NC-165
16.09.2023
Introdotta da un breve testo di Anthony Hopkins, è da poco uscita in libreria per La Nave di Teseo l’autobiografia di Dante Spinotti, Il sogno del cinema. La mia vita, un film alla volta. Raggiunto il traguardo degli ottant’anni e, fresco del Pardo d’Oro alla carriera che il Festival di Locarno gli ha tributato alla sua penultima edizione, Spinotti racconta, in collaborazione con Nicola Lucchi, il suo variegato percorso di vita e di carriera. Tra i grandi direttori della fotografia della storia del cinema italiano, soltanto Vittorio Storaro ha dato alle stampe libri paragonabili a questo: tuttavia, se Storaro portava al parossismo una ricerca quasi mistica, goethiana-junghiana, del significato profondo della luce e dei colori, in una serie di libri tuttora in corso di pubblicazione, l’autobiografia di Spinotti si caratterizza per una grande colloquialità, una forte scorrevolezza, quasi un’affettazione nel trattare sbrigativamente le componenti tecnico-artistiche della fotografia cinematografica.
Candidato due volte all’Oscar a cavallo tra i due millenni, per L.A. Confidential e per Insider, Dante Spinotti ha avuto un percorso particolarmente lungo prima di approdare alla fotografia per il grande schermo, e particolarmente breve prima di compiere il fatidico passaggio dal cinema italiano a quello hollywoodiano. Tra le pagine più interessanti de Il sogno del cinema c’è sicuramente la rievocazione del suo apprendistato presso uno zio operatore, che svolgeva attività documentaristiche e cinematografiche in Kenya, a quei tempi ancora sotto il dominio britannico, per le committenze più varie: appena arrivato sul posto, reduce da un fallimento scolastico che aveva indotto la sua famiglia a prendere questa decisione drastica, il giovane Dante si ritrovò assieme allo zio a documentare, per la stampa internazionale, un evento che si rivelò cruciale nella storia della nazione africana, il rilascio del suo futuro primo presidente Jomo Kenyatta.
A seguito di un contrasto con lo zio Spinotti rientrò in Italia e, dopo una serie di lavori come collaboratore esterno e qualche altra esperienza più indipendente, riuscì ad ottenere l’allora agognatissimo posto fisso alla RAI come capo operatore.“In RAI era previsto il licenziamento solo se si compivano gesti da codice penale”, ricorda Spinotti nel libro, “per questo tutto era possibile, senza sentirsi legati a canoni tecnici o a una specifica grammatica. L’idea di spingere la sensibilità della pellicola fino ai suoi limiti oggi può sembrare banale, ma allora si trattava di sviluppare un oggetto fisico affinché diventasse più sensibile. Così sensibile da cambiare la struttura stessa di un’immagine notturna. Significava rischiare”.
Già nello stesso periodo dell’inizio dei primi lavori da freelance con la RAI, Spinotti aveva conosciuto un regista con cui anni dopo avrebbe stretto uno dei suoi più importanti sodalizi: Ermanno Olmi, all’epoca poco più che esordiente. Lavorando di giorno mentre nottetempo girava l’opera prima di Alberto Cavallone, Lontano dagli occhi, Spinotti si trovò ad affiancare Ermanno Olmi nella realizzazione delle sequenze di prova di un film poi mai realizzato su Giovanni XXIII, il papa che aveva promosso il Concilio Vaticano II. “Ermanno aveva solo una macchina da presa e io ero il suo unico assistente”, ricorda Spinotti nell’autobiografia, “furono due settimane insonni, ma ricche di esperienze, nuove amicizie e grandi scoperte. Lavoravo con un maestro della semplicità. Una persona in grado di scoprire e mostrare la poesia dei piccoli gesti e dei sentimenti con un uso del linguaggio cinematografico saggio e minimalista”. Venticinque anni dopo, Spinotti sarebbe stato al fianco di Olmi per la fotografia de La leggenda del santo bevitore, adattamento dell’omonimo racconto di Joseph Roth interpretato da Rutger Hauer, vincitore del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1988.
Dopo molti sceneggiati e documentari, Spinotti si licenziò dalla RAI nei primi anni ottanta. Il suo primo film per il cinema fu Il minestrone di Sergio Citti, seguirono presto collaborazioni con Salvatore Samperi, Liliana Cavani, Lina Wertmüller, Luciano De Crescenzo e l'allora esordiente Gabriele Salvatores. Ma a metà degli anni ottanta, il produttore Dino De Laurentiis, a cui Spinotti era stato segnalato dall’organizzatore di Interno Berlinese della Cavani, lo chiamò a fare i suoi primi film in America, non a Hollywood ma nel North Caroline, dove regole sindacali meno rigorose permettevano a De Laurentiis di fare film con budget più modesti e maestranze in parte italiane. Spinotti rievoca così la conversazione avuta con il leggendario produttore: “sto per produrre il film di un regista emergente. Ne ha già diretti un paio, ma credo che con questo possa fare la differenza. È un tuo coetaneo, sono sicuro che ti piacerà. Si chiama Michael Mann”.
Manhunter – Frammenti di un omicidio del 1986, prima apparizione sul grande schermo di Hannibal Lecter, segnò l’inizio della collaborazione tra Mann e Spinotti. Per il loro primo film insieme Mann consegnò come reference al suo direttore della fotografia il quadro L’impero delle luci di René Magritte e la sua stessa opera prima come regista, Strade violente. “L’idea di Mann era che se il male avesse avuto un colore, quello sarebbe stato il verde”, rievoca Spinotti. “La cosa era curiosa, ma allo stesso tempo preoccupante, poiché il verde, con le pellicole fotochimiche della Kodak, era tra i colori più difficili da realizzare”. Andando avanti nei provini, anche Spinotti introduceva la sua visione sul simbolismo dei colori, soffermandosi in particolare sul blu come colore dell’amore. “È per questo che in Manhunter esistono due colori dominanti: il verde per ogni scena di pericolo nella quale aleggia la presenza di Dollarhyde, e il blu per ogni scena di intimità tra il detective protagonista e sua moglie”.
Nonostante la difficile gestazione del film, accompagnata da contrasti tra Mann e De Laurentiis e da una vera e propria ribellione della troupe quando il regista decise di caricare le armi con proiettili veri per la sequenza finale, Manhunter fu un successo che lanciò la carriera hollywoodiana tanto del regista quanto del direttore della fotografia. La loro collaborazione successiva, L’ultimo dei Mohicani (1992), fu ancora più fortunata, e la fotografia, ispirata ai paesaggi di Friedrich, dell’Hudson River School e di Andrew Wyeth, fruttò a Spinotti la sua prima candidatura ai BAFTA.
Terzo capitolo del sodalizio con Mann fu invece Heat – La sfida, del 1995, il primo film in cui Robert De Niro e Al Pacino recitavano insieme, giudicato da Spinotti il suo film migliore; in questo caso, furono le opere della fotografa Nan Golding ad essere indicate da Mann a Spinotti come reference per la palette visiva del film. In Heat, la luce assume un ruolo particolarmente importante, dato che nella leggendaria sequenza finale è proprio grazie all’accensione ritmica delle luci dell’aeroporto che uno dei due protagonisti riesce a individuare le ombre dell’altro, uccidendolo dopo una reciproca caccia all’uomo durata l’intero film.
The Insider (1999), con Al Pacino e Russell Crowe, “un film complesso, articolato, per certi versi pericoloso”, fu la successiva collaborazione tra Spinotti e Mann, che lo spinse ad adottare uno stile di ripresa da “falso cinema verità”. Al quarto film insieme, Mann e Spinotti si spinsero ad adottare soluzioni sempre più sperimentali: quasi tutte le inquadrature erano con la camera a spalla o al limite con lo steadycam; “le poche volte che usavamo un cavalletto o un carrello Michael voleva che alla testata fosse appoggiato un sacco di sabbia, così che anche in quel caso le immagini risultassero instabili”. Per enfatizzare ulteriormente il carattere inquietante della narrazione, Mann e Spinotti concepirono delle inquadrature dal punto di vista del protagonista Russel Crowe che ribattezzarono inner shots: solo grazie all’utilizzo particolare di una Frazier Lens della Panavision, e illuminando pesantemente l’inquadratura, Spinotti riusciva a mettere a fuoco sia la montatura degli occhiali del protagonista che il contenuto della scena stessa. La collaborazione con Michael Mann si concluse poi con un quinto film insieme, Nemico Pubblico: senza rotture sul piano personale, nel libro Spinotti scrive candidamente che l’eccessiva e crescente volontà di controllo di Mann su tutti gli elementi del film, fotografia inclusa, li fece propendere per separare le loro strade.
Oltre a quella con Mann, che pure, per sua stessa ammissione, fu la più importante della sua carriera, e a quella con Ermanno Olmi e gli altri registi italiani prima citati, Dante Spinotti ha collaborato per periodi più o meno lunghi con svariati altri registi su entrambe le sponde dell’Atlantico, e a gran parte di loro dedica un ricordo ne Il sogno del cinema: nomi come Roberto Benigni, Giuseppe Tornatore, Garry Marshall, Barry Levinson, Paul Schrader, Michael Apted, Anthony Hopkins e Barbara Streisand nella doppia veste di attrice e registi, e anche Peyton Reed con il suo Ant-Man and the Wasp di casa Marvel si susseguono tra le pagine dell’autobiografia. Più che per i singoli aneddoti sulle collaborazioni con tutti loro, e più che sulle riflessioni forse fin troppo rapide sul passaggio dalla pellicola al digitale di cui Spinotti è stato uno degli alfieri, Il sogno del cinema resta impresso anche per la schiettezza con cui si racconta il periodo del #MeToo: sul finire del libro, dopo aver raccontato le loro variegate esperienze assieme su film come Red Dragon, X-Men ed Hercules, Spinotti si sofferma sullo shock provato quando il regista Brett Ratner si trovò ad essere accusato da ben sette diverse donne di stupro e di violenze. In maniera piuttosto equilibrata, Spinotti riconosce che “quel che conta è evidentemente ciò che non ho mai visto”, ma ribadisce di ritenere ingiusto il trattamento ricevuto dal regista, la cui carriera fu del tutto cancellata a causa dello scandalo.
Il sogno del cinema si conclude con alcune anticipazioni su The Alto Knights (o Wise Guys), nuovo, atteso, film del regista di Rain Man Barry Levinson dove Robert De Niro interpreta due diversi boss mafiosi degli anni cinquanta, Vito Genovese e Frank Costello. E se il racconto autobiografico di Spinotti aveva esordito dicendo che “i ragazzi della mia generazione conoscono la vera magia del cinema: le grandi divinità d’oltreoceano, la patina di fumo che separa lo sguardo dallo schermo, e le pellicole di cui si parlava per mesi – tutto questo non c’è più”, la passione e l’inventiva con cui si è impegnato nel progetto, rinnovando il suo codice fotografico di solito più aderente al realismo, dimostrano che a suo modo Spinotti è ancora addentro a un sogno che lui stesso contribuisce a generare. Cavalcata nei ricordi e negli aneddoti più che nei principi astratti o teorici, Il sogno del cinema è un’importante testimonianza impreziosita dalla prospettiva quasi apolide con cui uno dei più grandi professionisti del cinema ha potuto guardare indietro alla sua carriera e ai molti mondi attraversati.
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16.09.2023
Introdotta da un breve testo di Anthony Hopkins, è da poco uscita in libreria per La Nave di Teseo l’autobiografia di Dante Spinotti, Il sogno del cinema. La mia vita, un film alla volta. Raggiunto il traguardo degli ottant’anni e, fresco del Pardo d’Oro alla carriera che il Festival di Locarno gli ha tributato alla sua penultima edizione, Spinotti racconta, in collaborazione con Nicola Lucchi, il suo variegato percorso di vita e di carriera. Tra i grandi direttori della fotografia della storia del cinema italiano, soltanto Vittorio Storaro ha dato alle stampe libri paragonabili a questo: tuttavia, se Storaro portava al parossismo una ricerca quasi mistica, goethiana-junghiana, del significato profondo della luce e dei colori, in una serie di libri tuttora in corso di pubblicazione, l’autobiografia di Spinotti si caratterizza per una grande colloquialità, una forte scorrevolezza, quasi un’affettazione nel trattare sbrigativamente le componenti tecnico-artistiche della fotografia cinematografica.
Candidato due volte all’Oscar a cavallo tra i due millenni, per L.A. Confidential e per Insider, Dante Spinotti ha avuto un percorso particolarmente lungo prima di approdare alla fotografia per il grande schermo, e particolarmente breve prima di compiere il fatidico passaggio dal cinema italiano a quello hollywoodiano. Tra le pagine più interessanti de Il sogno del cinema c’è sicuramente la rievocazione del suo apprendistato presso uno zio operatore, che svolgeva attività documentaristiche e cinematografiche in Kenya, a quei tempi ancora sotto il dominio britannico, per le committenze più varie: appena arrivato sul posto, reduce da un fallimento scolastico che aveva indotto la sua famiglia a prendere questa decisione drastica, il giovane Dante si ritrovò assieme allo zio a documentare, per la stampa internazionale, un evento che si rivelò cruciale nella storia della nazione africana, il rilascio del suo futuro primo presidente Jomo Kenyatta.
A seguito di un contrasto con lo zio Spinotti rientrò in Italia e, dopo una serie di lavori come collaboratore esterno e qualche altra esperienza più indipendente, riuscì ad ottenere l’allora agognatissimo posto fisso alla RAI come capo operatore.“In RAI era previsto il licenziamento solo se si compivano gesti da codice penale”, ricorda Spinotti nel libro, “per questo tutto era possibile, senza sentirsi legati a canoni tecnici o a una specifica grammatica. L’idea di spingere la sensibilità della pellicola fino ai suoi limiti oggi può sembrare banale, ma allora si trattava di sviluppare un oggetto fisico affinché diventasse più sensibile. Così sensibile da cambiare la struttura stessa di un’immagine notturna. Significava rischiare”.
Già nello stesso periodo dell’inizio dei primi lavori da freelance con la RAI, Spinotti aveva conosciuto un regista con cui anni dopo avrebbe stretto uno dei suoi più importanti sodalizi: Ermanno Olmi, all’epoca poco più che esordiente. Lavorando di giorno mentre nottetempo girava l’opera prima di Alberto Cavallone, Lontano dagli occhi, Spinotti si trovò ad affiancare Ermanno Olmi nella realizzazione delle sequenze di prova di un film poi mai realizzato su Giovanni XXIII, il papa che aveva promosso il Concilio Vaticano II. “Ermanno aveva solo una macchina da presa e io ero il suo unico assistente”, ricorda Spinotti nell’autobiografia, “furono due settimane insonni, ma ricche di esperienze, nuove amicizie e grandi scoperte. Lavoravo con un maestro della semplicità. Una persona in grado di scoprire e mostrare la poesia dei piccoli gesti e dei sentimenti con un uso del linguaggio cinematografico saggio e minimalista”. Venticinque anni dopo, Spinotti sarebbe stato al fianco di Olmi per la fotografia de La leggenda del santo bevitore, adattamento dell’omonimo racconto di Joseph Roth interpretato da Rutger Hauer, vincitore del Leone d’Oro alla Mostra del Cinema di Venezia nel 1988.
Dopo molti sceneggiati e documentari, Spinotti si licenziò dalla RAI nei primi anni ottanta. Il suo primo film per il cinema fu Il minestrone di Sergio Citti, seguirono presto collaborazioni con Salvatore Samperi, Liliana Cavani, Lina Wertmüller, Luciano De Crescenzo e l'allora esordiente Gabriele Salvatores. Ma a metà degli anni ottanta, il produttore Dino De Laurentiis, a cui Spinotti era stato segnalato dall’organizzatore di Interno Berlinese della Cavani, lo chiamò a fare i suoi primi film in America, non a Hollywood ma nel North Caroline, dove regole sindacali meno rigorose permettevano a De Laurentiis di fare film con budget più modesti e maestranze in parte italiane. Spinotti rievoca così la conversazione avuta con il leggendario produttore: “sto per produrre il film di un regista emergente. Ne ha già diretti un paio, ma credo che con questo possa fare la differenza. È un tuo coetaneo, sono sicuro che ti piacerà. Si chiama Michael Mann”.
Manhunter – Frammenti di un omicidio del 1986, prima apparizione sul grande schermo di Hannibal Lecter, segnò l’inizio della collaborazione tra Mann e Spinotti. Per il loro primo film insieme Mann consegnò come reference al suo direttore della fotografia il quadro L’impero delle luci di René Magritte e la sua stessa opera prima come regista, Strade violente. “L’idea di Mann era che se il male avesse avuto un colore, quello sarebbe stato il verde”, rievoca Spinotti. “La cosa era curiosa, ma allo stesso tempo preoccupante, poiché il verde, con le pellicole fotochimiche della Kodak, era tra i colori più difficili da realizzare”. Andando avanti nei provini, anche Spinotti introduceva la sua visione sul simbolismo dei colori, soffermandosi in particolare sul blu come colore dell’amore. “È per questo che in Manhunter esistono due colori dominanti: il verde per ogni scena di pericolo nella quale aleggia la presenza di Dollarhyde, e il blu per ogni scena di intimità tra il detective protagonista e sua moglie”.
Nonostante la difficile gestazione del film, accompagnata da contrasti tra Mann e De Laurentiis e da una vera e propria ribellione della troupe quando il regista decise di caricare le armi con proiettili veri per la sequenza finale, Manhunter fu un successo che lanciò la carriera hollywoodiana tanto del regista quanto del direttore della fotografia. La loro collaborazione successiva, L’ultimo dei Mohicani (1992), fu ancora più fortunata, e la fotografia, ispirata ai paesaggi di Friedrich, dell’Hudson River School e di Andrew Wyeth, fruttò a Spinotti la sua prima candidatura ai BAFTA.
Terzo capitolo del sodalizio con Mann fu invece Heat – La sfida, del 1995, il primo film in cui Robert De Niro e Al Pacino recitavano insieme, giudicato da Spinotti il suo film migliore; in questo caso, furono le opere della fotografa Nan Golding ad essere indicate da Mann a Spinotti come reference per la palette visiva del film. In Heat, la luce assume un ruolo particolarmente importante, dato che nella leggendaria sequenza finale è proprio grazie all’accensione ritmica delle luci dell’aeroporto che uno dei due protagonisti riesce a individuare le ombre dell’altro, uccidendolo dopo una reciproca caccia all’uomo durata l’intero film.
The Insider (1999), con Al Pacino e Russell Crowe, “un film complesso, articolato, per certi versi pericoloso”, fu la successiva collaborazione tra Spinotti e Mann, che lo spinse ad adottare uno stile di ripresa da “falso cinema verità”. Al quarto film insieme, Mann e Spinotti si spinsero ad adottare soluzioni sempre più sperimentali: quasi tutte le inquadrature erano con la camera a spalla o al limite con lo steadycam; “le poche volte che usavamo un cavalletto o un carrello Michael voleva che alla testata fosse appoggiato un sacco di sabbia, così che anche in quel caso le immagini risultassero instabili”. Per enfatizzare ulteriormente il carattere inquietante della narrazione, Mann e Spinotti concepirono delle inquadrature dal punto di vista del protagonista Russel Crowe che ribattezzarono inner shots: solo grazie all’utilizzo particolare di una Frazier Lens della Panavision, e illuminando pesantemente l’inquadratura, Spinotti riusciva a mettere a fuoco sia la montatura degli occhiali del protagonista che il contenuto della scena stessa. La collaborazione con Michael Mann si concluse poi con un quinto film insieme, Nemico Pubblico: senza rotture sul piano personale, nel libro Spinotti scrive candidamente che l’eccessiva e crescente volontà di controllo di Mann su tutti gli elementi del film, fotografia inclusa, li fece propendere per separare le loro strade.
Oltre a quella con Mann, che pure, per sua stessa ammissione, fu la più importante della sua carriera, e a quella con Ermanno Olmi e gli altri registi italiani prima citati, Dante Spinotti ha collaborato per periodi più o meno lunghi con svariati altri registi su entrambe le sponde dell’Atlantico, e a gran parte di loro dedica un ricordo ne Il sogno del cinema: nomi come Roberto Benigni, Giuseppe Tornatore, Garry Marshall, Barry Levinson, Paul Schrader, Michael Apted, Anthony Hopkins e Barbara Streisand nella doppia veste di attrice e registi, e anche Peyton Reed con il suo Ant-Man and the Wasp di casa Marvel si susseguono tra le pagine dell’autobiografia. Più che per i singoli aneddoti sulle collaborazioni con tutti loro, e più che sulle riflessioni forse fin troppo rapide sul passaggio dalla pellicola al digitale di cui Spinotti è stato uno degli alfieri, Il sogno del cinema resta impresso anche per la schiettezza con cui si racconta il periodo del #MeToo: sul finire del libro, dopo aver raccontato le loro variegate esperienze assieme su film come Red Dragon, X-Men ed Hercules, Spinotti si sofferma sullo shock provato quando il regista Brett Ratner si trovò ad essere accusato da ben sette diverse donne di stupro e di violenze. In maniera piuttosto equilibrata, Spinotti riconosce che “quel che conta è evidentemente ciò che non ho mai visto”, ma ribadisce di ritenere ingiusto il trattamento ricevuto dal regista, la cui carriera fu del tutto cancellata a causa dello scandalo.
Il sogno del cinema si conclude con alcune anticipazioni su The Alto Knights (o Wise Guys), nuovo, atteso, film del regista di Rain Man Barry Levinson dove Robert De Niro interpreta due diversi boss mafiosi degli anni cinquanta, Vito Genovese e Frank Costello. E se il racconto autobiografico di Spinotti aveva esordito dicendo che “i ragazzi della mia generazione conoscono la vera magia del cinema: le grandi divinità d’oltreoceano, la patina di fumo che separa lo sguardo dallo schermo, e le pellicole di cui si parlava per mesi – tutto questo non c’è più”, la passione e l’inventiva con cui si è impegnato nel progetto, rinnovando il suo codice fotografico di solito più aderente al realismo, dimostrano che a suo modo Spinotti è ancora addentro a un sogno che lui stesso contribuisce a generare. Cavalcata nei ricordi e negli aneddoti più che nei principi astratti o teorici, Il sogno del cinema è un’importante testimonianza impreziosita dalla prospettiva quasi apolide con cui uno dei più grandi professionisti del cinema ha potuto guardare indietro alla sua carriera e ai molti mondi attraversati.