Ode al corpo
recensione di Pavel Belli Micati
RV-84
10.01.2025
Dall’ultima edizione di Cannes, il paragone con Megalopolis (2024) di Coppola è inevitabile: come il regista statunitense, così anche Jacques Audiard raccoglie il frutto maturo della sua variopinta carriera. Già nel 2021, un altro eclettico visionario portava sulla Croisette un’epopea musicale, incentrata sull’essere figli d’arte e cantava dell’ambizione che si scontra con l’identità, della poesia che collide con la vita: era Leos Carax insieme ad Annette, il suo primo esperimento in lingua inglese. Audiard, che con The Sisters Brothers (I fratelli Sisters, 2018) esordiva nel cinema americano, con Emilia Pérez ricostruisce il Messico negli studi cinematografici di Bry-Sur-Marne, nella regione dell’Île-de-France. Cantando della gelosia, della passione e dell’amore filiale, il regista francese immerge l’identità femminile nei temi del noir; l’accattivante colonna sonora, musicata da Clément Ducol, cantata da Camille e coreografata da Damien Jalet, dispiega una narrazione avvincente e dai risvolti tragici che eleva il concetto di «Donna» ad approdo, identificandola come riparazione emotiva per i danni causati dalla distruzione degli uomini.
"Perdere un caro è una tragedia; perdere i suoi resti, una condanna”: queste sono le parole di Emilia Pérez (Karla Sofía Gascón) omonima protagonista del film, pronunciate durante un gala di raccolta fondi per la sua organizzazione, la «Lucecita», una no-profit che si occupa di ritrovare, identificare e restituire i corpi dei desaparecidos alle loro famiglie. Ciglia lunghe, tacchi alti, ed eleganti tailleur costruiscono l’identità di una matrona messicana votata alla lotta contro la violenza del narcotraffico. Siamo a Città del Messico, il tempo è presente. Qui i ragazzi comuni, presenze scomode per i boss dei cartelli più importanti, scompaiono senza un motivo apparente e le madri non possono seppellirli. Sono, de facto, i figli (il futuro), ciò che vuole proteggere Emilia Pérez e, di conseguenza, questo sfavillante thriller musicale - insignito a Cannes del Premio della Giuria e della Migliore interpretazione, in ex-aequo, per le attrici protagoniste - che mescola tropi marcatamente gangster e sfumature tipiche del melodramma, restituendo una nuova e potente parabola sull’amore, tanto naturale quanto ossessivo, che muove la ricerca della verità.
La signora Pérez non lavora da sola: al suo fianco c’è una figura d’eccezione, Rita Moro Castro (Zoe Saldana), avvocata che esercita la professione con zelo e dedizione - ma le cose non sono sempre state così. Qualche anno prima, Castro è alle dipendenze di un noto studio legale della capitale messicana, specializzato nella difesa, controversa, di uomini palesemente colpevoli. La donna conduce ricerche, prepara la difesa e scrive le arringhe per il suo capo. “Quest’uomo ammazza la moglie e noi lo chiamiamo suicidio”, Rita contrariata mormora tra sé, mentre accompagna l’ennesima vittoria di un uomo scagionato dall’accusa di femminicidio. Nessuno sa del suo talento, nessuno attribuisce alla donna il valore che merita, nessuno tranne Manitas del Monte, il latitante a capo de Los Globales - banda che controlla i maggiori cartelli del paese. Il boss si mette in contatto con lei e avanza una proposta difficile da rifiutare: la licenciada riceverà un lauto compenso in denaro se lo aiuterà a diventare donna: “Vuole cambiare vita o cambiare sesso?” chiede confusa Castro. “Qual è la differenza?” risponde netto del Monte.
Per un boss del narcotraffico cancellare il passato non è un affare semplice: ci sono tracce da eliminare, il denaro da trasferire in depositi sicuri, moglie e figli da portare in salvo, la morte da inscenare, e così via. Castro, messa alle strette, accetta l’offerta ed esegue tutti i protocolli. Dapprima cerca un chirurgo disposto a operare in anonimato: “Se è un lupo sarà una lupa, se è il lupo, tu sarai il suo agnello”, l’avverte il medico di Tel Aviv che acconsente all’operazione. “Non mi manca il mare, non mi manca il cielo, né la voce, ma mi manca il cantare!”, si strugge invece malinconico del Monte, cresciuto in un mondo criminale che gli nega di essere chi ha sempre desiderato diventare. Mafiosi si nasce, donne si diventa. I notiziari annunciano la morte di Manitas e la transizione avviene. Castro conduce la moglie in lutto, Jessie (Selena Gomez), e i figli piccoli in Svizzera. L’incarico è portato a termine, e finalmente la donna può godersi il meritato bottino. Ma i conti in sospeso vanno regolati, il passato torna sempre e nessuno scompare mai per davvero.
Quattro anni dopo Castro è a Londra e, durante una cena tra amici, viene raggiunta da Manitas, ora Emilia Pérez. “Non dirmi che sei qui per caso” canta titubante l’avvocata. “Non è un caso se sono qui” replica decisa la donna: “Ho bisogno che riporti i miei figli in Messico, non posso vivere senza di loro”. Non potendo più essere padre, sarà per loro una zia. Castro, le mani legate ancora una volta, si occupa di rimpatriare la vedova Jessie insieme ai figli, seguendo Emilia di ritorno in Messico. Il rapporto professionale tra le due evolve in una solida amicizia, rinsaldata dal desiderio, da parte di Pérez, di riparare ai danni commessi da Manitas con il suo cartello. La donna man mano si conquista la fama di generosa ereditiera dai nobili sentimenti, decisa a raggiungere, in un modo o nell’altro, la verità, ovvero restituire alla gente i resti dei loro cari defunti. Tutti si adattano al ritorno, la pace è tornata. Quando però Jessie rivela al marito defunto - ora nuova cognata - di aver trovato l’amore con Gustavo, una vecchia fiamma, arriva la proposta di matrimonio e insieme la minaccia che allontana di nuovo Emilia dai suoi bambini.
Mariachi che suonano in paillettes, inservienti con camici rosa che lucidano sale di tribunali, passanti che ballano dietro le tende e sopra i banconi di mercati, infermieri che piroettano tra lettini di sale operatorie, volti di bambini che cantano fissi in camera e politici corrotti manipolati come fantocci: identità, corpi e generi si mescolano in una processione aggregante, sulla scia di suoni metallici e litanie da ferrivecchi diffuse, come canti di lutto, da furgoncini che attraversano le strade della città. Il carnevale artificiosamente mestizo che ne risulta segue il cammino di pentimento e redenzione di un eroe frammentario, scisso, macchiato indelebilmente dal contesto di violenza in cui nasce e da cui cerca di fuggire. Emilia Pérez esplora l’identità a partire dalla sua negazione e, come intonano le voci alla ricerca dei loro affetti perduti, in questa fantasia di stile perdono e redenzione si equivalgono. La vedovanza, poi, estende il lutto a canto, e il canto, come nella tradizione indigena de «La Sandunga», è sia tentativo di riportare in vita chi non c’è più, sia forma di resistenza silenziosa alla violenza.
“Salendo in cielo, cadendo nel baratro, fluttuando nel ritmo, arrivando all’estasi, toccando il fondo”, stridono le sintesi elettriche che donano nuova forma a grida antiche, restituendo sonorizzazioni immanenti dell’amore e della perdita. Se non si può superare la dicotomia con cui i nostri occhi guardano e il nostro cuore ricorda, se il binarismo presenza-assenza è così ineluttabile, allora perché non cantarlo? Le danze, concitate e seducenti, tracimano energia cinetica, attizzano l’ardore e fomentano il caos, incantevoli e vibranti come anche il set-design e i costumi, curati fin nei minimi particolari. Tutti inserti elaboratissimi che si inseriscono alla perfezione in un mosaico policromo dove le trasfigurazioni del lutto avanzano una ad una, le scene si affastellano in sensuali invocazioni e compongono un cammino di espiazione senza precedenti. Emilia Pérez è la trasposizione mitica dell’identità femminile nei suoi infiniti percorsi di costruzione: il meccanismo paradossale che ne scandisce il ritmo è dato dalla frizione costante tra l’artificialità manifesta di tali drammatizzazioni e l’emozione sincera, passionale, che la loro riproduzione suscita.
Il plauso della critica, indiscusso fin dall’inizio, è stato accompagnato più recentemente da giudizi meno favorevoli sulla resa imprecisa del contesto geografico descritto (qui il Messico del narcotraffico); molti hanno poi denunciato le incongruenze che tradiscono le complessità inerenti il percorso di transizione di genere - qui la trasformazione di Manitas in Emilia. Ma il tradimento è uno tra gli innumerevoli piani, sia tematici che esecutivi, della parabola multiforme; e questi tropi servono da orizzonte a un ambiente in perenne tumulto, sulle note di una fantasia musicale che reimmagina la dicotomia tra ossessione e amore, lutto e passione, colpa e redenzione. Ciò che dona bellezza estatica (ed estetica) a questo pastiche glamour di manierismo tecnico e cruda emozione è il desiderio di profondere l’intera esperienza con un sentimento di verità. Tutto si compra, nell'universo di Audiard, dai silenzi alla giustizia, fino alle identità; tutto tranne l’amore, e nessuno tradisce, in Emilia Pérez, questo sentimento ultimo.
Rapsodia spregiudicata, baccanale kitsch, Emilia Pérez ridisegna i confini del musical e ribalta le prassi di filiazione, raccontando genere e identità come unico approdo: è dal corpo che si produce la vita, è al corpo che ogni sua forma torna. Audiard confeziona una scintillante elegia sull’amore, un tour de force materico, che percorre generi, dissemina molteplici punti di vista e raccoglie sentimenti unici. Il movimento e la stasi sono sineddoche del mutamento fisico e dell’immutabilità dei sentimenti. Pur se la storia non trasmette messaggi sovversivi, né l’intreccio rompe con le convenzioni narrative, il nuovo formato ibrido che ne risulta drammatizza le costruzioni della vita reale. Se l’azzardo di mescolare a temi complessi quali identità di genere, violenza domestica e narcotraffico, immagini semplificate e caricature colorite già usate dal cinema di Hollywood è ciò che offende il pubblico più sensibile, nondimeno ridurre Emilia Pérez a ritratto transfobico, o addirittura razzista, sarebbe un appiattimento della ricezione culturale. Perché questo film è un’anomalia nel panorama attuale, ma cosa non è anomalo, nella vita odierna? È la vita, alla fine, che ispira la poesia, non il contrario.
Ode al corpo
recensione di Pavel Belli Micati
RV-84
10.01.2025
Dall’ultima edizione di Cannes, il paragone con Megalopolis (2024) di Coppola è inevitabile: come il regista statunitense, così anche Jacques Audiard raccoglie il frutto maturo della sua variopinta carriera. Già nel 2021, un altro eclettico visionario portava sulla Croisette un’epopea musicale, incentrata sull’essere figli d’arte e cantava dell’ambizione che si scontra con l’identità, della poesia che collide con la vita: era Leos Carax insieme ad Annette, il suo primo esperimento in lingua inglese. Audiard, che con The Sisters Brothers (I fratelli Sisters, 2018) esordiva nel cinema americano, con Emilia Pérez ricostruisce il Messico negli studi cinematografici di Bry-Sur-Marne, nella regione dell’Île-de-France. Cantando della gelosia, della passione e dell’amore filiale, il regista francese immerge l’identità femminile nei temi del noir; l’accattivante colonna sonora, musicata da Clément Ducol, cantata da Camille e coreografata da Damien Jalet, dispiega una narrazione avvincente e dai risvolti tragici che eleva il concetto di «Donna» ad approdo, identificandola come riparazione emotiva per i danni causati dalla distruzione degli uomini.
"Perdere un caro è una tragedia; perdere i suoi resti, una condanna”: queste sono le parole di Emilia Pérez (Karla Sofía Gascón) omonima protagonista del film, pronunciate durante un gala di raccolta fondi per la sua organizzazione, la «Lucecita», una no-profit che si occupa di ritrovare, identificare e restituire i corpi dei desaparecidos alle loro famiglie. Ciglia lunghe, tacchi alti, ed eleganti tailleur costruiscono l’identità di una matrona messicana votata alla lotta contro la violenza del narcotraffico. Siamo a Città del Messico, il tempo è presente. Qui i ragazzi comuni, presenze scomode per i boss dei cartelli più importanti, scompaiono senza un motivo apparente e le madri non possono seppellirli. Sono, de facto, i figli (il futuro), ciò che vuole proteggere Emilia Pérez e, di conseguenza, questo sfavillante thriller musicale - insignito a Cannes del Premio della Giuria e della Migliore interpretazione, in ex-aequo, per le attrici protagoniste - che mescola tropi marcatamente gangster e sfumature tipiche del melodramma, restituendo una nuova e potente parabola sull’amore, tanto naturale quanto ossessivo, che muove la ricerca della verità.
La signora Pérez non lavora da sola: al suo fianco c’è una figura d’eccezione, Rita Moro Castro (Zoe Saldana), avvocata che esercita la professione con zelo e dedizione - ma le cose non sono sempre state così. Qualche anno prima, Castro è alle dipendenze di un noto studio legale della capitale messicana, specializzato nella difesa, controversa, di uomini palesemente colpevoli. La donna conduce ricerche, prepara la difesa e scrive le arringhe per il suo capo. “Quest’uomo ammazza la moglie e noi lo chiamiamo suicidio”, Rita contrariata mormora tra sé, mentre accompagna l’ennesima vittoria di un uomo scagionato dall’accusa di femminicidio. Nessuno sa del suo talento, nessuno attribuisce alla donna il valore che merita, nessuno tranne Manitas del Monte, il latitante a capo de Los Globales - banda che controlla i maggiori cartelli del paese. Il boss si mette in contatto con lei e avanza una proposta difficile da rifiutare: la licenciada riceverà un lauto compenso in denaro se lo aiuterà a diventare donna: “Vuole cambiare vita o cambiare sesso?” chiede confusa Castro. “Qual è la differenza?” risponde netto del Monte.
Per un boss del narcotraffico cancellare il passato non è un affare semplice: ci sono tracce da eliminare, il denaro da trasferire in depositi sicuri, moglie e figli da portare in salvo, la morte da inscenare, e così via. Castro, messa alle strette, accetta l’offerta ed esegue tutti i protocolli. Dapprima cerca un chirurgo disposto a operare in anonimato: “Se è un lupo sarà una lupa, se è il lupo, tu sarai il suo agnello”, l’avverte il medico di Tel Aviv che acconsente all’operazione. “Non mi manca il mare, non mi manca il cielo, né la voce, ma mi manca il cantare!”, si strugge invece malinconico del Monte, cresciuto in un mondo criminale che gli nega di essere chi ha sempre desiderato diventare. Mafiosi si nasce, donne si diventa. I notiziari annunciano la morte di Manitas e la transizione avviene. Castro conduce la moglie in lutto, Jessie (Selena Gomez), e i figli piccoli in Svizzera. L’incarico è portato a termine, e finalmente la donna può godersi il meritato bottino. Ma i conti in sospeso vanno regolati, il passato torna sempre e nessuno scompare mai per davvero.
Quattro anni dopo Castro è a Londra e, durante una cena tra amici, viene raggiunta da Manitas, ora Emilia Pérez. “Non dirmi che sei qui per caso” canta titubante l’avvocata. “Non è un caso se sono qui” replica decisa la donna: “Ho bisogno che riporti i miei figli in Messico, non posso vivere senza di loro”. Non potendo più essere padre, sarà per loro una zia. Castro, le mani legate ancora una volta, si occupa di rimpatriare la vedova Jessie insieme ai figli, seguendo Emilia di ritorno in Messico. Il rapporto professionale tra le due evolve in una solida amicizia, rinsaldata dal desiderio, da parte di Pérez, di riparare ai danni commessi da Manitas con il suo cartello. La donna man mano si conquista la fama di generosa ereditiera dai nobili sentimenti, decisa a raggiungere, in un modo o nell’altro, la verità, ovvero restituire alla gente i resti dei loro cari defunti. Tutti si adattano al ritorno, la pace è tornata. Quando però Jessie rivela al marito defunto - ora nuova cognata - di aver trovato l’amore con Gustavo, una vecchia fiamma, arriva la proposta di matrimonio e insieme la minaccia che allontana di nuovo Emilia dai suoi bambini.
Mariachi che suonano in paillettes, inservienti con camici rosa che lucidano sale di tribunali, passanti che ballano dietro le tende e sopra i banconi di mercati, infermieri che piroettano tra lettini di sale operatorie, volti di bambini che cantano fissi in camera e politici corrotti manipolati come fantocci: identità, corpi e generi si mescolano in una processione aggregante, sulla scia di suoni metallici e litanie da ferrivecchi diffuse, come canti di lutto, da furgoncini che attraversano le strade della città. Il carnevale artificiosamente mestizo che ne risulta segue il cammino di pentimento e redenzione di un eroe frammentario, scisso, macchiato indelebilmente dal contesto di violenza in cui nasce e da cui cerca di fuggire. Emilia Pérez esplora l’identità a partire dalla sua negazione e, come intonano le voci alla ricerca dei loro affetti perduti, in questa fantasia di stile perdono e redenzione si equivalgono. La vedovanza, poi, estende il lutto a canto, e il canto, come nella tradizione indigena de «La Sandunga», è sia tentativo di riportare in vita chi non c’è più, sia forma di resistenza silenziosa alla violenza.
“Salendo in cielo, cadendo nel baratro, fluttuando nel ritmo, arrivando all’estasi, toccando il fondo”, stridono le sintesi elettriche che donano nuova forma a grida antiche, restituendo sonorizzazioni immanenti dell’amore e della perdita. Se non si può superare la dicotomia con cui i nostri occhi guardano e il nostro cuore ricorda, se il binarismo presenza-assenza è così ineluttabile, allora perché non cantarlo? Le danze, concitate e seducenti, tracimano energia cinetica, attizzano l’ardore e fomentano il caos, incantevoli e vibranti come anche il set-design e i costumi, curati fin nei minimi particolari. Tutti inserti elaboratissimi che si inseriscono alla perfezione in un mosaico policromo dove le trasfigurazioni del lutto avanzano una ad una, le scene si affastellano in sensuali invocazioni e compongono un cammino di espiazione senza precedenti. Emilia Pérez è la trasposizione mitica dell’identità femminile nei suoi infiniti percorsi di costruzione: il meccanismo paradossale che ne scandisce il ritmo è dato dalla frizione costante tra l’artificialità manifesta di tali drammatizzazioni e l’emozione sincera, passionale, che la loro riproduzione suscita.
Il plauso della critica, indiscusso fin dall’inizio, è stato accompagnato più recentemente da giudizi meno favorevoli sulla resa imprecisa del contesto geografico descritto (qui il Messico del narcotraffico); molti hanno poi denunciato le incongruenze che tradiscono le complessità inerenti il percorso di transizione di genere - qui la trasformazione di Manitas in Emilia. Ma il tradimento è uno tra gli innumerevoli piani, sia tematici che esecutivi, della parabola multiforme; e questi tropi servono da orizzonte a un ambiente in perenne tumulto, sulle note di una fantasia musicale che reimmagina la dicotomia tra ossessione e amore, lutto e passione, colpa e redenzione. Ciò che dona bellezza estatica (ed estetica) a questo pastiche glamour di manierismo tecnico e cruda emozione è il desiderio di profondere l’intera esperienza con un sentimento di verità. Tutto si compra, nell'universo di Audiard, dai silenzi alla giustizia, fino alle identità; tutto tranne l’amore, e nessuno tradisce, in Emilia Pérez, questo sentimento ultimo.
Rapsodia spregiudicata, baccanale kitsch, Emilia Pérez ridisegna i confini del musical e ribalta le prassi di filiazione, raccontando genere e identità come unico approdo: è dal corpo che si produce la vita, è al corpo che ogni sua forma torna. Audiard confeziona una scintillante elegia sull’amore, un tour de force materico, che percorre generi, dissemina molteplici punti di vista e raccoglie sentimenti unici. Il movimento e la stasi sono sineddoche del mutamento fisico e dell’immutabilità dei sentimenti. Pur se la storia non trasmette messaggi sovversivi, né l’intreccio rompe con le convenzioni narrative, il nuovo formato ibrido che ne risulta drammatizza le costruzioni della vita reale. Se l’azzardo di mescolare a temi complessi quali identità di genere, violenza domestica e narcotraffico, immagini semplificate e caricature colorite già usate dal cinema di Hollywood è ciò che offende il pubblico più sensibile, nondimeno ridurre Emilia Pérez a ritratto transfobico, o addirittura razzista, sarebbe un appiattimento della ricezione culturale. Perché questo film è un’anomalia nel panorama attuale, ma cosa non è anomalo, nella vita odierna? È la vita, alla fine, che ispira la poesia, non il contrario.