Il labirinto dei ricordi
recensione di Matteo Burburan
RV-111
04.07.2025
La coppia di registi belgi Hélène Cattet e Bruno Forzani torna nuovamente a riflettere sull’eredità del cinema di genere degli anni Sessanta e Settanta con il luccicante Reflection in a Dead Diamond, presentato in concorso alla Berlinale 2025. Dopo Amer (2010), L’étrange coleur des larmes sur ton corps (2013) e Laissez bronzer le cadavres (2017) - che avevano affrontato il genere giallo con un piglio decisamente post-moderno - la stessa modalità decostruttiva viene trasportata su una spy-story che si situa tra James Bond e Diabolik. Operazioni simili non sono mancate sicuramente negli ultimi anni, basti pensare alla fortunata saga dei tre film OSS 117 (2009-2021) di Michel Hazanavicius. La comunanza con questa, tuttavia, risulta essere solo tematica, in quanto l’opera di Cattet e Forzani si distanzia totalmente dal tono parodico che caratterizza i film interpretati dal bonario Jean Dujardin.
L’ambientazione è quella topica della Costa Azzurra, di cui però non vediamo il caos mondano di Montecarlo o di Nizza, bensì un isolato hotel, luogo del ritiro di John D. (interpretato da Fabio Testi, non a caso iconico interprete del cinema di genere italiano), ex agente segreto che ama trangugiare un Martini dopo l’altro. La sua è una vita vissuta nei ricordi del passato, e l’incipit, costruito su raccordi di sguardo e chiaramente ispirato a Morte a Venezia (1971), ne è un chiaro segnale. Se però il Tadzio del film di Visconti simboleggiava una sorta di trascendenza divina, l’oggetto dello sguardo stanco di John D - ovvero una sensuale donna vestita di rosso - si disintegra nella concretezza risultando una semplice proiezione della sua fantasia e dei suoi desideri di ritorno nostalgico alla vita (probabilmente solo recitata) da agente segreto. Proprio questo suo modo continuo di percepire la realtà tramite proiezioni sconnesse e simulacri del passato risulta essere l'epicentro della pellicola.
Il piano temporale del presente di John D. - dove la sua vicina di stanza scompare improvvisamente senza lasciare traccia e un furto di diamanti gli permetterebbe di pagare la stanza dell'hotel - si confonde con quello dei ricordi di una vita vissuta nella pienezza e nella sovreccitazione del suo ruolo nell’intelligence. Ma, venendo progressivamente a conoscenza dell'inautenticità di questo stesso ruolo, interpretato solamente in qualità di attore in una saga cinematografica intitolata Serpentik, anche il passato del protagonista risulta essere una costruzione mentale determinata dalla confusione tra personaggio-realtà e personaggio-finzione. Si aggiunge, così, una dimensione meta-cinematografica, con echi classici che rimandano al teatro nel teatro pirandelliano.
Quello che ne risulta è dunque un terrificante incubo di demenza senile, che, curiosamente si avvicina molto a Oh Canada (2024) di Paul Schrader, attraverso la metodologia con cui entrambe le opere fondono piani temporali e narrativi differenti servendosi di un personaggio-narratore inaffidabile e imprigionato in una condizione di perenne auto-inganno.
Un ruolo essenziale per raggiungere questa resa cinematografica viene giocato dal caleidoscopico montaggio. È infatti proprio nel sopraffino lavoro di Bernard Beets che Cattet e Forzani riescono ad imprimere una potente transmedialità alla narrazione, in quanto l'editing è spesso fumettistico, proprio per rimandare al fatto che Serpentik è, in primis, un fumetto fittizio - in questo senso molte sono le "ispirazioni" scaturite da Kill Bill (2003-2004) - e per alludere alla confusione mentale di John D. Gli scintillii dei diamanti e i riflessi delle onde del mare (enfatizzati dagli abbagli della pellicola in 16mm) rappresentano un mezzo di espressione, oltre che di montaggio, della molteplicità temporale in cui il protagonista rimane invischiato.
Il labirinto dei ricordi
recensione di Matteo Burburan
RV-111
04.07.2025
La coppia di registi belgi Hélène Cattet e Bruno Forzani torna nuovamente a riflettere sull’eredità del cinema di genere degli anni Sessanta e Settanta con il luccicante Reflection in a Dead Diamond, presentato in concorso alla Berlinale 2025. Dopo Amer (2010), L’étrange coleur des larmes sur ton corps (2013) e Laissez bronzer le cadavres (2017) - che avevano affrontato il genere giallo con un piglio decisamente post-moderno - la stessa modalità decostruttiva viene trasportata su una spy-story che si situa tra James Bond e Diabolik. Operazioni simili non sono mancate sicuramente negli ultimi anni, basti pensare alla fortunata saga dei tre film OSS 117 (2009-2021) di Michel Hazanavicius. La comunanza con questa, tuttavia, risulta essere solo tematica, in quanto l’opera di Cattet e Forzani si distanzia totalmente dal tono parodico che caratterizza i film interpretati dal bonario Jean Dujardin.
L’ambientazione è quella topica della Costa Azzurra, di cui però non vediamo il caos mondano di Montecarlo o di Nizza, bensì un isolato hotel, luogo del ritiro di John D. (interpretato da Fabio Testi, non a caso iconico interprete del cinema di genere italiano), ex agente segreto che ama trangugiare un Martini dopo l’altro. La sua è una vita vissuta nei ricordi del passato, e l’incipit, costruito su raccordi di sguardo e chiaramente ispirato a Morte a Venezia (1971), ne è un chiaro segnale. Se però il Tadzio del film di Visconti simboleggiava una sorta di trascendenza divina, l’oggetto dello sguardo stanco di John D - ovvero una sensuale donna vestita di rosso - si disintegra nella concretezza risultando una semplice proiezione della sua fantasia e dei suoi desideri di ritorno nostalgico alla vita (probabilmente solo recitata) da agente segreto. Proprio questo suo modo continuo di percepire la realtà tramite proiezioni sconnesse e simulacri del passato risulta essere l'epicentro della pellicola.
Il piano temporale del presente di John D. - dove la sua vicina di stanza scompare improvvisamente senza lasciare traccia e un furto di diamanti gli permetterebbe di pagare la stanza dell'hotel - si confonde con quello dei ricordi di una vita vissuta nella pienezza e nella sovreccitazione del suo ruolo nell’intelligence. Ma, venendo progressivamente a conoscenza dell'inautenticità di questo stesso ruolo, interpretato solamente in qualità di attore in una saga cinematografica intitolata Serpentik, anche il passato del protagonista risulta essere una costruzione mentale determinata dalla confusione tra personaggio-realtà e personaggio-finzione. Si aggiunge, così, una dimensione meta-cinematografica, con echi classici che rimandano al teatro nel teatro pirandelliano.
Quello che ne risulta è dunque un terrificante incubo di demenza senile, che, curiosamente si avvicina molto a Oh Canada (2024) di Paul Schrader, attraverso la metodologia con cui entrambe le opere fondono piani temporali e narrativi differenti servendosi di un personaggio-narratore inaffidabile e imprigionato in una condizione di perenne auto-inganno.
Un ruolo essenziale per raggiungere questa resa cinematografica viene giocato dal caleidoscopico montaggio. È infatti proprio nel sopraffino lavoro di Bernard Beets che Cattet e Forzani riescono ad imprimere una potente transmedialità alla narrazione, in quanto l'editing è spesso fumettistico, proprio per rimandare al fatto che Serpentik è, in primis, un fumetto fittizio - in questo senso molte sono le "ispirazioni" scaturite da Kill Bill (2003-2004) - e per alludere alla confusione mentale di John D. Gli scintillii dei diamanti e i riflessi delle onde del mare (enfatizzati dagli abbagli della pellicola in 16mm) rappresentano un mezzo di espressione, oltre che di montaggio, della molteplicità temporale in cui il protagonista rimane invischiato.