Il cinema come archeologia della bellezza,
recensione di Jacopo Abballe
RV-40
23.11.2023
Il buio più nero. Poi una mano sposta qualcosa, forse un sasso, e per un attimo vediamo. Dall’altra parte c’è un volto, due occhi chiari: una donna. Il nostro sguardo viene ricoperto con lo stesso sasso, poi di nuovo scoperto. Stavolta abbiamo il tempo di mettere meglio a fuoco: il volto di una donna dai capelli chiari, il sorriso dolce e la pelle bagnata di luce. Lo scenario è naturale, roccioso. Veniamo scoperti (letteralmente) a guardare questa scena, messi all’improvviso di fronte a quelle che riscopriremo in seguito come le suggestioni fondamentali del racconto. La prima immagine dell’ultimo film di Alice Rohrwacher funziona come uno scavo archeologico. Lo spettatore è catapultato in un mondo di luce (che è la natura, ma che è anche il cinema) e il film vede lo spettatore. Ci si scopre a vicenda: un archeologo scopre l’oggetto riesumato, e viceversa.
La storia raccontata da Rohrwacher è tutt’altro che semplice e lineare. C’è un uomo schivo e silenzioso, che parla molto male l’italiano – per tutti è l’Inglese, ma non si sa bene da dove venga. C’è un paese contadino, durante gli anni Ottanta, dove un gruppo di tombaroli si è specializzato nei reperti etruschi per rivenderli a un oscuro mercante che si fa chiamare Spartaco. C’è una donna che studia canto ma che è molto stonata. E c’è anche un tempo altro, dei sogni o forse della memoria, dove c’è un’altra donna (la stessa che per prima ci ha svelato il film) e il cui ricordo tormenta l’Inglese. E con lei un filo rosso: lo vediamo spuntare dalla terra o fluttuare nell’aria, tra sogno e veglia, tra passato e presente. C’è tutto questo e molto di più – il mondo agricolo, povero, la terra e gli scavi, ma anche luoghi di squallida modernità, le industrie e le discariche, una nave di lusso e un’asta d’arte. E se è vero che tornano volti e suggestioni a cui la regista toscana ci ha abituati, il racconto è stavolta talmente ricco e complesso da spingerci al di là del suo stesso cinema.
Su cosa concentrarsi, dunque? Forse sui dettagli, quelli più infimi. L’Inglese è sfruttato dai suoi amici tombaroli per le doti rabdomantiche che possiede: grazie a un ramo biforcato è in grado di percepire il punto esatto in cui scavare. I momenti di rivelazione rabdomante sono vissuti dall’Inglese con spiritualità travolgente. La ricerca della bellezza è un atto di fede. La macchina da presa segue questi momenti di contatto con il divino roteando su se stessa, conducendoci lentamente verso un capovolgimento totale. C’è un altro elemento del film che a questo punto è necessario introdurre. È una statua etrusca che si è preservata perfettamente per oltre duemila anni, fino a quando non è stata ritrovata dall’Inglese e dai suoi compagni. Il gruppo riuscirà poi a recuperarne solo la testa e sarà proprio il volto scolpito della donna a segnare nel profondo la sensibilità dell’Inglese. Una bellezza antica, che lo riporta a quella della ragazza che attanaglia i suoi ricordi. Una donna sconosciuta, che forse non esiste, non nel nostro tempo, almeno. In un mondo in bilico tra campagna selvaggia e centri urbani, l’oggetto più splendido e prezioso è sepolto in una spiaggia sporca, contaminata dai rifiuti tossici, con alle spalle un enorme fabbrica. E quando anche la bellezza della statua verrà contaminata – dal denaro, dal mercato, dalle mani degli altri – per l’Inglese non ci sarà altro da fare che lasciarsi andare all’inerzia, alla stanchezza, alla bruttezza. La sua ultima scoperta rabdomante non è accompagnata da alcun capovolgimento della macchina da presa. L’immagine capovolta dell’Inglese appare invece nel riflesso di una pozzanghera: non è più il mondo interiore dell’uomo a capovolgersi in nome della bellezza, ma è il mondo degli uomini che si è capovolto nel taglio della disperazione.
La bellezza, sembra raccontarci Alice Rohrwacher, non è più possibile se non nelle profondità della terra, e cioè della memoria. Nella riscoperta di un mondo arcaico e perduto, quello dei canti contadini e delle tradizioni paesane. Nei volti antichi e nelle cose semplici: i bambini, i baci, la stessa terra (e non solo quello che nasconde). La sequenza finale del film racconta la riscoperta fondamentale, quella del luogo più puro e incontaminato: il corpo. In un momento di commovente bellezza, due corpi si incontrano in una terra di luce. Si toccano, si legano. E noi percepiamo quei tocchi, quell’abbraccio, con estrema concretezza. Eppure siamo ancora una volta nel territorio del sogno, della memoria, dell’impossibile. Siamo, insomma, nel territorio del cinema. E cioè delle cose che sono mitiche perché realistiche e realistiche perché mitiche. Non ci sono dubbi che il film di Rohrwacher sia esso stesso una chimera, nel senso di un’ipotesi assurda, di un sogno vano. Si tratta infatti di una splendida confusione (ma sempre lucida), che corre più volte il rischio di essere troppo grande, di toccare troppi temi. Ma è bella così, nella sua assurdità che è atto poetico e politico, in nome di un cinema che pensa e che ri-pensa il cinema.
Il cinema come archeologia della bellezza,
recensione di Jacopo Abballe
RV-40
23.11.2023
Il buio più nero. Poi una mano sposta qualcosa, forse un sasso, e per un attimo vediamo. Dall’altra parte c’è un volto, due occhi chiari: una donna. Il nostro sguardo viene ricoperto con lo stesso sasso, poi di nuovo scoperto. Stavolta abbiamo il tempo di mettere meglio a fuoco: il volto di una donna dai capelli chiari, il sorriso dolce e la pelle bagnata di luce. Lo scenario è naturale, roccioso. Veniamo scoperti (letteralmente) a guardare questa scena, messi all’improvviso di fronte a quelle che riscopriremo in seguito come le suggestioni fondamentali del racconto. La prima immagine dell’ultimo film di Alice Rohrwacher funziona come uno scavo archeologico. Lo spettatore è catapultato in un mondo di luce (che è la natura, ma che è anche il cinema) e il film vede lo spettatore. Ci si scopre a vicenda: un archeologo scopre l’oggetto riesumato, e viceversa.
La storia raccontata da Rohrwacher è tutt’altro che semplice e lineare. C’è un uomo schivo e silenzioso, che parla molto male l’italiano – per tutti è l’Inglese, ma non si sa bene da dove venga. C’è un paese contadino, durante gli anni Ottanta, dove un gruppo di tombaroli si è specializzato nei reperti etruschi per rivenderli a un oscuro mercante che si fa chiamare Spartaco. C’è una donna che studia canto ma che è molto stonata. E c’è anche un tempo altro, dei sogni o forse della memoria, dove c’è un’altra donna (la stessa che per prima ci ha svelato il film) e il cui ricordo tormenta l’Inglese. E con lei un filo rosso: lo vediamo spuntare dalla terra o fluttuare nell’aria, tra sogno e veglia, tra passato e presente. C’è tutto questo e molto di più – il mondo agricolo, povero, la terra e gli scavi, ma anche luoghi di squallida modernità, le industrie e le discariche, una nave di lusso e un’asta d’arte. E se è vero che tornano volti e suggestioni a cui la regista toscana ci ha abituati, il racconto è stavolta talmente ricco e complesso da spingerci al di là del suo stesso cinema.
Su cosa concentrarsi, dunque? Forse sui dettagli, quelli più infimi. L’Inglese è sfruttato dai suoi amici tombaroli per le doti rabdomantiche che possiede: grazie a un ramo biforcato è in grado di percepire il punto esatto in cui scavare. I momenti di rivelazione rabdomante sono vissuti dall’Inglese con spiritualità travolgente. La ricerca della bellezza è un atto di fede. La macchina da presa segue questi momenti di contatto con il divino roteando su se stessa, conducendoci lentamente verso un capovolgimento totale. C’è un altro elemento del film che a questo punto è necessario introdurre. È una statua etrusca che si è preservata perfettamente per oltre duemila anni, fino a quando non è stata ritrovata dall’Inglese e dai suoi compagni. Il gruppo riuscirà poi a recuperarne solo la testa e sarà proprio il volto scolpito della donna a segnare nel profondo la sensibilità dell’Inglese. Una bellezza antica, che lo riporta a quella della ragazza che attanaglia i suoi ricordi. Una donna sconosciuta, che forse non esiste, non nel nostro tempo, almeno. In un mondo in bilico tra campagna selvaggia e centri urbani, l’oggetto più splendido e prezioso è sepolto in una spiaggia sporca, contaminata dai rifiuti tossici, con alle spalle un enorme fabbrica. E quando anche la bellezza della statua verrà contaminata – dal denaro, dal mercato, dalle mani degli altri – per l’Inglese non ci sarà altro da fare che lasciarsi andare all’inerzia, alla stanchezza, alla bruttezza. La sua ultima scoperta rabdomante non è accompagnata da alcun capovolgimento della macchina da presa. L’immagine capovolta dell’Inglese appare invece nel riflesso di una pozzanghera: non è più il mondo interiore dell’uomo a capovolgersi in nome della bellezza, ma è il mondo degli uomini che si è capovolto nel taglio della disperazione.
La bellezza, sembra raccontarci Alice Rohrwacher, non è più possibile se non nelle profondità della terra, e cioè della memoria. Nella riscoperta di un mondo arcaico e perduto, quello dei canti contadini e delle tradizioni paesane. Nei volti antichi e nelle cose semplici: i bambini, i baci, la stessa terra (e non solo quello che nasconde). La sequenza finale del film racconta la riscoperta fondamentale, quella del luogo più puro e incontaminato: il corpo. In un momento di commovente bellezza, due corpi si incontrano in una terra di luce. Si toccano, si legano. E noi percepiamo quei tocchi, quell’abbraccio, con estrema concretezza. Eppure siamo ancora una volta nel territorio del sogno, della memoria, dell’impossibile. Siamo, insomma, nel territorio del cinema. E cioè delle cose che sono mitiche perché realistiche e realistiche perché mitiche. Non ci sono dubbi che il film di Rohrwacher sia esso stesso una chimera, nel senso di un’ipotesi assurda, di un sogno vano. Si tratta infatti di una splendida confusione (ma sempre lucida), che corre più volte il rischio di essere troppo grande, di toccare troppi temi. Ma è bella così, nella sua assurdità che è atto poetico e politico, in nome di un cinema che pensa e che ri-pensa il cinema.