epistemologica: un sapere custodito nella materia inerte. Il corto è anche un tributo a uno dei principali ispiratori del loro cinema, il già citato Svankmajer. Tuttavia, rispetto a quest’ultimo, i Quay adottano un registro più elegiaco, meno grottesco, incline a una forma espressiva più statica e astratta.
Il corpo - sempre frammentato, protesico, impolverato - è al centro di corti quali Rehearsals for Extinct Anatomies (1988), The Calligrapher (1991), Ex-Voto (1989). In questi lavori, i gesti dei personaggi si fanno ossessivi e ritualizzati; le loro ossature sono ridotte a silhouette o mani incorporee, impegnate in operazioni grafiche e votive che rimandano a un sapere arcaico e a una specifica tipologia di archetipo/mito. In The Calligrapher, in particolare, l’atto della scrittura - tradizionalmente associato alla creazione - è svuotato di semantica e trasformato in una danza compulsiva. Non comunica, ma incide. Appaiono così profetiche le parole di Georges Didi-Huberman in Devant le temps (2000): “Il gesto, qui, è sintomo. Non costruisce, ma sopravvive.”
The Comb (From the Museums of Sleep) (1991)
Il rapporto tra acustica e spazio, d’altronde, nel loro cinema è fondamentale. In Stille Nacht I–IV (1988–2001), serie di cortometraggi spesso realizzati su commissione, i Quay disarticolano oggetti quotidiani in coreografie oniriche e inquietanti: limoni, feti, pupazzi, forbici, piume danzano su piste sonore composte da ronzii, colpi secchi, pizzicati meccanici. Il suono non accompagna l’immagine, ma la anticipa e la deforma. Questo principio è portato all’estremo in In Absentia (2000), dove la composizione di Stockhausen costruisce l’intero montaggio sensoriale. La scrittura ossessiva di una donna diviene così, al tempo stesso, gesto grafico e scarica sonora.
Il loro sguardo decentrato, così anomalo per lo spettatore, è evidente anche in Anamorphosis (1991), saggio visivo sulla distorsione ottica come metodo di visione. La verità non è mai frontale, ma laterale, opaca, disallineata. Questo film-saggio si collega alla loro produzione museale e installativa, rappresentata da film quali The Phantom Museum (2003), dove modelli anatomici e protesi sono mostrati con reverenza sacrale e necrofilica. La scienza, qui, si fa spettacolo del corpo smembrato, avvicinando ulteriormente la loro opera a una certa teatralità.
Anamorphosis (1991)
Il cinema dei Fratelli Quay si configura dunque come un cinema delle soglie: non solo soglie dell’attenzione, ma anche soglie percettive e ricettive. I loro lavori sono esperienze sensoriali radicate in una tradizione simbolica mitteleuropea che ne ha influenzato profondamente le scelte, anche estetiche, e che li ha condotti verso uno spazio in cui la struttura è data dal suono - scelto come elemento perturbante - e modulata attraverso tempi disallineati e disarticolati.
Il loro cinema, come quello di altri autori come Guy Maddin e Peter Tscherkassky, concepisce il film come un organismo fragile e opaco, dotato di una sua autonomia. Al centro vi è una sorta di mitologia del deterioramento, in un contesto sensoriale che respinge ogni logica per abbandonarsi a un onirismo sfrenato. I corpi dei Fratelli Quay sono transitori, in un certo senso anche “queer” - nell’accezione più primitiva del termine - e proprio per questo si rivelano profondamente attuali, così come il loro cinema: apparentemente alieno, ma in realtà intimamente vicino a noi.