Un'opera prima di resistenza e abbandono,
recensione di Nicolò Bellon
RV-29
21.09.2023
Che rumore fa la noia? Forse è il ronzio di un phon, acceso in bagno per coprire i gemiti del sesso. Due ragazzi mezzi nudi, appoggiati al bordo della vasca, la lavatrice che gira, e rigira, e riempie la stanza, il corridoio, ogni angolo della casa, col suo incessante centrifugare. È forte, sempre più forte. E intanto i giovani fanno l’amore, raggiungono l’orgasmo, lo nascondono dentro lo spiffero del phon.
Che forma ha il vuoto? Forse è lo scatto di una luce verde nella notte, un UFO, non può che essere un alieno venuto a far visita. Ma è uno scatto che nessuno vede, perché il cellulare è scarico, si è spento. E ormai è l’alba, la festa è finita, del falò non rimane che cenere, e i fuochi d’artificio sono morti nell’acqua del litorale laziale. C’è chi dorme, chi beve, chi fuma, chi ha perso una scarpa e deve andare al lavoro.
Dalla giovinezza non si può che uscire crescendo. Ci si annoia, ci si perde, si viaggia o si resta fermi, ci si innamora. Qualcuno muore, altri vengono al mondo. Nella giovinezza, che è una domenica sterminata, portata in scena da Alain Parroni nella sua opera prima, succede tutto e non succede niente. Perché ai giovani capita così. Alex (Enrico Bassetti), Brenda (Federica Valetini) e Kevin (Zackari Delmas) non hanno ancora vent’anni. Lei ha una nonna che cura il malocchio, un bambino che le cresce in pancia e trecce bionde da innocente. Fuma e prega. Alex dovrebbe essere il padre del bambino o della bambina che nascerà. Ha una macchina a cui si buca una ruota quando provano a scappare (perché questo è un road movie dove non ci si sposta mai) e dovrebbe crescere, trovarsi un lavoro. Aiuta un pastore con le pecore. Corre in moto. Lotta contro Dio, contro il mondo. Kevin strepita, allarga gli occhi, striscia, lecca un finestrino alla ricerca di un bacio e poi bacia tutte le statue di Roma lasciandoci sopra impresso uno stampo di rossetto rosso. Kevin ruba. Kevin scrive il suo nome al contrario su ogni superficie che trova.
A un certo punto di questa storia, quando un amico rivelerà all’altro che sta per diventare padre, uno dei due chiede: “Cosa vuoi fare da grande?” e l’altro risponde: “L’addestratore di Pokemon”. L’uno e l’altro sono ruoli variabili, perché quello che viene detto potrebbe esserlo da Kevin o da Alex e nulla cambierebbe. Il cielo è blu, più scuro dell’azzurro che dovrebbe essere in pieno giorno. I ragazzi sono su un ponte che passa sopra la tangenziale. Si abbracciano, poi si allontanano.
Cosa vuoi fare da grande quando il sistema in cui ti muovi è periferico, rovente e desolato? I protagonisti di Una sterminata domenica sembrano alla ricerca di qualcosa che non sanno di voler trovare, che nemmeno pensano di star cercando, e intanto girano intorno, si muovono senza spostarsi mai. Scappano dalla periferia al centro, si cercano, si lasciano, si ritrovano per caso e per scelta. Mentre attorno a loro, il mondo accade.
Prendi un personaggio, ponilo all’interno di un sistema chiuso, osservalo diventare uomo. È forse la favola più vecchia del mondo, il racconto contro cui ogni autore prima o poi si scontra, forse il nodo che prova a sciogliere per tutta la vita. La storia contro cui inesorabilmente si schianta, perché quella storia è la vita, e la vita si vive e non si dice. Nel racconto va a romanzarsi, perde di credibilità anche quando piegata al realismo. La vita si ribella, si muove libera. Alla storia non resiste. E Alain Parroni sembra averlo capito. Lascia che la storia piccola dei tre protagonisti scorra sghemba, non la comanda. Sa che lo strumento del regista è altro, e con quello si diverte e lotta.
Una sterminata domenica è un’opera di resistenza e abbandono. Parroni costringe un racconto da nulla alle cornici di uno sguardo che sa come e cosa guardare, ora la riempie e ora la svuota, la soffoca tra luci e ombre, l’assorda con il suono. La ribalta e la restituisce. La vita accade ed è inarrestabile, ma lo sguardo di Parroni è inamovibile. È lo sguardo di chi solo nelle forme del cinema prova a trovare un senso, o almeno a cercarlo, a ciò che senso pare non averne. Parroni spinge, accelera, frena, alza il volume, poi inchioda, stringe a forza, poi stramazza, quasi a voler ricavare dalla materia che maneggia almeno una goccia di sangue, una soltanto, che possa spiegargli il perché di tutta l’indolenza, dello strazio, della noia. Della vita.
Una sterminata domenica è un film che cerca di riempire il vuoto. Ma quello sguscia, avanza, s’allarga. Così è fatta la vita. Si può abbellirla, renderla nostra soltanto, piegarla a regole, visioni, suoni. Che si provi anche solo per un attimo. Ma si accetti, poi, l’inesorabile ritorno al vuoto. Perché quel che accade in giovinezza non si può spiegare mai. Una sterminata domenica presenta tutti i limiti e i punti di forza di un’opera prima riuscitissima. È citazionista, anche quando non vuole esserlo, perché nutrita dall’immaginario di un ragazzo che il cinema lo conosce, l’ha guardato, l’ha amato, l’ha piegato al suo vivere, e ora lo restituisce dopo averlo sognato, masticato, digerito. È prolissa, piena d’inutilità che ora entusiasmano ora annoiano, segno di chi un racconto ce l’ha dentro da tempo, lo fa crescere fino all’implosione, e poi lo libera urlando. È libera. È storta, e dolce come un sogno, e feroce come il mondo quando ci si sveglia.
È stata presentata nella sezione “Orizzonti” dell’80esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, vincendo il Premio speciale della giuria. È prodotta, tra gli altri, da Wim Wenders. L’opera prima di Alain Parroni è tenera e prepotente. A film concluso, mentre le luci si accendono in sala, Una sterminata domenica fa pensare che sia nato un autore.
Un'opera prima di resistenza e abbandono,
recensione di Nicolò Bellon
RV-29
21.09.2023
Che rumore fa la noia? Forse è il ronzio di un phon, acceso in bagno per coprire i gemiti del sesso. Due ragazzi mezzi nudi, appoggiati al bordo della vasca, la lavatrice che gira, e rigira, e riempie la stanza, il corridoio, ogni angolo della casa, col suo incessante centrifugare. È forte, sempre più forte. E intanto i giovani fanno l’amore, raggiungono l’orgasmo, lo nascondono dentro lo spiffero del phon.
Che forma ha il vuoto? Forse è lo scatto di una luce verde nella notte, un UFO, non può che essere un alieno venuto a far visita. Ma è uno scatto che nessuno vede, perché il cellulare è scarico, si è spento. E ormai è l’alba, la festa è finita, del falò non rimane che cenere, e i fuochi d’artificio sono morti nell’acqua del litorale laziale. C’è chi dorme, chi beve, chi fuma, chi ha perso una scarpa e deve andare al lavoro.
Dalla giovinezza non si può che uscire crescendo. Ci si annoia, ci si perde, si viaggia o si resta fermi, ci si innamora. Qualcuno muore, altri vengono al mondo. Nella giovinezza, che è una domenica sterminata, portata in scena da Alain Parroni nella sua opera prima, succede tutto e non succede niente. Perché ai giovani capita così. Alex (Enrico Bassetti), Brenda (Federica Valetini) e Kevin (Zackari Delmas) non hanno ancora vent’anni. Lei ha una nonna che cura il malocchio, un bambino che le cresce in pancia e trecce bionde da innocente. Fuma e prega. Alex dovrebbe essere il padre del bambino o della bambina che nascerà. Ha una macchina a cui si buca una ruota quando provano a scappare (perché questo è un road movie dove non ci si sposta mai) e dovrebbe crescere, trovarsi un lavoro. Aiuta un pastore con le pecore. Corre in moto. Lotta contro Dio, contro il mondo. Kevin strepita, allarga gli occhi, striscia, lecca un finestrino alla ricerca di un bacio e poi bacia tutte le statue di Roma lasciandoci sopra impresso uno stampo di rossetto rosso. Kevin ruba. Kevin scrive il suo nome al contrario su ogni superficie che trova.
A un certo punto di questa storia, quando un amico rivelerà all’altro che sta per diventare padre, uno dei due chiede: “Cosa vuoi fare da grande?” e l’altro risponde: “L’addestratore di Pokemon”. L’uno e l’altro sono ruoli variabili, perché quello che viene detto potrebbe esserlo da Kevin o da Alex e nulla cambierebbe. Il cielo è blu, più scuro dell’azzurro che dovrebbe essere in pieno giorno. I ragazzi sono su un ponte che passa sopra la tangenziale. Si abbracciano, poi si allontanano.
Cosa vuoi fare da grande quando il sistema in cui ti muovi è periferico, rovente e desolato? I protagonisti di Una sterminata domenica sembrano alla ricerca di qualcosa che non sanno di voler trovare, che nemmeno pensano di star cercando, e intanto girano intorno, si muovono senza spostarsi mai. Scappano dalla periferia al centro, si cercano, si lasciano, si ritrovano per caso e per scelta. Mentre attorno a loro, il mondo accade.
Prendi un personaggio, ponilo all’interno di un sistema chiuso, osservalo diventare uomo. È forse la favola più vecchia del mondo, il racconto contro cui ogni autore prima o poi si scontra, forse il nodo che prova a sciogliere per tutta la vita. La storia contro cui inesorabilmente si schianta, perché quella storia è la vita, e la vita si vive e non si dice. Nel racconto va a romanzarsi, perde di credibilità anche quando piegata al realismo. La vita si ribella, si muove libera. Alla storia non resiste. E Alain Parroni sembra averlo capito. Lascia che la storia piccola dei tre protagonisti scorra sghemba, non la comanda. Sa che lo strumento del regista è altro, e con quello si diverte e lotta.
Una sterminata domenica è un’opera di resistenza e abbandono. Parroni costringe un racconto da nulla alle cornici di uno sguardo che sa come e cosa guardare, ora la riempie e ora la svuota, la soffoca tra luci e ombre, l’assorda con il suono. La ribalta e la restituisce. La vita accade ed è inarrestabile, ma lo sguardo di Parroni è inamovibile. È lo sguardo di chi solo nelle forme del cinema prova a trovare un senso, o almeno a cercarlo, a ciò che senso pare non averne. Parroni spinge, accelera, frena, alza il volume, poi inchioda, stringe a forza, poi stramazza, quasi a voler ricavare dalla materia che maneggia almeno una goccia di sangue, una soltanto, che possa spiegargli il perché di tutta l’indolenza, dello strazio, della noia. Della vita.
Una sterminata domenica è un film che cerca di riempire il vuoto. Ma quello sguscia, avanza, s’allarga. Così è fatta la vita. Si può abbellirla, renderla nostra soltanto, piegarla a regole, visioni, suoni. Che si provi anche solo per un attimo. Ma si accetti, poi, l’inesorabile ritorno al vuoto. Perché quel che accade in giovinezza non si può spiegare mai. Una sterminata domenica presenta tutti i limiti e i punti di forza di un’opera prima riuscitissima. È citazionista, anche quando non vuole esserlo, perché nutrita dall’immaginario di un ragazzo che il cinema lo conosce, l’ha guardato, l’ha amato, l’ha piegato al suo vivere, e ora lo restituisce dopo averlo sognato, masticato, digerito. È prolissa, piena d’inutilità che ora entusiasmano ora annoiano, segno di chi un racconto ce l’ha dentro da tempo, lo fa crescere fino all’implosione, e poi lo libera urlando. È libera. È storta, e dolce come un sogno, e feroce come il mondo quando ci si sveglia.
È stata presentata nella sezione “Orizzonti” dell’80esima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, vincendo il Premio speciale della giuria. È prodotta, tra gli altri, da Wim Wenders. L’opera prima di Alain Parroni è tenera e prepotente. A film concluso, mentre le luci si accendono in sala, Una sterminata domenica fa pensare che sia nato un autore.