Fuori e dentro Monica Vitti,
recensione di Federico Mattioni
RV-34
20.10.2023
Le fanno male i capelli, a Monica. Forse perché se ne stanno attaccati lì alla testa, al contrario di tutti quei ricordi che se ne sono andati via, come volatilizzati nel tempo. Il ricordo del bel matrimonio con suo marito Edoardo, ad esempio. Un uomo premuroso e preoccupato per le condizioni di salute di sua moglie, afflitta, secondo il medico curante, dalla sindrome di Korsakoff. Se la memoria l’ha salutata, a dare il benvenuto nella sua nuova vita vi è la scoperta di Monica, l’attrice. Monica Vitti. La donna si immedesima talmente tanto nella sua vita, nei suoi tic, nelle sue mosse, copiandone le battute, da far sì che le sue innumerevoli vite sullo schermo prendano forma nella realtà, plasmandone l’esistenza. Da una parte la demenza, dall’altra una strana sindrome. Edoardo sta al gioco, nella speranza possa, prima o poi, rinsavire. Ma i giorni passano e l’immedesimazione prende corpo e forma in maniera sempre più aderente al vissuto stesso dell’attrice. Nel rapporto che la sceneggiatrice e regista Roberta Torre instaura tra la mente segnata della Monica ordinaria e quella stravolta della Monica straordinaria vi è un sottile filo biografico. Monica Vitti diceva di volerla perdere la memoria e in età avanzata si è trincerata dentro le spire di una malattia che le ha impedito di abbandonarsi a una vecchiaia vissuta quasi per intero dal di dentro della sua abitazione e nelle grigie mura di una clinica. Il titolo del film deriva da una frase che il personaggio di Giuliana pronuncia in Deserto rosso dell’ex compagno Michelangelo Antonioni. Sempre Monica, continuamente, a ogni passo o pensiero. Per ogni film una parrucca e un vestito confacenti. A ogni personaggio una nuova storiella da raccontare a se stessa, nel tentativo di dare ancora un senso alla quotidianità.
La Monica ordinaria ha le fattezze di Alba Rohrwacher, la quale riesce ad aderirvi senza tendere alla replica. Non vi è traccia di un’intenzionalità di racconto capace di fondere la cronistoria con la macchietta. Roberta Torre riesce a costruire una valida narrazione senza necessariamente ricorrere al linguaggio del documentario, cosa che forse avrebbe fatto un regista ordinario incapace di osare. Né tanto meno ha tentato la strada della commedia, del personaggio costruito ad hoc per farne un’imitazione, riproducendone in tutto le fattezze. Non si tratta questo del tradizionale tentativo di raccontare una donna secondo coloro che l’hanno più e meglio conosciuta. L’originalità del film sta tutta nel volersi smarcare da facili soluzioni, privilegiando invece un dialogo frazionato dalla perdita della memoria, dentro tanti rivoli atti a ricostruire il rapporto del privato con il pubblico, la filiazione con il divismo e la relazione con le immagini da decostruire, storicamente e privatamente - su questo frangente, il rapporto con Alberto Sordi acquisisce una chiave interessante ai fini conclusivi, tramutandosi in un dialogo aperto, franco e fraterno - nel tentativo di scovare un senso agli accadimenti privati. Edoardo tradisce o non tradisce Monica? Quanto del vissuto di Monica attrice è stato veramente assorbito dall’altra Monica? In tutte le sue debolezze e fragilità, il corpo di Monica Vitti diviene quello di Alba Rohrwacher. Edoardo è invece Filippo Timi, che sgomento tiene assieme i pezzi con caparbietà e ogni tanto ama perdersi nei ricordi, quelli piacevoli: filmini di famiglia, parti di un vissuto nella casa di fronte al mare di Sperlonga, baci e abbracci nel sottovuoto di lenzuola sommosse.
Mi fanno male i capelli è un film poetico e commovente, spiritoso e gentile nella maniera in cui accoglie entrambe le Moniche, capace di sperimentare senza slegarsi mai dalla linea di racconto prescelta, facendo sì che il ruolo delle immagini stesse, nella memoria della sua protagonista, si confonda con quello della loro natura interpretativa. Quale rapporto intercorre tra le immagini d’archivio e i ricordi di spettatrice e di donna? Immagini da far proprie davanti a uno specchio, nel bagno, sopra il letto, su di una spiaggia, e infine al cinema. Vita privata e dimensione pubblica. Nel cinema vuoto, all’interno del quale c’è polvere di stelle a non finire, Monica è l’unica star. Il suo ingresso nell’alveo crepuscolare della sala cinematografica ha una qualche strana eco delle dive smarrite di Sunset Boulevard, Veronika Voss e Opening Night. Ma è soltanto polvere di ricordi. Filtrano dubbi. Le immagini di Monica attrice che prima piange, poi ride e piange e poi ride ancora, si susseguono con sentita e partecipata sintonia: da La notte fino a Qui comincia l’avventura, passando per l’episodio del leone diretto da De Sica nel film a episodi Le Coppie. Trattasi di una constatazione affettiva, un ringraziamento che lascia un vuoto incolmabile. Lo testimoniano superbamente, a suggellare una intima presa di coscienza nei riguardi delle infinite potenzialità del cinema, nel rendere tangibile una straordinarietà, la fotografia di Stefano Salemme, il montaggio di Paola Freddi e la colonna sonora del maestro Shigeru Umebayashi. La sala vuota, sulle struggenti note finali, è fatta della loro polvere di stelle che si posa sulle poltrone e nel corridoio d’ingresso. Senza intaccare il grande schermo.
Fuori e dentro Monica Vitti,
recensione di Federico Mattioni
RV-34
20.10.2023
Le fanno male i capelli, a Monica. Forse perché se ne stanno attaccati lì alla testa, al contrario di tutti quei ricordi che se ne sono andati via, come volatilizzati nel tempo. Il ricordo del bel matrimonio con suo marito Edoardo, ad esempio. Un uomo premuroso e preoccupato per le condizioni di salute di sua moglie, afflitta, secondo il medico curante, dalla sindrome di Korsakoff. Se la memoria l’ha salutata, a dare il benvenuto nella sua nuova vita vi è la scoperta di Monica, l’attrice. Monica Vitti. La donna si immedesima talmente tanto nella sua vita, nei suoi tic, nelle sue mosse, copiandone le battute, da far sì che le sue innumerevoli vite sullo schermo prendano forma nella realtà, plasmandone l’esistenza. Da una parte la demenza, dall’altra una strana sindrome. Edoardo sta al gioco, nella speranza possa, prima o poi, rinsavire. Ma i giorni passano e l’immedesimazione prende corpo e forma in maniera sempre più aderente al vissuto stesso dell’attrice. Nel rapporto che la sceneggiatrice e regista Roberta Torre instaura tra la mente segnata della Monica ordinaria e quella stravolta della Monica straordinaria vi è un sottile filo biografico. Monica Vitti diceva di volerla perdere la memoria e in età avanzata si è trincerata dentro le spire di una malattia che le ha impedito di abbandonarsi a una vecchiaia vissuta quasi per intero dal di dentro della sua abitazione e nelle grigie mura di una clinica. Il titolo del film deriva da una frase che il personaggio di Giuliana pronuncia in Deserto rosso dell’ex compagno Michelangelo Antonioni. Sempre Monica, continuamente, a ogni passo o pensiero. Per ogni film una parrucca e un vestito confacenti. A ogni personaggio una nuova storiella da raccontare a se stessa, nel tentativo di dare ancora un senso alla quotidianità.
La Monica ordinaria ha le fattezze di Alba Rohrwacher, la quale riesce ad aderirvi senza tendere alla replica. Non vi è traccia di un’intenzionalità di racconto capace di fondere la cronistoria con la macchietta. Roberta Torre riesce a costruire una valida narrazione senza necessariamente ricorrere al linguaggio del documentario, cosa che forse avrebbe fatto un regista ordinario incapace di osare. Né tanto meno ha tentato la strada della commedia, del personaggio costruito ad hoc per farne un’imitazione, riproducendone in tutto le fattezze. Non si tratta questo del tradizionale tentativo di raccontare una donna secondo coloro che l’hanno più e meglio conosciuta. L’originalità del film sta tutta nel volersi smarcare da facili soluzioni, privilegiando invece un dialogo frazionato dalla perdita della memoria, dentro tanti rivoli atti a ricostruire il rapporto del privato con il pubblico, la filiazione con il divismo e la relazione con le immagini da decostruire, storicamente e privatamente - su questo frangente, il rapporto con Alberto Sordi acquisisce una chiave interessante ai fini conclusivi, tramutandosi in un dialogo aperto, franco e fraterno - nel tentativo di scovare un senso agli accadimenti privati. Edoardo tradisce o non tradisce Monica? Quanto del vissuto di Monica attrice è stato veramente assorbito dall’altra Monica? In tutte le sue debolezze e fragilità, il corpo di Monica Vitti diviene quello di Alba Rohrwacher. Edoardo è invece Filippo Timi, che sgomento tiene assieme i pezzi con caparbietà e ogni tanto ama perdersi nei ricordi, quelli piacevoli: filmini di famiglia, parti di un vissuto nella casa di fronte al mare di Sperlonga, baci e abbracci nel sottovuoto di lenzuola sommosse.
Mi fanno male i capelli è un film poetico e commovente, spiritoso e gentile nella maniera in cui accoglie entrambe le Moniche, capace di sperimentare senza slegarsi mai dalla linea di racconto prescelta, facendo sì che il ruolo delle immagini stesse, nella memoria della sua protagonista, si confonda con quello della loro natura interpretativa. Quale rapporto intercorre tra le immagini d’archivio e i ricordi di spettatrice e di donna? Immagini da far proprie davanti a uno specchio, nel bagno, sopra il letto, su di una spiaggia, e infine al cinema. Vita privata e dimensione pubblica. Nel cinema vuoto, all’interno del quale c’è polvere di stelle a non finire, Monica è l’unica star. Il suo ingresso nell’alveo crepuscolare della sala cinematografica ha una qualche strana eco delle dive smarrite di Sunset Boulevard, Veronika Voss e Opening Night. Ma è soltanto polvere di ricordi. Filtrano dubbi. Le immagini di Monica attrice che prima piange, poi ride e piange e poi ride ancora, si susseguono con sentita e partecipata sintonia: da La notte fino a Qui comincia l’avventura, passando per l’episodio del leone diretto da De Sica nel film a episodi Le Coppie. Trattasi di una constatazione affettiva, un ringraziamento che lascia un vuoto incolmabile. Lo testimoniano superbamente, a suggellare una intima presa di coscienza nei riguardi delle infinite potenzialità del cinema, nel rendere tangibile una straordinarietà, la fotografia di Stefano Salemme, il montaggio di Paola Freddi e la colonna sonora del maestro Shigeru Umebayashi. La sala vuota, sulle struggenti note finali, è fatta della loro polvere di stelle che si posa sulle poltrone e nel corridoio d’ingresso. Senza intaccare il grande schermo.