L'ultimo segno del cinema,
recensione di Leonardo Strano
RV-13
26.04.2023
Qual è la differenza tra i videogiochi presenti sulla home di Netflix, l’adattamento cinematografico di Super Mario e John Wick 4? Questi tre oggetti della più recente cultura audiovisiva esemplificano tre modi di relazionarsi con il videogioco, il più importante linguaggio del nuovo secolo. Nel primo caso il videogame è trattato come un contenuto indistinto dal film e dalla serie, in un flusso informativo che certifica la piattaforma come un rullo compressore interessato al livellamento di qualsiasi immagine; nel secondo la grammatica videoludica è assorbita da quella cinematografica alla maniera di un trapianto senza rigetto, tra forme grammaticali condivise (si pensi alle carrellate laterali) e lo scioglimento del tutto in struttura narrativa che strizza l’occhio ai gamer ma rimane in fondo conforme alla drammaturgia classica (il viaggio dell’eroe, per cui l’antagonista è spettro di virtuali turbe psicologiche sull’autodeterminazione); nel terzo invece il linguaggio videoludico e quello cinematografico si mettono in dinamico confronto, interagiscono, fanno scintilla. Non integrandosi in un omogeneo tappeto visivo ma disintegrandosi. John Wick 4 è il territorio virtuale di questa disintegrazione, un momento di trasparenza, nel luogo industriale, attraverso cui leggere non tanto il corso delle logiche di mutazione dell’action hollywoodiano quanto la fluttuazione dei rapporti di forza dell’audiovisivo contemporaneo tout court, o meglio, della relazione dei suoi due principali medium, uno in fase terminale e l’altro in fase dominante.
Dovrebbe apparire chiaro fin dall’inizio, quando, senza alcuna legittimità o peso, il film inserisce il famoso taglio di montaggio di Lawrence d’Arabia alla maniera di una citazione incorporata senza virgolette. Che sia un riferimento di costume (la figura del killer cieco alla Zatoichi, la voce radiofonica da The Warriors, le scale de L’Esorcista), o un segno visivo più o meno risemantizzato (l’orologio a cipolla di Per qualche dollaro in più, i colori di The Grandmaster, la pioggia di The Matrix Revolutions) il cinema in John Wick 4 appare come appariva in Ready Player One attraverso l’Overlook – un catalogo mitologico tenuto sotto teca a temperatura di conservazione, un artefatto da rivisitare, da riabitare, da riattraversare – o in Tenet, nella sequenza finale del crollo delle mura, un edificio in rovina, attraversato al contrario da figure in missione per conto del futuro. Proprio il film di Nolan ragionava sull’incorporazione delle dinamiche videoludiche nella pelle di un altro medium e alla fine muoveva a favore del cinema: allestiva uno spettacolo videoludico (anch’esso a livelli, con pacchetti di informazioni, missioni e protagonisti senza nome) solo per incorporare lo sguardo standard del giocatore e poi manipolarlo fino al disorientamento, fino alla visione pura di qualcosa di incomprensibile, ingiocabile e infatti puramente cinematografico (il tempo à rebours).
John Wick 4 invece? Non è forse quella di Stahelski una ristrutturazione dello sguardo videoludico a favore del cinema? John Wick 4 non è solo riflessivo e descrittivo, non enuncia solo dati di fatto, ma scatta in avanti, propone una strada. Nell’orizzonte post cinematografico, tra le rovine delle immagini che furono, riconosce come ultimo segno di cinema sostenibile nell’ecosistema mediatico sempre più convergente, sempre più indifferente al vecchio medium, la traccia generata della performance del corpo di un vecchio divo, il suo gesto, lo stunt realmente compiuto sulla scena. Stahelski offre alla visione dello sguardo videoludico il movimento di un corpo analogico che risignifica la pratica filmica non tanto come una costruzione finzionale d’intrattenimento quanto come la ripresa quasi documentaristica di uno sforzo reale in uno spazio digitalizzato – come per Top Gun: Maverick, altro film summa dei tempi. Pensate come installazioni performative, le scene di lotta in cui Keanu Reeves suda e fatica ignorano i tempi della drammaturgia, fanno del contesto un puro segno grafico superficiale (inquadrato teoricamente nel prologo dagli sfondi bidimensionali della pittura nipponica) e raggiungono un’agentività, un peso materiale, solo grazie all’attore. Nel completo collasso delle coordinate storiche della visione, nello spazio dis-integrato apertosi tra cinema e videogioco, la vista si innesta, si specchia, si innerva in questo corpo. Il nuovo spettatore forse già gioca con le immagini, ma è anche, per un’ultima volta, giocato da esse.
L'ultimo segno del cinema,
recensione di Leonardo Strano
RV-13
26.04.2023
Qual è la differenza tra i videogiochi presenti sulla home di Netflix, l’adattamento cinematografico di Super Mario e John Wick 4? Questi tre oggetti della più recente cultura audiovisiva esemplificano tre modi di relazionarsi con il videogioco, il più importante linguaggio del nuovo secolo. Nel primo caso il videogame è trattato come un contenuto indistinto dal film e dalla serie, in un flusso informativo che certifica la piattaforma come un rullo compressore interessato al livellamento di qualsiasi immagine; nel secondo la grammatica videoludica è assorbita da quella cinematografica alla maniera di un trapianto senza rigetto, tra forme grammaticali condivise (si pensi alle carrellate laterali) e lo scioglimento del tutto in struttura narrativa che strizza l’occhio ai gamer ma rimane in fondo conforme alla drammaturgia classica (il viaggio dell’eroe, per cui l’antagonista è spettro di virtuali turbe psicologiche sull’autodeterminazione); nel terzo invece il linguaggio videoludico e quello cinematografico si mettono in dinamico confronto, interagiscono, fanno scintilla. Non integrandosi in un omogeneo tappeto visivo ma disintegrandosi. John Wick 4 è il territorio virtuale di questa disintegrazione, un momento di trasparenza, nel luogo industriale, attraverso cui leggere non tanto il corso delle logiche di mutazione dell’action hollywoodiano quanto la fluttuazione dei rapporti di forza dell’audiovisivo contemporaneo tout court, o meglio, della relazione dei suoi due principali medium, uno in fase terminale e l’altro in fase dominante.
Dovrebbe apparire chiaro fin dall’inizio, quando, senza alcuna legittimità o peso, il film inserisce il famoso taglio di montaggio di Lawrence d’Arabia alla maniera di una citazione incorporata senza virgolette. Che sia un riferimento di costume (la figura del killer cieco alla Zatoichi, la voce radiofonica da The Warriors, le scale de L’Esorcista), o un segno visivo più o meno risemantizzato (l’orologio a cipolla di Per qualche dollaro in più, i colori di The Grandmaster, la pioggia di The Matrix Revolutions) il cinema in John Wick 4 appare come appariva in Ready Player One attraverso l’Overlook – un catalogo mitologico tenuto sotto teca a temperatura di conservazione, un artefatto da rivisitare, da riabitare, da riattraversare – o in Tenet, nella sequenza finale del crollo delle mura, un edificio in rovina, attraversato al contrario da figure in missione per conto del futuro. Proprio il film di Nolan ragionava sull’incorporazione delle dinamiche videoludiche nella pelle di un altro medium e alla fine muoveva a favore del cinema: allestiva uno spettacolo videoludico (anch’esso a livelli, con pacchetti di informazioni, missioni e protagonisti senza nome) solo per incorporare lo sguardo standard del giocatore e poi manipolarlo fino al disorientamento, fino alla visione pura di qualcosa di incomprensibile, ingiocabile e infatti puramente cinematografico (il tempo à rebours).
John Wick 4 invece? Non è forse quella di Stahelski una ristrutturazione dello sguardo videoludico a favore del cinema? John Wick 4 non è solo riflessivo e descrittivo, non enuncia solo dati di fatto, ma scatta in avanti, propone una strada. Nell’orizzonte post cinematografico, tra le rovine delle immagini che furono, riconosce come ultimo segno di cinema sostenibile nell’ecosistema mediatico sempre più convergente, sempre più indifferente al vecchio medium, la traccia generata della performance del corpo di un vecchio divo, il suo gesto, lo stunt realmente compiuto sulla scena. Stahelski offre alla visione dello sguardo videoludico il movimento di un corpo analogico che risignifica la pratica filmica non tanto come una costruzione finzionale d’intrattenimento quanto come la ripresa quasi documentaristica di uno sforzo reale in uno spazio digitalizzato – come per Top Gun: Maverick, altro film summa dei tempi. Pensate come installazioni performative, le scene di lotta in cui Keanu Reeves suda e fatica ignorano i tempi della drammaturgia, fanno del contesto un puro segno grafico superficiale (inquadrato teoricamente nel prologo dagli sfondi bidimensionali della pittura nipponica) e raggiungono un’agentività, un peso materiale, solo grazie all’attore. Nel completo collasso delle coordinate storiche della visione, nello spazio dis-integrato apertosi tra cinema e videogioco, la vista si innesta, si specchia, si innerva in questo corpo. Il nuovo spettatore forse già gioca con le immagini, ma è anche, per un’ultima volta, giocato da esse.